Lacanau
Olivier
Adam
In piena notte la luce bianca era più fredda e cruda che mai. Ho posato
gli occhiali accanto al computer. Mi sono strofinata gli occhi. Nello specchio
vicino alle foto ho visto che erano arrossati. Ho guardato le mie bambine, i loro
sorrisi sospesi. Ho gironzolato tra le scrivanie, alcune allineate, altre a
scacchiera, quasi tutte coperte di documenti e pratiche in corso. Le tazzine di
plastica marrone formavano dei mucchi vicino ai posacenere pieni. Appesi al controsoffitto
macchiettato, i neon ronzavano per via di leggeri cali di tensione. I miei passi
risuonavano debolmente sul linoleum. Il caffè era bollente, l'ho bevuto
in piedi vicino agli ascensori. Dalla porta socchiusa intravedevo l'ufficio impeccabile
di Isabelle Cheveau. Se ne era andata due ore prima. Mi aveva detto: non voglio
scuse. mi aveva detto: la pratica deve essere sulla mia scrivania domattina, e
io avevo risposto: ma domani è il 25 dicembre, avevo risposto così,
con queste parole e quel tono piagnucoloso che la irritava e che a volte mi faceva
disgustare di me stessa. Stavo per mettermi a piangere. avevo quasi le lacrime
agli occhi, mi sono detta no, stavolta no, non puoi piangere di nuovo davanti
a lei, e ho stretto i denti fino a sentirli stridere, ho serrato le mascelle fino
a farmi male. "Cosa crede, Natale o no io domani lavoro", ha fatto.
"Ho una riunione il 26 all'alba e mi resta una giornata per preparare tutto.
E questo per colpa sua. Senza la sua pratica non posso andare avanti. Se non avesse
avuto tutto questo ritardo..." "Gliel'ho detto, mia figlia è
stata male". "Senta, non mi interessa. Io so soltanto che lei non
ha rispettato le scadenze. Mi spiace per lei. E anche per me, che dovrò
lavorare il giorno di Natale. Bene, non la trattengo, l'aspetta parecchio lavoro.
La saluto e mi raccomando, controlli bene tutti i dati, non voglio errori". Ho
finito il caffè. Sono entrata nel suo ufficio d'istinto. Mi sono seduta
sulla poltrona girevole, l'ho fatta ruotare, mi sono ritrovata di fronte alla
vetrata. Ero sola al quarantasettesimo piano del grattacielo. Da lassù
il piazzale era solo una piccola lastra di cemento. A quell'ora, con tutti gli
uffici chiusi, la Défense era una città fantasma, buia e inquietante.
Di fronte, alcune donne delle pulizie col grembiule rosa andavano e venivano,
quasi tutte di colore. Le ho guardate a lungo, trascinavano i carrelli sulla moquette
sbiadita, svuotavano i posacenere nei cestini, i cestini in grossi sacchi. Buttavano
via bicchieri di plastica e pezzi di carta, passavano un panno o una spugna sulle
scrivanie, spolveravano le tastiere dei computer, pulivano gli schermi. A volte
sparivano per qualche secondo e tornavano munite di un aspirapolvere che sembrava
pesare tonnellate. Mi sono chiesta verso che ora sarebbero arrivate quelle che
facevano i nostri locali. Non mi ero mai fermata tanto da vederle. Mi è
venuta voglia di chiamare le bambine ma mi sono trattenuta. Avevo ancora in testa
e nelle orecchie la voce strozzata della grande quando le avevo detto che avremmo
festeggiato il Natale l'indomani a pranzo, e aperto i regali a colazione. "Che
pacco che sei, mamma", aveva detto. "A pranzo è da sfigati. A
me piace la vigilia, di notte, con l'albero illuminato, cose così. E a
Margot adesso cosa le dico, è da stamattina che mi martella con Babbo Natale
e i pattini a rotelle che ha chiesto. E poi avevamo preparato i dolci di marzapane.
Che pacco. Se lo sapevo andavamo da papà". Ho acceso il computer
di Isabelle Cheveau. Come sfondo del desktop aveva solo delle figure geometriche
blu. Ho cliccato sui suoi documenti. Le cartelle si aprivano una dopo l'altra,
erano divise in pratiche in corso, imprescindibili o importanti, ordinate per
anno e per cliente. Sulla sua casella di posta sono arrivati tre messaggi, due
pubblicità per soggiorni in villaggio turistico a prezzi stracciati e uno
per un abbonamento a tariffa speciale al Gymnase Club. Ho fatto scorrere i messaggi
ricevuti, le copie di quelli inviati, ho cercato invano qualcosa che non fosse
strettamente professionale. Ho cliccato su Netscape Navigator. Dalla cronologia
delle connessioni non risultava altro che una lista impressionante di siti d'
informazione economica, giuridica e finanziaria. I cassetti della sua scrivania
erano in perfetto ordine. Dentro c'era una pila di cartelline grigie e chiuse,
con e senza elastici. Sul dorso delle cartelline, a caratteri sottili e precisi.
si leggevano date e nomi di clienti. Nell' ultimo cassetto ho trovato delle schede
di cartoncino. Erano le nostre valutazioni di fine anno. Per la maggior parte
erano compilate a matita, su alcune c'erano dei Post-it gialli che riportavano
osservazioni e obiettivi. Sulla mia si lamentava una mancanza di impegno. Ho pensato
alle quaranta ore settimanali che passavo lì dentro, alle due ore e mezza
di strada che facevo ogni giorno, alle mie figlie che si lamentavano perché
tornavo tardi e il bucato e le pulizie non erano fatti, la cena non era pronta,
che brontolavano quando il fine settimana mi sentivo troppo stanca per portarle
da qualsiasi parte, che finivano sempre col dire: almeno con papà ci divertiamo...
Ho pensato a tutto questo e a quello che c'era scritto lì. Ho tirato fuori
l'accendino, ho guardato le schede. Si è aperta la porta. È entrata
una donna con un grembiule verde. Aveva i capelli coperti da un fazzoletto colorato. "Buonasera.
Non c'è più la signora Cheveau in questo ufficio?", ha fatto. "Sì,
sì", ho risposto. "Stavo solo cercando una pratica". "Quello
che fa non mi riguarda. È solo che la signora Cheveau si ferma spesso fino
a tardi, lei invece non l'avevo mai vista". "Davvero? La vede spesso
la signora Cheveau?" "Che ne so, due o tre volte alla settimana.
Mi saluta e si rimette al computer, niente di più, sa com'è". Ho
richiuso il cassetto e sono uscita mentre lei svuotava il cestino. Sono tornata
alla mia scrivania, ho guardato le bambine nella foto. L'avevo scattata durante
le vacanze. Ridevano come pazze e dietro si vedeva la tela blu della tenda. Si
erano davvero divertite in campeggio. Volevano tornarci la prossima estate. A
me sarebbe piaciuto cambiare, andare in Italia, perché no, o in Spagna.
Ma alla fine l'avrebbero avuta vinta loro. Se volevano tornare a Lacanau ci saremmo
tornate. Del resto mi piacevano le dune immense coi ciuffi di erba alta e il mare
con i suoi cavalloni che hai l'impressione di annegare mille volte al giorno.
I sentieri di sabbia compatta coperti di aghi di pino, i tronchi rossi sotto le
cortecce, i profumi e le gocce di sudore sulla fronte. Questa volta avremmo noleggiato
delle biciclette. Piste di cemento rosso serpeggiavano tra gli alberi, andavano
dal campeggio al paese e dal paese alla spiaggia. Ho
sfogliato la pila di pratiche che mi restavano da controllare. Ho guardato l'ora.
Era quasi mezzanotte. Ho calcolato rapidamente che se mi mettevo d'impegno ne
avrei avuto per tre ore. Avevo un po' fame, ma avrei aspettato di essere a casa.
A quell'ora era tutto chiuso, per trovare un panino bisognava prendere la metropolitana. In
un ufficio di fronte si è accesa la luce. Sono entrati un uomo e una donna.
Li ho guardati baciarsi e lui l'ha sollevata e l'ha messa seduta su una grande
scrivania nera. Ha cominciato a baciarla sul collo e a massaggiarle le cosce.
Poi si è interrotto, si è avvicinato alla vetrata. Lei gli ha mostrato
qualcosa. Ci ho messo un po' a capire che stava indicando me. Lui mi ha fatto
un cenno. Gli ho risposto. Ha abbassato la tapparella. Ad alta voce, come rivolta
a loro, ho sussurrato buon Natale. Poi ho pensato che dall'ultima volta che avevo
fatto l'amore dovevano essere passati quattro o cinque mesi. Lui gestiva il bar
del campeggio. Era dolce e gentile. Mi faceva ridere. La grande si era accorta
di tutto e mi aveva detto che mi trovava patetica. D'un tratto mi sono resa conto
che aveva quattordici anni e che a quell'età sapeva più o meno tutto
ciò che c'è da sapere sulla vita. Mi sono rimessa al lavoro.
La donna delle pulizie si spostava lentamente. andava da una scrivania all'altra,
passava la spugna, lo straccio, alzava oggetti che si preoccupava di rimettere
esattamente al loro posto. Mi sono chiesta se era sempre così scrupolosa
o se lo faceva solo perché c'ero io. Nel giro di pochi minuti è
arrivata da me e mi ha domandato se volevo che mi pulisse la scrivania, ci avrebbe
messo un attimo. Ho risposto che la mia poteva aspettare. "Ah, allora
c'è lei qui". "Sì, è il mio posto". "Tutte
le volte che vengo mi siedo a fare la pausa alla sua scrivania. Mi fumo una sigaretta.
Non le dispiace, vero?" "No, per niente". "E per via della
foto. Le sue figlie sono così carine. Soprattutto la piccola. È
proprio buffa con quei dentini". Ho annuito e lei mi ha sorriso. "Così
non la faccio lavorare. Comunque stasera mi sbrigo presto. È Natale, non
voglio tornare a casa troppo tardi". L'ho guardata allontanarsi trascinando
il suo carrello. Mi è sembrato che canticchiasse. Prima
di andarsene mi ha gridato arrivederci. Ho sbadigliato, ero stanca morta. Avevo
paura di addormentarmi seduta davanti al computer acceso. In bagno mi sono passata
un po' d'acqua sul viso. Verso le due e mezzo del mattino è squillato il
mio telefono. Ho avuto un tuffo al cuore, per paura che fossero le bambine, che
fosse successo qualcosa, un ladro o un incendio nell'appartamento. Ho risposto
edera Isabelle Cheveau. Voleva assicurarsi che avrei finito il lavoro, che avrei
messo tutto sulla sua scrivania e trasferito i file sul suo computer. Ho risposto
di sì, che avrei fatto tutto e ho riagganciato. Ad alta voce ho detto brutta
stronza e poi vai a farti fottere. Ho pianto ma era solo stanchezza e rabbia.
Pensavo alle mie bambine in quell'appartamento triste, mi sono detta che avrei
dovuto arredarlo un po' meglio, metterci dei colori, stoffe, tappeti, poster,
ho pensato ai regali che avevo comprato e mi sono sentita tirchia. Mi sono chiesta
dove avrei potuto trovare dei giocattoli, ma ovviamente a quell'ora non si trovava
niente, tantomeno la notte di Natale. Ho sbrigato gli ultimi otto documenti. Non
ho avuto la forza di rileggerli. Ho stampato tutto e spento il computer. La
strada era deserta. Ogni cosa sembrava morta o spenta. Alla radio passavano canzoni
natalizie ed era surreale guidare nella notte ascoltando quella roba. Ogni tanto
mi si chiudevano gli occhi. Avrei potuto addormentarmi piano piano. Ero avvolta
da quel tepore ovattato che precede il sonno. Quando la macchina è uscita
di strada non ho sentito niente. Poi c'è stato un urto, penso di aver gridato,
è scattato l'airbag, ho sentito un rumore di lamiera sfondata, di metallo,
di vetri rotti e tutto si è spento di colpo. Le luci, il motore, la musica.
Sono scesa dalla macchina e ho capito che avevo sbandato ed ero finita nel fosso
lungo la carreggiata. Avevo i fari anteriori rotti, una ruota bucata e il paraurti
sfasciato. Ho sentito una voce alle mie spalle. "Sta bene. signora?" Era
un uomo robusto con un berretto foderato di lana bianca e una camicia da taglialegna.
Dietro di lui era parcheggiato un camion con le luci e il motore accesi. Ero immobile,
incapace del benché minimo gesto, di articolare anche solo una parola.
Battevo i denti per il freddo ma non avevo nemmeno la forza di abbottonarmi la
giacca. L'uomo ha detto che avrebbe chiamato un carro attrezzi. Mi ha domandato
se avevo un'assicurazione o qualche tipo di assistenza. Ho sfilato il portafoglio
dalla tasca e gliel'ho dato. Ha frugato, ha tirato fuori un foglio verde e ha
composto un numero sul suo cellulare. Con l'orecchio incollato al telefono mi
ha detto che mi conveniva salire sul camion, al caldo. Accanto al suo sedile c'era
del caffè, dovevo solo servirmi. Mi sono diretta verso l'enorme abitacolo.
Mi sono arrampicata sul sedile di pelle e ho chiuso la portiera. Si stava proprio
bene lì, alla radio trasmettevano canzoni country, dallo specchietto retrovisore
penzolavano dei ciondoli e il tetto era quasi completamente tappezzato di foto.
Molte di queste ritraevano la stessa donna. Doveva essere sulla quarantina, capelli
biondi un po' brizzolati. C'era anche lui, una birra in mano, o in un giardino
con altre persone, davanti a un barbecue da cui saliva un fumo denso. Tra i due
sedili erano impilate cartine sgualcite, riviste sportive e fogli scarabocchiati.
Dopo qualche minuto mi ha raggiunta e si è seduto al volante. Si è
sfregato le mani dicendo: fa un freddo cane. Ho aperto il thermos e gli ho versato
una tazza di caffè. "È ancora caldo", ho fatto. "Ah,
vedo che ha ritrovato la lingua". Non sapevo cosa rispondere. Mi sono
sentita piccola e stupida, avevo la sensazione confusa di essere una bambina colta
in flagrante e lui mi ricordava certi zii che alle riunioni di famiglia ti fanno
sempre domande un po' imbarazzanti. "Aspettiamo il carro attrezzi e poi
la riporto a casa. Se non abita troppo lontano. Altrimenti le chiameranno un taxi". Abbiamo
aspettato così per dieci minuti buoni e il carro attrezzi è arrivato.
E sceso un uomo e vedendolo ho pensato che quando l'avevano chiamato per dirgli
che c'era un soccorso urgente doveva starsene tranquillo a casa sua, magari stava
dormendo con la moglie, avevano cenato tardi, una volta tanto senza guardare la
televisione e verso mezzanotte lei gli aveva regalato una canna da pesca nuova.
Tutt'a un tratto mi sono vergognata. "Che cos'è successo?" "Mi
sono addormentata". "Aveva bevuto?" "No, ero stanca,
ho lavorato fino a tardi". "Sì, ma bisogna stare attenti lo
stesso. Anch'io lavoro fino a tardi e quel signore lì pure; se ogni volta
che uno è stanco si addormenta stiamo freschi". Si è seduto
al volante, si è accertato che non funzionasse più niente. Dopodiché
ha fissato un gancio enorme sotto la macchina e l'ha collegata al carro attrezzi
con un grosso cavo di acciaio. È salito sul suo mezzo, ha messo in moto
e io ho guardato la mia vecchia macchina venire fuori dal fosso. Avevo
in tasca l'indirizzo dell'officina, dal 26 in poi avrei potuto chiamare per sapere
l'entità dei danni e l'importo delle riparazioni. Il tizio aveva detto
che non era niente di grave, ma che alle assicurazioni non piacciono quelli che
si addormentano al volante. Ho cercato di scacciare l'angoscia che mi assaliva
al pensiero di quanto avrei dovuto sborsare per recuperare la macchina, non avevo
un soldo da parte. Quando ancora vivevamo insieme Patrick mi rimproverava sempre
per questo. sei una spendacciona, diceva, e io facevo i conti e non vedevo altro
che spese per mangiare o per vestire le bambine, e poi il gas, la luce, il telefono,
l'affitto e nient'altro. Siamo
tornati sul camion. Il tizio mi ha domandato se stavo bene. Ho risposto di sì,
che stavo bene ma che avevo sonno. Ha tirato fuori una coperta e un cuscino da
dietro i sedili. Me li ha passati. Gli ho detto l'indirizzo e lui ha messo in
moto. Non ho dormito ma era piacevole tenere gli occhi chiusi e ascoltare il motore
e la musica a basso volume, sentire lui che tossiva, si accendeva una sigaretta,
tamburellava con le dita sul volante, si grattava le guance e ogni tanto sospirava. Mi
ha lasciata all'inizio dell'isolato. Volevo dargli quindici euro per il disturbo
ma non li ha accettati. Ho insistito dicendo che gli avevo fatto perdere tempo,
che era la notte di Natale, mi ha detto che comunque quando mi aveva vista stava
per fare una sosta, dormire due o tre ore, adesso invece avrebbe continuato a
guidare. nessun problema. Gli ho detto di essere prudente. Mi ha augurato buon
Natale e il grosso camion si è allontanato. Aveva fretta di tornare a casa,
ci sarebbe arrivato solo nel fine settimana. gli mancavano i suoi bambini, si
rimproverava di non essere riuscito a passare il Natale con loro, così
aveva detto a un certo punto. Non
ho acceso la luce. Sospettavo che non fossero in camera loro. Nella penombra ho
visto la sagoma della grande addormentata sui divano. Le luci dell'albero lanmpeggiavano
e illuminavano a intermittenza il viso di Margot. Aveva messo una coperta sul
pavimento, l'aveva stesa sotto l'albero e dormiva lì. Sono andata a prendere
i regali in garage. Li ho disposti al centro del salotto. La piccola ha aperto
gli occhi. Sembrava stupita di vedermi. Poi ho capito che era perché avevo
i regali tra le braccia. "Babbo Natale li ha lasciati davanti alla porta.
Te l'avevo detto che arriva solo se è sicuro che i bambini dormono nella
loro cameretta". E sembrata rassicurata, si è svegliata del tutto
sfregandosi gli occhi, mi ha dato un bacio e si è messa a saltellare per
la stanza, ad agitarsi nel suo pigiama cacciando gridolini isterici. La grande
si è rigirata più volte, ha borbottato che stava dormendo, si è
nascosta sotto le coperte e ha finito coll'aprire gli occhi. "Ciao mamma.
Che ore sono?" "Le cinque del mattino. Babbo Natale è passato". Le
ho guardate sedersi sul tappeto. A ogni pacchetto Margot diceva: wow, proprio
quello che volevo. La grande mi lanciava occhiate che dicevano grazie a ogni disco
o video-cassetta che scartava. Mi sono sdraiata sul divano. Ho preso un dolce
di marzapane dal tavolino. Era rosa con due gherigli di noce intorno. Ho chiuso
gli occhi e ho ripensato al tizio del camion. a quello che mi aveva detto a un
certo punto, che anche lui andava in vacanza al campeggio di Lacanau. che ormai
da tempo si portava le biciclette ed era proprio bello correre sugli aghi di pino,
inoltrarsi tra gli alberi alti. sbucare sulla duna. Mi sono detta che sarebbe
stato buffo incontrarsi lì la prossima estate.
(Racconto tratto
da Passare l'inverno, Minimum Fax, Roma, 2006.Traduzione da Elisa Artuffo,
Lilia Barmina, Teresa Benincasa, Ester Borgese, Alessandra Bussolino, Monica Cirtoli,
Dario Gianozzi, Sara Merlino e Alessandra Molino.)
Olivier Adam è nato nella banlieue parigina nel 1974. Oltre alla Passare
l'inverno, che ha vinto la Bourse Goncourt de la Nouvelle nel 2004, ha al
suo attivo altri sette romanzi.
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