A cos'è
servito?
- Brano del romanzo L'amore
degli insorti - Stefano
Tassinari
(...) Mi sdraio sul letto per cercare di rilassarmi e recuperare un po' d'energia.
Anche stavolta ho la sensazione di tornare indietro, a quando m'incazzavo con
me stesso per la mia difficoltà di controllare le emozioni nei frangenti
difficili, pensando sempre a come sarei stato fregato subito se anche in Italia
avessero usato la macchina della verità. Andavo in paranoia alla sola idea
di dover presentare un documento falso a un poliziotto, o di aprire la porta a
una vicina di casa in cerca di un cavatappi. Episodi comuni, da affrontare con
assoluta calma, e invece io ero già in panico prima ancora di viverli.
In fondo, non sono mai stato un buon combattente. Per anni mi sono chiesto,
per esempio, se sia stato giusto sfilarmi dall'organizzazione dalla sera alla
mattina, senza fornire spiegazioni, ma solo annunciando il mio distacco. In un
esercito normale questo gesto si chiama diserzione. Poi ho passato mesi a giustificarmi,
a dirmi che le sconfitte vanno accettate, a convincermi che se non l'avessi fatto
ci avrebbero pensato gli altri, lasciandomi comunque solo. Realismo o codardia?
Non saprei, ma alla fine mi sono salvato la pelle, osservando dall'esterno la
rapida disfatta alla quale siamo andati incontro. Dico siamo, anche se, a differenza
di tanti altri, non riesco a immaginarmi in nessuna categoria: gli ex, i post,
i già, i dissociati, i pentiti, gli irriducibili, quelli dell'area omogenea,
i cani sciolti che stanno ancora in galera senza dire una parola. Ma non mi sento
nemmeno un disertore, uno che si strappa la divisa, va incontro al nemico a braccia
alzate e passa dalla sua parte, come ho visto fare a molti, gente che falsifica
la Storia a colpi di spocchiosi editoriali, o di "asservizi" televisivi,
pagati trenta denari al pezzo. Con questi ho ancora il dente avvelenato, appena
ammorbidito dalla coscienza delle mie contraddizioni. Perciò li giudico
senza andare oltre, con la rabbia trattenuta a stento e l'obbligo a mantenere
qualche vuoto di memoria. Mi chiedo perché, in tutti questi anni, non
mi siano mai venuti in mente, né loro né quelli ai quali avrei potuto
regalare un fiore con la fantasia, mentre solo adesso m'affollano ogni sguardo,
come se avessi saltato a piedi pari cinque lustri, un quarto di secolo, un terzo
della vita media di chiunque... Un'enormità, ignorata per passare al setaccio
qualche grumo d'esistenza, da sciogliere di colpo a gioco fermo. E quando la visione
mi appare nitida posso mettermi in disparte, osservando come un passante qualsiasi
la disparità delle forze in campo, il raziocinio contro l'illusione, il
cinismo delle loro azioni a tenaglia contro la spontaneità delle nostre
barricate. Un divario insopportabile, che anch'io ho tentato di colmare ponendomi
sullo stesso piano, con in testa la mia interpretazione di quella che chiamavamo
la "pratica dell'obiettivo". Quindi pistola contro pistola, mitra contro
mitra, effetto sorpresa contro repressione organizzata. Nulla più che una
forma di autodifesa degli spazi, con qualche rilancio da effettuare al momento
giusto. Nella visione li vedo muoversi a schiera, circondare interi edifici,
sfasciare a colpi di piccone le porte di casa di persone ignare, mettersi in tasca
tutto quello che trovano, a partire dai soldi, minacciare chiunque protesti e
poi tornare in strada, sudati e orgogliosi, a urlare ai quattro venti che "la
legge lo consente". È vero, la legge consentiva loro queste e altre
nefandezze, come sequestrare i "sospetti" per tre giorni senza avvisare
le famiglie e gli avvocati, blindare per anni la gente in una cella senza processarla,
confinare su un'isola gli indesiderabili, riempire di microfoni migliaia di vite
e puntare un mitra in faccia a chiunque avesse l'aria di non starci. Anche per
questo ho preso in mano un'arma, solo che oggi nessuno si ricorda delle cause,
ma solo degli effetti, in primo luogo i morti, sempre e soltanto i loro. E di
quelli non ho pietà, se non di alcuni, uccisi per caso o per calcoli sbagliati.
La gran parte era responsabile di qualcosa: di aver utilizzato le proprie conoscenze
per fottere gli operai, di essere stati i promotori di centinaia di arresti illegali,
di aver diretto partiti corrotti, organizzato le stragi di stato, preso ordini
dagli americani, promosso e finanziato gruppi golpisti e coperto i traffici della
mafia. Per non parlare dei cosiddetti pesci piccoli, che magari se la sono cavata
a buon mercato, con un po' di spavento o qualche buco nelle gambe: speculatori
immobiliari, caporali, pennivendoli, mandanti di stupri politici contro le operaie
sindacalizzate, tutta gente che, in quell'Italia, non avrebbe mai fatto un solo
giorno di galera. Gente di rispetto, amici degli amici, carrieristi massoni, riciclatori
di denaro sporco... Tutti tranquilli, finché non siamo arrivati noi a farli
vivere con la paura, a farli girare con la scorta, a farli passare, di colpo,
dal ruolo di potenti e intoccabili a quello di deboli e vulnerabili. E se in mezzo
a loro c'è finita qualche brava persona mi dispiace, ma in guerra è
così, da sempre, e le guerre non le abbiamo inventate noi, casomai ce le
hanno fatte subire. Mi torna tutto su, di nuovo, e ogni volta che mi accade
è come se il diaframma mi si bloccasse all'altezza del cuore, stringendo
d'assedio il mio respiro e le mie emozioni. Capita ancor di più quando
con la memoria sale anche la domanda che non riesco a tollerare, quell'imbarazzante
"a cos'è servito?" dalla risposta scontata. A niente, hanno detto
in tanti, voltando il viso dall'altra parte. A far marcire in galera migliaia
di compagni, ha aggiunto qualcuno. A rafforzare il loro potere, ha chiosato qualcun
altro, mentre per l'uomo della strada, le istituzioni, le televisioni, il sentire
comune, il sentito dire, il politicamente corretto, i nuovi angeli della non violenza,
i giudicanti e anche certi giudicati è stato tutto un generare lutti, seminare
tempeste, aizzare odio, creare fratture insanabili e trascinare il paese nella
barbarie, come se treni, stazioni e aerei saltati in aria fossero stati esempi
di convivenza civile... Mi manca il fiato, e mi mancano anche le parole, quelle
che ripeto a me stesso non potendolo fare con nessun altro, costretto a vestire
i panni del bravo padre di famiglia, del professionista serio e affidabile, del
cittadino che ha a cuore le sorti dello Stato, quando lo Stato l'avrei ridotto
volentieri in ginocchio, godendo nel vederlo implorare come un prigioniero senza
scampo, con le manette ai polsi e i piedi immersi nel fango. Ho vissuto nella
doppiezza, in equilibrio perenne tra i rigurgiti minoritari e lo spirito di adattamento,
snocciolando ogni giorno i dati del mio nuovo fatturato esistenziale. È
che non avevo previsto di dover stilare un bilancio a mezza via, con troppe voci
mai dichiarate e altre lasciate in bianco. (...)
(Tratto dal
romanzo L'amore degli insorti, Marco Tropea Editore, Milano, 2005.)
Stefano Tassinari è nato nel 1955 a Ferrara e
vive a Bologna. È autore di romanzi e racconti, tra i quali ricordiamo All'idea
che sopraggiunge (Corpo 10, 1987), Ai soli distanti (Mobbydick, 1997),
Assalti al cielo (Calderini, 1998, Perdisa, 2000), L'ora del ritorno
(Marco Tropea, 2001) e I segni sulla pelle (Marco Tropea, 2003).
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