MAI TARDI
Nuto
Revelli
6
settembre.
Ore 8: messa al campo. Ogni tanto arriva qualche colpo di mortaio.
Per distrarmi cavalco una motocicletta dei bersaglieri, poi un
ronzino sbandato e decrepito. Ricevo da Anna la lettera n. 14,
e da casa notizie tristi: leggo tra le righe che la nonna sta
male.
5
settembre.
Nel mattino, addestramento al combattimento. Riceviamo notizie
dettagliate sull'attacco del 1° settembre. I battaglioni
Vestone e Val Chiese del 6° alpini sono penetrati in profondità senza
protezione alcuna e senza la minima probabilità di raggiungere
lo scopo. Si dice che sia mancata l'azione di appoggio sui fianchi
da parte dei tedeschi. Dopo un grave sacrificio iniziale, gli
alpini dovettero ripiegare sulle basi di partenza. Dieci ufficiali
ed oltre cinquecento alpini morti.
7
settembre.
Giornata nuvolosa. Siamo sempre al laghetto: le truppe si lavano,
ufficialmente provvedono alla spidocchiatura. Un caso di scabbia.
Undici nostri caccia scendono in picchiata e mitragliano le linee
nemiche.
Arrivano le prime circolari degli alti comandi. Un foglio “segretissimo” parla
di spie tedesche ed italiane infiltrate tra i russi. In previsione
che queste spie un giorno o l'altro rientrino alle nostre linee,
tutti i reparti devono conoscere le “parole d'ordine”:
le spie tedesche grideranno “Nulli devà”,
le spie italiane “Olga”... Nel commentare questa
favola sorridiamo amaramente: la “parola d'ordine” italiana è un
po' troppo frivola e suona falsa, ancora una volta abbiamo voluto
scimmiottare i tedeschi.
Con una seconda circolare i nostri capi prospettano già le
gravi difficoltà nei rifornimenti, in vista delle piogge
e dell'inverno. Ormai siamo “orientati”: tireremo
cinghia.
Le nostre salmerie abbandonate a Gorlovka sono ancora in viaggio.
Di fronte a noi, in linea, sono schierati i resti del 3° e
del 6° bersaglieri, reparti valorosissimi e spaventosamente
provati. Si dice che i resti di alcune compagnie, pochi uomini,
siano al comando di sottufficiali. Il tutto dipende dal comando
della divisione Celere, dal comando responsabile del massacro
del 1° settembre!
8
settembre.
Nella notte, intenso bombardamento d'artiglieria. Una trentina
di colpi di mortaio cadono a pochi passi dal nostro accampamento.
Al mattino, addestramento al combattimento per dimostrare agli
alpini che questa guerra su terreno piatto è ben diversa
dalla guerra di montagna. Qui è molto piú facile
morire: il massacro del Vestone e del Val Chiese è la
conferma piú eloquente.
Abbiamo appreso altri particolari sul primo sacrificio degli
alpini in Russia. L'ordine di operazioni prevedeva che due colonne
corazzate tedesche proteggessero sui fianchi il Vestone ed il
Val Chiese in movimento. Alle ore 4, dopo un intenso fuoco di
preparazione della nostra artiglieria, l'aviazione italiana avrebbe
dovuto spezzonare e bombardare le linee russe. Soltanto ad azione
aerea ultimata, i battaglioni alpini sarebbero balzati all'attacco.
Ecco come il Vestone ed il Val Chiese andarono al massacro.
La vigilia del 1° settembre i tedeschi segnalano che le colonne
corazzate previste dal nostro ordine di operazioni dovranno operare
in un altro settore: come se non bastasse, aggiungono che le
colonne hanno già raggiunto un altro settore.
Il comando tattico da cui dipendiamo avrebbe risposto sdegnosamente: “Faremo
da soli”.
Si raccolgono una ventina di carri armati leggeri della divisione
Celere, una ventina di scatolette di latta: si crede di sostituire
cosí i panzer tedeschi.
Con l'alba del 1° settembre, alle 5, l'aviazione italiana
non è ancora comparsa. Il comandante delle truppe chiede
ordini al comando superiore, al comando della divisione Celere.
L'ordine è di balzare all'attacco.
Il terreno è piatto, raso come un tavolo, in leggera pendenza.
Curvi, sotto i pesanti zaini affardellati, gli alpini cominciano
a muovere correndo. Un primo balzo, poi un intenso fuoco di mortai
e di artiglieria sbanda i reparti. Un battaglione deve sostare,
l'altro avanza e supera i capisaldi russi. I nostri... carri
armati, sballottati di qua e di là, hanno le torrette
aperte: i carristi, con fucilate e lancio di bombe a mano, tentano
disperatamente di neutralizzare i fuciloni calibro 20 affondati
nelle sterpaglie. Basta un colpo di fucile per immobilizzare
i nostri... carri armati!
Perdite immense, sacrificio inutile di centinaia di alpini e
dei migliori ufficiali: questo il triste bilancio dell'azione
che sarebbe spettata al Tiràno ed al Morbegno se non fossero
morti il maggiore Volpatti ed il capitano Giamminola.
Il
25 settembre, alle 0,15, l'alpino Castellini, di guardia al
baracchino del comando compagnia, dà l'allarme. Infiliamo
il cappotto, in fretta e furia afferriamo qualche bomba a mano
ed il parabellum, raggiungiamo di corsa il II plotone.
Lungo la nostra linea, qualche fucilata, qualche raffica. Le
vedette segnalano di aver avvistato un pattuglione di una cinquantina
di uomini: i russi erano acquattati, a tratti quattro o cinque
in gruppo affioravano tra le sterpaglie, si alzavano in piedi
per osservare meglio.
Diffido delle vedette, allarmi falsi ne abbiamo già avuti
parecchi: la stanchezza, il nervosismo, il vitto scarso aiutano
a confondere gli arbusti con le pattuglie russe...
De Minerbi esce dalle linee con un fucile mitragliatore. Una
pattuglia della mia squadra esploratori mi raggiunge nel camminamento.
Si discute, si decide di uscire dalle linee, di avanzare un centinaio
di metri. Escono anche Grandi, De Filippis ed alcuni alpini.
Restano nei camminamenti soltanto due ufficiali, Perego e Guicciardi.
Avanziamo decisi, senza tante precauzioni. Il caporalmaggiore
Apollonio, il piú coraggioso degli esploratori, è al
mio fianco. Sostiamo tra le erbacce.
Apollonio mi dice che vede alcune ombre: me le indica con il
braccio teso. “È là che viene curvo”,
mi dice.
De Filippis, per osservare meglio, avanza di quattro o cinque
passi. Apollonio, che indietro non vuoi mai restare, lo raggiunge.
Mi sposto, mi piazzo sulla sinistra di Apollonio, a mezzo metro
da lui.
Parte una lunga raffica, da brevissima distanza. Apollonio cade
rantolando. Mi piego per sorreggerlo, parte un'altra raffica,
sento uno strappo violento e un bruciore al braccio sinistro.
Non ci faccio caso.
Apollonio implora aiuto. Lo afferro con il braccio destro, ma
si lamenta. Mi dice: “Mi fate male”. Chiedo che mi
carichino a spalle il ferito, voglio portarlo in linea a tutti
i costi: ma gli alpini stanno immobili, fanno i morti. De Filippis
lo afferra per le braccia, io lo afferro per un piede. Grandi
e De Minerbi, con raffiche precise, tengono a testa bassa i russi.
Correndo, trasciniamo Apollonio in linea.
Lo sdraiamo nel camminamento. Ho le mani intrise di sangue. Sta
male, Apollonio, soffre molto e si lamenta. La sparatoria continua,
adesso stanno sparando tutte le armi di postazione.
Arrivano i portaferiti, trasportano Apollonio al posto di medicazione.
Sento il sangue caldo che scorre lungo il braccio: la ferita
comincia a bruciare. Il sottotenente Talucci della 48 mi fascia
con il suo pacchetto di medicazioni. Resto in linea ancora mezz'ora,
poi raggiungo l'infermeria.
Chiappa sta medicando la ferita più grave di Apollonio:
due buchi grossi come il pollice, uno al ventre e l'altro d'uscita
nella schiena: anche il polso della mano destra butta sangue.
Mi sento male, ho una gran voglia di vomitare: fumo una sigaretta
dopo l'altra.
In linea ricominciano le sparatorie violente: mortai e artiglierie
iniziano un fuoco di sbarramento. Razzi rossi e bianchi solcano
il cielo. Un'autoambulanza porta via Apollonio.
Ritorno in linea. Soltanto alle 3,30, con il fronte definitivamente
calmo, abbandono il camminamento piú avanzato e raggiungo
il comando di compagnia. Chiappa, nel disinfettarmi la ferita,
fa una smorfia, come se il bicipite sbrindellato non gli piacesse
troppo. Arriva il maggiore Zaccardo: telefona al comando battaglione,
chiede che la sua camionetta raggiunga subito quota 228.
Alle 3,45, con Balossi, lascio la linea. Poco prima della sezione
di sanità incontriamo un'autoambulanza: scendiamo dalla
camionetta di Zaccardo, proseguiamo con l'autoambulanza.
Alla sezione di sanità svegliano il capitano medico Prada:
si fa in quattro, mi medica, mi fa l'antitetanica, mi offre un
liquore. Poi raggiungiamo l'ospedaletto da campo 618.
Apollonio è sotto
i ferri, lo stanno operando. Aspetto un'ora. La prognosi è pessimistica.
Poi tocca a me: mi stendono sulla lettiga, anestesia locale,
tagliano e cuciono i nervi, applicano un drenaggio, asportano
la carne bruciata. Sento lo sforbiciare del chirurgo. Il direttore
dell'ospedale, capitano medico Deotto, mi sorregge, mi offre
una sigaretta dopo l'altra. Mi offrono un cognac, ma insisto
perché lo riservino per il... momento buono. L'intervento
dura venti minuti. A cose fatte, prima di andarmene, ringrazio
e butto giú il cognac.
Spero che Apollonio si salvi. Alle 19 apprendo che è grave
e lo raggiungo.
Geme, rantola, chiede acqua, grida che brucia, butta via le coperte,
morde il guanciale. Soffre tremendamente. Si arrabbia con i medici,
dice che l'hanno anche operato di appendicite...
28
settembre.
Apollonio è morto il 26 mattina, dopo una notte di tremende
sofferenze. Ho voluto una branda accanto al suo letto, ho seguito
le sue ultime ore di vita. Verso le 4 è riuscito a parlarmi: “Ciao,
Revelli. Hanno poi trovato il mio fucile? La pattuglia com'è andata?
Quando andremo di nuovo? Ma mi mori, mori per la patria”,
e parve addormentarsi. Alle 6 dormiva tranquillo; poi d'un tratto
spirò.
I conducenti del battaglione hanno fabbricato una cassa. L'ospedale,
per mancanza di legname, ha sempre avvolto i caduti in un lenzuolo.
Il funerale è stato il piú solenne possibile: i
nostri conducenti funzionavano da picchetto armato. Il capitano
Deotto mi dice che probabilmente proporranno Apollonio per la
medaglia d'oro.
(...)
Alle 16 arriva il colonnello direttore dell'Unione Militare.
I piantoni dicono che sovente il colonnello si rifiuta di ricevere,
non rilascia buoni. Comincia una lunga trafila, il motivo del
colloquio, ecc. ecc. Dopo mezz'ora il colonnello mi riceve.
E un tipo pieno d'arie, fa cadere dall'alto un mísero
buono per un paio di mutande e due di calze.
Come lascio l'ufficio del colonnello vedo che l'Intendenza è piena
di gente, di imboscati. In ogni ufficio tre o quattro ufficialetti,
tutti grassi e tutti belli: sono i figli di papà alla
caccia di nastrini!
Con Angelini ritorno all'Unione Militare. Sull'entrata dell'emporio
un carabiniere controlla il buono, ci permette di entrare. Tutte
le scansie sono letteralmente vuote. Dietro a tre tavoli, un
cassiere e due impiegati. Devo compilare due stampati. Mi chiedono
i documenti di riconoscimento, registrano i miei dati su una
rubrica.
Tanto rigore dice che dev'essere successo qualcosa di grave.
Il cassiere, un giovane di Torino, ci racconta questa storia: “L'Unione
Militare decise di immagazzinare in un grande centro delle retrovie
russe un'ingentissima quantità di vestiario, scarpe, equipaggiamento.
Un servizio di autocarri avrebbe poi dovuto smistare tutta la
merce verso le immediate retrovie del fronte, servendo gli ufficiali
e le truppe di linea. Partirono dall'Italia le tradotte di vestiario,
stoffa, manufatti di lana, stivali, scarpe, ecc. Raggiunsero
Voroscilovgrad. Nel giro di quindici giorni l'Unione Militare
svuotò i magazzini vendendo tutta la merce ai civili russi,
a prezzi favolosi”.
Quando ormai i gangsters italiani avevano concluso l'affare,
scoppiò lo scandalo. I puri militari dell'Intendenza aprirono
un'inchiesta. Certo, i colpevoli dovrebbero finire al muro. E
se li promuovessero di grado?
Usciamo, con la speranza di respirare un po' d'aria meno fetida.
In giro non si vedono che ufficialetti in diagonale e stivaloni.
E sono pieni di arie i conquistatori, i figli di papà.
Si vedono capitani e maggiori con straccione e sgualdrine sottobraccio.
L'indomani torno ad uscire. Osservo con più attenzione
i negozi, i bazar. I prezzi sono favolosi: un'icona di latta
costa trecento marchi. In certi negozi si possono comprare sigarette
italiane di ogni qualità, dalle Popolari alle Tre Stelle.
E farsetti a maglia, scarponcelli, mantelle, insomma tutto l'equipaggiamento
in dotazione al regio esercito.
Non riesco piú a stupirmi di nulla. Perfino in linea si
diceva che nelle retrovie i baldi ufficiali italiani si arricchivano
commerciando: si diceva che in alcune città gli ufficiali
italiani vendevano tranquillamente sui mercati, al dettaglio,
sigarette, viveri, equipaggiamento.
Mentre mi dibatto tra queste malinconie, mi viene incontro una
colonna di partigiani, di borghesi, una ventina di uomini incolonnati
per due, tra i fucili spianati.
Camminano a testa alta, sanno dove vanno!
Li guardo con grande ammirazione. Il contrasto tra le nostre
retrovie e queste vittime predestinate mi umilia. Non siamo che
straccioni, con arie e pretese da signori.
A sera, rientrando all'ospedale, incontro un ufficiale medico
che conosco. Dovrà sostare un attimo presso la casa di
tolleranza organizzata dai nostri comandi per la soldataglia
di Voroscilovgrad: insiste perché lo accompagni.
La casa è sistemata in uno stabile decente. Un carabiniere
controlla i documenti militari dei clienti. Al piano terreno
funziona l'ambulatorio con il medico di guardia: è prescritta
la visita medica all'entrata, la disinfezione anticeltica all'uscita.
L'impianto della casa non fu facile. Fu diramato un invito alle
donne russe della città: con la fame e la miseria furono
centinaia le candidate. Ma la visita medica le bocciò quasi
tutte, perché denutrite o malate. Comunque il lavoro ebbe
inizio, ma dopo pochi giorni anche le poche prescelte furono
licenziate perché non resistevano. Si ricorse allora a
donne rumene.
Anche
in queste lontane retrovie sono già stati distribuiti
i pacchi del treno APE1: Vidussoni ed altri gerarchi fascisti
funzionarono da Befana.
I pacchi, offerti dalla provincia di Milano, erano destinati
soltanto ai milanesi dell'ARMIR. I comandi fecero i conti, decisero
di accontentare tutti, milanesi e non milanesi, distribuendo
un pacco ogni cinque soldati.
Mi raccontano che in una batteria dell'artiglieria alpina, dove
coraggiosamente si era spinta la “missione Vidussoni”,
vennero distribuiti i pacchi mentre si girava il film Luce: naturalmente,
un pacco per ogni artigliere alpino. Poi, come la “missione” partí,
i pacchi vennero ritirati e fu rifatta la distribuzione sulla
base di un pacco ogni cinque soldati.
Nella stanzetta accanto alla mia incontro il tenente G., che
mi fa intendere di essere un personaggio importante: collabora
con il colonnello del genio C., dice di viaggiare di continuo
in aereo. E il progettista del cimitero monumentale della città:
il cimitero è a pochi passi, nel recinto del centro ospedaliero,
e vuole accompagnarmi, vuole che lo veda.
Vedo un muro altissimo, bucato da file di nicchie. Ai piedi del
muro un grande altare. Direi che il monumento è incompleto.
Timidamente gli chiedo a che punto sono i lavori. Mi dice che
il monumento è finito.
Allora gli chiedo che cosa significano tutti quei buchi. Mi risponde
che quando il sole è da una certa parte, i raggi infilano
i buchi e si proiettano con un gioco di luci straordinario sull'immensa
distesa di tumuli e croci. Sarà!
Aggiunge che il cimitero monumentale di Voroscilovgrad ha una
storia particolare: tutti gli ufficiali medici del centro ospedaliero,
dal colonnello al subalterno di sussistenza, hanno zappato, hanno
sotterrato i morti, hanno contribuito all'imponente realizzazione.
Il tenente G. non lo dice, ma a me viene da pensare che se gli
ufficiali del centro ospedaliero non avessero scavato tanto,
forse molti feriti ed ammalati non avrebbero raggiunto il cimitero,
monumentale finché si vuole, ma soltanto cimitero. (...)
1 – Treno
di pacchi dono e generi di conforto per i combattenti.
Riprendiamo
la marcia. In punta c'è Perego con il suo plotone.
Cinque o sei isbe disposte in fila offrono un riparo: le raggiungiamo.
C'è una batteria di artiglieria alpina, con i pezzi da
75/13 in postazione. E sulla sinistra, a quattro passi dalle
isbe. I pezzi sono puntati con alzo zero, per tiro anticarro.
Mancano i serventi, sono morti tutti, attorno ai pezzi. Un artigliere
rovesciato in avanti su un pezzo ha la schiena aperta a ventaglio,
aperta come quella borraccia che trovai a quota 228, la borraccia
di uno dei tanti alpini morti il 1° settembre.
Forse è la 33' del gruppo Bergamo. Si dice che fosse in
postazione fin dalla notte, per appoggiare il battaglione Val
Chiese.
E chi ne ha saputo nulla dei combattimenti della notte! Noi si
dormiva tranquilli a Nikitovka mentre qui combattevano. Anche
stamane, all'alba, nessuno segnalò che nella notte si
era combattuto, che la resistenza continuava, qui, ad Arnautovo.
Cento morti di piú, cento di meno non hanno alcuna importanza:
i comandi non contano piú i morti, tanti ne abbiamo.
Salvare il salvabile. Anche questa teoria non regge piú.
Nessuno distingue i sacrifici inutili dai necessari. Disordine,
indisciplina, incoscienza, insubordinazione, diserzione. E il
disastro, la fuga pazzesca di una massa senza reparto, senza
armi!
Sfiliamo dietro le isbe, ci buttiamo sulla destra.
Un reparto russo sta muovendoci contro; ha quasi raggiunto il
ciglio che ci divide, è a cinquanta metri.
Sparano i russi, sparano raffiche lunghe con le mitraglie ed
i parabellum.
Con un balzo ci spostiamo decisamente sulla destra,a gruppetti,
per raggiungere un leggero avvallamento.
La neve è fresca, si affonda fino al ginocchio. E i russi
sono lì, a quattro passi, che rafficano, che colpiscono
a segno.
Sono alle spalle di Perego, guardo avanti, guardo i russi in
faccia. Grandi mi segue, con De Minerbi e gli altri.
Mi volto, cerco Grandi, lo vedo che s'insacca proprio come su
quota 228 si era insaccato Apollonio. L'hanno colpito all'addome.
Grandi, con voce ferma, ma che non è piú la sua,
grida ancora: “Siate coraggiosi”; poi si rovescia
in avanti.
Guardo i russi: avanzano in schieramento serrato, sono in piedi
come se andassero a passeggio. Cantano una cantilena che dà alla
testa, e sparano, sparano senza requie.
Perego si gira a guardare i suoi uomini, si gira e grida “Avanti
secondo”.
Una lunga raffica lo colpisce al fianco sinistro. Cade all'indietro
sulla schiena crivellata: grida “mamma, mamma, mamma”,
con voce strozzata. Cade sulle ferite, trova la forza, l'estrema
forza di rovesciarsi in avanti.
I nostri parabellum arrugginiti non sparano. Lanciamo una decina
di bombe a mano: non scoppiano. I mitragliatori senza olio e
per il gelo non sparano. E i russi da dieci metri sparano, ammazzano.
Ho per guanti un paio di calze, li butto. Sfilo il rotolo al
mio parabellum: le pallottole si presentano storte, le mani mi
gelano.
Butto il mio parabellum, con due salti sono su Perego.
Il parabellum di Perego è infilato nel braccio, di traverso,
sotto il petto. Alzo Perego, per sfilare l'arma.
Il suo fazzoletto di seta a colori, attorno al collo, è intriso
di sangue.
Anche il parabellum di Perego non spara.
Stanno trascinando Grandi all'indietro. De Minerbi, De Filippis
ed altri combattono ancora sulla destra.
I russi non si vedono piú. Arrivano alcune raffiche, ma
passano alte.
Hanno soltanto ricaricato le armi. Sono tornati sul ciglio, ricominciano
a vomitare pallottole.
Abbiamo avuto molti morti: la neve alle nostre spalle è nera
di macchie ferme, immobili. I nostri feriti sono tornati indietro.
Siamo rimasti in pochi.
Parlo con De Minerbi. Occorrono uomini e munizioni, oppure ripiegare.
Ripiegare vuoi dire attraversare una lunga piana, sotto le raffiche,
affondando nella neve fino al ginocchio.
Corro verso le isbe, a cercare rinforzi, pallottole che mi sfiorano,
che mi cercano. Un colpo di mortaio scoppia a tre metri.
Arrivo senza fiato; ce l'ho fatta.
Dietro le prime isbe, dozzine di feriti ammucchiati. Le isbe
ne sono piene.
Anche Grandi è steso sulla neve, ferito a morte; e chiede
che gli alpini cantino la canzone del capitano che sta per morire...
Vedo la 49, i pochi superstiti della 49 che ripiegano. Il sottotenente
Calvi, ferito da tre pallottole al fianco, è ancora in
piedi sotto le raffiche, e agita la pistola e urla al maggiore
Maccagno che gli è accanto:
“
Dio... andate voi avanti, andate voi a vedere, sono morti tutti”.
Chiedo uomini a Maccagno. Dice di non averne, di temere l'aggiramento
sulla destra.
Torno avanti, oltre le isbe, nella piana sulla destra. Dalla
valletta sono già ripiegati trascinando Perego.
Ormai spariamo dalle isbe dei nostri feriti. Apprendo che anche
sulla sinistra le perdite sono gravissime, sono morti í migliori
ufficiali del Tiràno.
La CCT, al comando di Alessandria e Talucci, punta decisamente
sulla destra, per parare l'aggiramento. Combattono eroicamente.
Alessandria ferito. I russi indietreggiano, le raffiche si fanno
rade.
Un nostro 47/32 e un mortaio da 81, spinti fin oltre il ciglio,
sparano sui russi che ripiegano. Darè e Pilis sono avanti,
soli, a sparare le ultime fucilate.
Arrivano il generale Reverberi ed il colonnello Adami. E compare
anche V.
Ormai che nella piana è tornato il silenzio, la massa
di sbandati, le immense colonne, riprendono la fuga.
L'eterno gioco: chi è morto non vale piú nulla,
chi è ferito rischia di essere abbandonato.
Scappano gli sbandati, le colonne. Noi restiamo tra i nostri
morti, tra i nostri feriti, a piangere.
Con De Minerbi e De Filippis tentiamo di sistemare i feriti sulle
quattro slitte. De Minerbi ha il cappotto sbrindellato dalle
raffiche.
La confusione si è fatta immensa: gente che urla, che
corre avanti. Inutile chiedere ad una slitta di un altro reparto,
ad uno sbandato in fuga, di accogliere un nostro ferito: la legge è una
sola, pensare a se stessi.
Entro nell'isba di Grandi; apprendo che Perego è morto.
Grandi è seduto per terra, con la schiena appoggiata al
muro: soffre, non spera piú. “Sento già la
mia puzza”, mi dice con un filo di voce. Attorno, alpini
bucati malamente, che gemono.
Cerco un medico per Grandi, per i feriti. Il nostro medico è disperso
da piú giorni.
Trovo un capitano: ha le maniche rimboccate, ha sangue di alpino
fino al gomito.
Raggiungo l'isba di Perego. Povero caro Peppo. Accanto c'è il
suo attendente Clementi, inginocchiato, come se pregasse.
Mi piego su Perego, lo bacio, scoppio in un pianto disperato.
Da tanto tempo volevo piangere cosí.
Torno fuori. Un ungherese alto, magro, disarmato, mi taglia la
strada. Lo afferro, lo giro, lo butto in avanti. Cade a peso
morto, a tre passi da me.
Vedo il dottor Taini dietro un'isba che amputa il braccio sbrindellato
di un alpino con un comune coltello. Gli penzolava giú il
braccio e si doveva toglierlo. Un russo sta girando in mezzo
a noi, un soldato russo sbandato. Così imbottito nella
sua divisa trapuntata sembra grasso, rotondo. C'è altro
a cui pensare, e il russo corre indisturbato verso la piana,
fuori dalle colonne. (...)
(Brani
tratti dal libro Mai tardi – Diario di un alpino in Russia,
Einaudi, Torino, 1967)
Nuto
Revelli, combattente nell’ARMIR e
poi partigiano, è morto all’inizio del 2004. Oltre
a Mai tardi, ha pubblicato La guerra dei poveri,
La strada dei davai, L’ultimo fronte, L’anello
forte, Il disperso di
Marburg e Il prete giusto.
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