LA MIA ETIOPIA
Francesca Grazzini
“Ci
sono novità?” mi chiedeva sempre mia mamma.
Le novità gliele potevo raccontare solo io, perché lei
era bloccata su una sedia a rotelle da tre anni, per un ictus
impietoso. E così voleva sempre che io le raccontassi
qualcosa di bello.
Ma le novità le porta il destino. Non serve aspettarle
quando non hanno voglia di arrivare. Hanno vita propria. I propri
tempi.
Quando soffri come soffrivo io, tutte le sere ripeti a te stessa,
domani è un altro giorno, seppelliamo questo e speriamo
in qualcosa di diverso e di migliore.. Tutte le sere di tutti
i giorni ti conforti in questo modo. Oggi non è successo
niente, ma domani senz’altro… E non puoi mai sapere
da quale direzione e in quale tempo le novità si presenteranno,
pigliandoti di sorpresa.
Intanto i tuoi giorni corrono uguali. E tu non hai nulla da raccontare
a tua madre.
Per di più c’è da fare attenzione a un’altra
cosa: ormai è estate, che è il periodo dell’anno
in cui si apre la voragine del vuoto, agosto, il mese più bianco,
dilatato, difficile, da riempire con non si sa mai quale trovata.
Io non sopporto l’agosto e la domenica: qualsiasi cosa
si faccia, le strade hanno le serrande chiuse e la città si
nega alla gente che è costretta a bighellonare fuori ,
con l’intervallo di un gelato. In agosto tutti i giorni
sembrano altrettante domeniche.
Ogni volta per riempire l’estate ci vuole una nuova idea
particolare, una diversa soluzione. Perché non si può stare
dove si sta tutto il resto dell’anno e tutti quelli che
si conoscono schizzano via sospinti ai quattro angoli del mondo.
Ma il mondo a me in questo periodo sembra sovraffollato di
persone inconsistenti, che salgono e scendono da treni, aerei,
automobili,
e non cercano di fare altro che godersi la vita come non se
la sono mai goduta. Il più delle volte tornano a casa lamentandosi
del fatto che è piovuto troppo o che hanno mangiato
male.
E’ veramente un caso molto strano quando qualcuno assicura
di essersi divertito. In agosto “divertimento” è una
parola un po’ forte da tirare in ballo.
Io insomma sono quel genere di persona che non si gode l’estate.
La aspetto sempre con ansia e con sospetto.
“
Cara mamma….”
Non è che non succeda che io riesca a mettere insieme
un buon programma. Ma prepararlo mi costa una fatica immane.
Perché l’essere allontanata da tutto ciò che
mi tiene legata all’abitudine mi mette addosso una sensazione
di gran fragilità. Come se diventassi un bicchiere di
vetro, che nessuno riempie, e che è collocato sul bordo
più estremo del tavolo, pronto a cadere.
Andarsene da casa negli altri periodi dell’anno è più semplice,
perché tutti quelli che non sei tu rimangono nelle rispettive
postazioni e, anche allontanandoti, puoi fare conto su di loro,
puoi sempre comporre un numero telefonico e trovarli nelle
loro case, sui loro luoghi di lavoro.
In agosto nessuno rimane dov’era (a parte mia madre), si
crea un nulla faticoso, e non ho nessuna vergogna nel confessare
che quel nulla a volte mi fa paura. Preferisco che le giornate
si susseguano ciascuna con il proprio ritmo di cose note da fare
e di persone da incontrare. E’ molto più sicuro.
D’estate insomma io e il mio gatto facciamo fatica a
capire dove ci possiamo collocare, su chi possiamo contare
Ci guardiamo nelle pupille degli occhi perplessi. Lui si chiama
Gatto. I suoi occhi così gialli e brillanti. Lui non teme
la solitudine meno di me, credo, per quanto si possa capire un
felino. Ma ecco che quest’anno è successo qualcosa
d’imprevisto, proprio all’inizio dell’estate.
“
Caro Gatto, Cara mamma, vorrei parlarvi di Milli…”
E tutto ciò che ho pensato finora di questa infame stagione
non risulta più vero. Guardo Gatto negli occhi e vorrei
che capisse. Dovrò sistemarlo in qualche modo che a lui
non piacerà, probabilmente lo porterò da mia madre
e mia zia. Loro sono l’unica mia sicurezza, un duo affiatato
a cui si aggiunge la presenza serale dello zio. L’estate
la passano sempre nella loro cittadina di provincia, perché hanno
un giardinetto e mia madre, colpita dall’ictus, è immobilizzata
su una sedia a rotelle. La loro vita è allietata dalle
parole crociate di mia madre e dai romanzi rosa di mia zia. Mi
telefonano tutte le sere per sapere come sto, mia madre strascica
sempre un po’ le parole, ma ormai ci sono abituata. Mia
madre e mia zia sono un punto fermo che mi fa un po’ tremare,
perché temo di perdere anche questo.
Ecco, guardo negli occhi il mio gatto e cerco di spiegargli,
magari per telepatia, che finalmente a me è successo
qualcosa che promette di cambiarmi la vita.
Perché sulle soglie di un’estate che si annunciava
vuota come molte altre, più di tutte le altre, dopo che
il mio fidanzato mi aveva lasciato, all’improvviso è capitato
qualcosa.
Sconvolgente.
Tale da mettermi tutta in discussione.
La novità è arrivata a buttarmi all’aria
presumibilmente tutto il tempo che deve venire. Non sarò più la
stessa. Il bicchiere sul bordo del tavolo non cadrà più per
terra, c’è chi ha pensato a riempirlo di un buon
vino frizzante e metterlo al centro, al sicuro. Ma ecco che cosa è avvenuto.
“
Ho conosciuto Milli, o Million detto Milli”.
Million e la sua Africa sono la mia grande novità. Voglio
dire, per una che aveva smesso di aspettarsi qualcosa, c’è di
che montarsi la testa. Un intero continente sconosciuto. Mi aspetta.
Un intero uomo, sconosciuto, mi vuole. Il mio povero gatto legge
nei miei occhi che me ne andrò. Lo lascerò alla
mamma e alla zia. Questo mi impone l’estate più strana
che si sia mai vista nel tranquillo panorama della mia vita.
Tutto
quello che sto per raccontare era impensabile solo prima di
luglio. Anzi in quel periodo me ne stavo immersa fino al collo
dentro una sofferenza sorda, tutti i giorni uguale. Perchè in
primavera ero stata sbalzata fuori dalla mia tranquilla quotidianità,
proprio come una cui capita che le si apra la portiera in una
macchina in corsa e si ritrovi a rotolare per strada.
La colpa era di Fernando. Il mio uomo. E la colpa era di Raimondo,
l’amante di una sera. La colpa era di Flora che era la
fidanzata di Raimondo e poi l’aveva lasciato per prendermi
Fernando. La colpa era mia che avevo fatto dei pasticci di cui
ora avevo tutto il modo di pentirmi.
Soprattutto se si pensa che quello a cui aspiro è un amore
totale, di dedizione reciproca. Mi piacciono le vecchie coppie
che si tengono per la mano in mezzo alla strada. Però non
sono stata capace di rimanere fedele al mio uomo, e mi sta bene
che il destino mi abbia punito, togliendomi il mio compagno,
questo lo avrei potuto immaginare all’inizio, nel momento
in cui ho cominciato a deviare dalla mia retta via. Qualsiasi
cosa mi riserverà il futuro, voglio giurare su quanto
ho di più caro che non tradirò più chi mi
ama. L’esistenza è tanto complessa. C’è bisogno
di un uomo fidato da tenersi accanto, qualcuno che stia dalla
tua parte, che prenda le tue difese nei confronti del mondo.
Già l’estate è difficile e dura, come ho
detto. Ma affrontarla dopo che il mio uomo, Fernando, mi aveva
lasciato, avendo scoperto la mia notte d’amore con Raimondo,
per preferirmi un’altra, Flora, era un compito assolutamente
superiore alle mie forze. Non ce l’avrei mai fatta. “Cara
mamma, non so se riuscirò a uscire da questo tunnel di
dolore” No, questo non glielo avrei mai detto.
Mi abbandonai a giorni bagnati dalle lacrime e annebbiati dalla
disperazione, da passarsi, nel tempo libero, dentro il chiuso
della mia stanza, stesa sul letto, senza forze per vivere, ricordando,
recriminando. “Sai mammina, credo di avere un po’ di
influenza… No, che c’entra Fernando, ho qualche linea
di febbre”
A marzo Fernando mi aveva lasciata, e a marzo, privata del suo
amore, avevo cominciato a mettere in atto tutti i gesti e le
attività tipici delle disperazioni degne di questo nome.
Mi addormentavo mortificata e vinta, dopo aver mangiucchiato
i resti di cibo che trovavo in frigorifero, e mi dicevo prima
del sonno che l’oggi era stato terribile, e il domani chissà,
anche peggiore. E la mattina, con il caffè davanti, imploravo
tra me senza crederci, speriamo che oggi capiti qualcosa.
Il giorno dopo si ripresentava pieno del dolore della separazione,
senza le sorprese di cui avevo tanto bisogno per dare una svolta
alla mia vita distrutta. Mi immaginavo che Fernando potesse tornare,
per opera di non si sa quale incantesimo dentro la sua vita,
ma questo non succedeva mai. Il telefono non squillava e nemmeno
io riuscivo a battere sui tasti il numero del mio ex fidanzato,
per via della stima di me stessa, che sola era rimasta a darmi
un po’ di consolazione.
Davanti a me vedevo la prospettiva di un tempo infinito senza
amore, che per ora riuscivo ancora a riempire dei soliti doveri,
ma che in agosto si sarebbe dilatato fino a disperdermi ai quattro
venti.
Non potevo ancora immaginare l’arrivo di Million e della
sua Africa.
Davvero il destino non si lascia prevedere, e per ora me ne stavo
tutta abbandonata a me stessa, dentro al fatto sciagurato della
separazione.
Vorrei
però per un momento allontanarmi dal cuore del racconto,
che inizia in modo così cupo e inquietante, ma anche
così imprevedibile ( a causa di Million, dicevo) per
concentrarmi un pochino sul mio gatto. Proprio Gatto? direte
voi. Sì, il gatto, che mi dà modo di illustrare
la mia filosofia e il mio punto di vista riguardo all’amore.
Il fatto è che lui ha vissuto da poco una storia totalizzante
e ha sofferto per l’improvvisa scomparsa della sua compagna.
Lo si capisce da come trotterella per casa non perdendomi mai
di vista. Annusa e si struscia. E’ un campione di bellezza
nero e bianco regalatomi da un negozio di animali tre anni fa
insieme alla sorellina, che era tale e quale a lui ma in formato
ridotto.
Arrivarono in casa che avevano paura di tutto e si nascondevano
sotto il letto e il divano. Io dovevo passare il mio tempo appiattita
suo pavimento con la guancia contro il parquet per poterli stanare
con l’aiuto dei croccantini di cui erano ingordi, una specie
di droga.
Se ne stavano acquattati in qualche angolo oscuro della casa
e uscivano soltanto quando mi mettevo a scuotere la scatola dei
croccantini che come uno strumento musicale fatato, come il flauto
magico del pifferaio di Hamelin, li convinceva a sfidare gli
immaginari pericoli della mia casa per avanzare guardinghi verso
la mia mano protesa.
Quando alla fine, presero confidenza con la casa , da un momento
all’altro incominciarono a utilizzarla tutta, fin nell’angolo
più impervio e irraggiungibile,
Successe proprio così. Il giorno prima se ne stavano nascosti
in qualche loro tana. Il giorno dopo avevano l’aria di
essere immensamente incuriositi e di voler esplorare l’appartamento
dappertutto. Erano perfettamente affiatati. La casa cominciava
ad appartenere più a loro che a me.
Salivano sugli scaffali tra i libri di poesie e i romanzi. Si
addormentavano abbracciati sulla poltrona in strane pose, magari
con le zampette sulla testa come gli umani che si coprono gli
occhi per non vedere la luce.
Ben presto mi resi conto che si amavano con una sorta di coinvolgimento
totale che mi escludeva dalla loro vita. Il gatto e la gatta
bastavano assolutamente a se stessi. Che io fossi o non fossi
a casa non era importante, se non per l’indispensabile
ruolo svolto quando dovevo aprire le scatolette del mangiare.
Diventarono i custodi fedeli del mio focolare. Si impossessarono
di esso. A quel tempo erano dunque molto indipendenti. Non mi
correvano incontro quando tornavo a casa. Conducevano una vita
di coppia più che soddisfacente.
Li scoprivo appallottolati in qualche luogo della cucina, della
sala, della mia camera da letto e mi rassicurava la loro presenza
schiva. Per una che non aveva scelto di avere gatti ma che si
era trovata in quella condizione per un moto di generosità improvviso
dell’animo, quando li avevo visti serrati in una gabbietta
nel negozio di animali, il loro menage discreto e intelligente
era di certo l’ideale.
Poi venne l’anno in cui in agosto me ne andai a Londra
come cameriera in un pub, per una operazione culturale sovvenzionata
dalla mamma. Ero volata via dalla mia casa per impratichirmi
in una lingua che conoscevo solo per averla imparata a scuola,
spinta a seguire un'amica che aveva trovato un alloggio per
due.
Affidai i miei gatti a un’altra amica ancora, che fortunatamente
quell’anno rimaneva in città e poteva recarsi a
casa mia tutti i giorni ad aprire le scatolette di cibo e mettere
acqua pulita nella ciotola. E fui duramente punita. Agosto colpì crudelmente
come non avrei mai potuto immaginare. La mia piccola micia morì in
circostanze drammatiche. Aveva perso il pelo a ciocche e le si
potevano raccogliere qua e là come se il pavimento fosse
diventato un giardino di peli. Ritrovai il lenzuolo su cui si
era adagiata l’ultima volta tutto sporco di sangue.
La mia amica, non sapendo che fare, aveva spostato il cadavere
sul balcone dove lo trovai irrigidito in un sacchetto di plastica
del supermercato. Non pensai di meglio che portare la gattina
dove l’avevo trovata, nel negozio di animali, perché trovassero
un modo per seppellirla. Lì venni a sapere che era rimasta
vittima di una malattia che è l’Aids dei gatti.
Gatto, il fratello della gattina, amico e amante, era un portatore
sano. Non correva nessun pericolo, ma era condannato a vivere
da solo, perché avrebbe potuto contagiare con la sua malattia
qualsiasi gatto con cui fosse venuto in contatto.
Da quel momento, da quando rimase solo, senza più l’amore
fedele e incondizionato della gattina,il mio gatto divenne dipendente
da me, dalle mie carezze e attenzioni.
Si sentiva sperduto. All’inizio era commovente vederlo
girare e annusare dappertutto in cerca della sua compagna. Miagolava
in un modo da far piangere il cuore.
Alla fine prese l’abitudine di dormire sul mio letto ai
miei piedi. Glielo concessi perché capivo che il destino
si era accanito troppo duramente contro di lui.
Non c’è niente di più doloroso che vedere
la fine di una vecchia coppia perfettamente affiatata. Potrà sembrare
strano, ma metto in relazione il mio gatto e la gattina con Gorbaciov
e sua moglie Raissa.
Ricordo la commozione che mi prese quando lui apparve in televisione,
al funerale della moglie, ed era l’ uomo che aveva cambiato
le sorti del mondo, un grande della terra capace di reggere una
pericolosissima rivoluzione, un paese immenso come la Russia
che cambiava la sua storia dopo più che mezzo secolo,
ma ora di queste cose non gliene importava niente, non poteva
preoccuparsi, non era più un uomo politico, era un marito
sopraffatto dal dolore. Incapace di trattenere le lacrime, si
esprimeva come un bambino a cui avessero tolto la mamma. Gorbaciov
non aveva più difese e si abbandonava alla disperazione
davanti agli occhi di milioni di persone.
E’ così difficile
raggiungere un equilibrio amoroso, e i miei due gatti lo avevano
vissuto per molti mesi. Ora mi saltava in grembo tutte le volte
che mi sdraiavo da qualche parte. A chi lo avrei affidato per
l’estate?
Che avrei fatto di lui e di me, cominciai a chiedermelo a marzo,
affogata nelle preoccupazioni, dopo che la storia con Fernando
era all’improvviso e definitivamente finita. L’unica
via d’uscita che riuscivo a vedere era quella di affidare
il gatto a mia madre. O meglio a mia zia che assisteva mia madre,
immobilizzata da un ictus. Vedova da qualche anno. Mia zia e
mia madre vivono in un’altra città. Come ho detto,
anche loro due si vogliono bene, in modo totalizzante, senza
se e senza ma. Anche loro sono un modello d’amore. Mio
zio torna a casa solo la sera. Ma francamente sembra perfino
di troppo, perché mia zia e mia mamma, nella loro difficile
situazione, sembrano bastare assolutamente a se stesse. Per raggiungerle
bisogna prendere il treno.
L’estate dunque mi si presentava ancora più imprevedibile
e vuota perché Fernando, dopo una storia durata nove mesi,
aveva capito, disse, di non amarmi più. Noi tre, io Fernando
e il gatto, negli ultimi tempi sembravamo diventati più intimi.
Dormivamo insieme. Vado matta per questa cosa che è dormire
con un uomo accanto. Ora tutto nella mia vita veniva rimesso
implacabilmente in discussione.
Chi è Fernando: è ora di introdurlo. Perché Fernando
era Fernando. E anche se me lo dovevo ormai dimenticare c’erano
stati troppi mesi passati insieme, colazioni, pranzi cene, domeniche
rifugiati nei cinema, Il sogno di una notte di mezza estate soprattutto.
Appena prima di dimenticare viene la voglia di ricordare tutto.
Dal primo bacio alla prima volta a letto. Dalla prima volta a
letto all’ultima, quando ancora non ci si rendeva conto
che lo sarebbe stata. Fernando era il mio fidanzato.
Mi piaceva vedermelo arrivare davanti quando ci davamo gli appuntamenti.
Da lontano cominciavo a guardarlo mentre mi si avvicinava, era
lì per me e per nessun altro, mi sembrava di riceverlo
in regalo, perché mi piaceva pensare “quest’uomo è mio”.
E non c’è un altro modo di definire il mio sentimento
per lui che come puro e semplice possesso.Gli toccavo un braccio
e pensavo, lo posso fare, con qualsiasi altro uomo no, con questo
sì, lo posso accarezzare quando voglio, perché è il
mio uomo. L’altra parte di me. Io ho un modo di essere
e di pensare da donna e lui è il mio modo di essere e
di pensare da uomo. Mi interessava il suo punto di vista, ed
ero tutta impegnata a tirarglielo fuori, con fatica, perché Fernando
era di poche parole e a volte veniva da pensare che al di là delle
parti che recitava a teatro, volesse tenere nascosti e difendere
i suoi pensieri più intimi. Avrei voluto che noi due insieme
esplorassimo il mondo nei suoi angoli più segreti, come
facevano i miei gatti con la mia casa. Fernando però aveva
delle difese. E non lo capivo fino in fondo.
Era rimasto il mio uomo fino a marzo. Fino a un bel giorno di
primavera spazzato dal vento che in città aveva pulito
l’aria dalle sostanze inquinanti, ma che aveva sporcato
in un modo irrimediabile la mia vita quieta e appagata da un
affetto che durava da così tanto tempo che ormai ci avevo
fatto l’abitudine. Ma mi rendo conto che la mia emozione
rende il racconto confuso: andiamo con ordine.
Per farmi capire meglio adesso devo dire soprattutto due cose
di me. Studio teatro e lavoro in un’impresa di pulizie.
Naturalmente
vorrei avere un futuro come attrice, ma il mio mestiere di
addetta alle pulizie, quello con cui mi guadagno da vivere,
non mi fa provare sentimenti di inferiorità. Lo trovo
anzi un’occupazione molto tranquillizzante.
E’ necessario sentirsi in un certo senso responsabili.
Ma non è uno di quei lavori che sfidano la vita, come
certi che mi farebbero letteralmente impazzire di paura, il medico
o l’avvocato. Avere per le mani il destino della gente.
Questo sì che mi farebbe provare angoscia. Già è tanto
che io debba sentirmi responsabile di me stessa e della mia buona
riuscita. Occuparmi delle pulizie era decisamente rassicurante.
Qualcosa che riuscivo a portare a termine positivamente ogni
giorno. Avevo la possibilità di restare infilata nei panni
dei miei personaggi senza essere distratta troppo.
Quest’anno la mia piccola compagnia teatrale voleva mettere
in scena il Sogno di una notte di mezza estate, e a me era stata
assegnata la parte di Puck. I miei capelli rossi tagliati cortissimi
mi favorivano, ero ben compenetrata con il mio personaggio, che
deve essere un po’ monello, un po’ fatato. E così mi
era di aiuto la mia voce da ragazzino.
I versi che dovevo recitare mi tornavano in mente mentre trascinavo
l’aspirapolvere sulla moquette degli uffici di una società situata
in periferia, dall’altra parte della città da dove
vivo. L’aspirapolvere andava avanti e indietro, avanti
e indietro, con lentezza e precisione.
” Per il bosco ho scorrazzato
e nessun ateniese vi ho trovato
su cui provare se il fiore
è poi vero che suscita amore…
Ecco là la dama dorme
sulla terra sporca e mezza.
Poverina non s’azzarda
a giacersi accanto a lui,
lui che tanto ne disprezza
ed affetto e cortesia.
Sui tuoi occhi a te villano
ecco verso il succo arcano…”
Il succo arcano che induce la passione amorosa.
Mi sentivo molto brava e preparata. In sintonia con la mia parte (pure se conoscevo
a memoria anche i versi degli altri interpreti). Puck è un genio della
natura che inventa scherzi e compie sortilegi. Era stato molto divertente infilarsi
nei suoi panni. Lo vivevo come una specie di marionetta più che come essere
in carne e ossa. Un piccolo buffone. E soprattutto, preparandomi ad essere Puck,
mi lasciavo influenzare dal suo personaggio e mi sembrava di potermi permettere
di vivere in modo più lieve e spiritoso del solito. Non riuscivo a staccarmi
dal mio personaggio quando avevo finito le prove, lo portavo con me.
Quindi anche la mia vita era diventata così, più leggera, allegra.
“
Sai mamma, va tutto bene” Ma non potevo raccontarle davvero tutto quello
che mi succedeva.
Puck e la presenza di Fernando mi facevano sentire sistemata in una realtà accogliente.
Quindi non so bene come successe, ma successe davvero.
Amavo Fernando, e dopo un po’ venni presa anche da una strana attrazione
per Raimondo, un altro attore della compagnia. Come se la contentezza che provavo
ogni giorno lasciasse lo spazio a essere contenta anche un po’ di più.
Da parte sua Raimondo mi cercava. Era diverso da Fernando. Per una notte sola
ero stata la sua amante. Ma non credo che avrei limitato il mio tradimento a
una notte sola, se Raimondo non si fosse subito tirato indietro, confidandomi
che non era innamorato di me ma di Flora, la sua fidanzata, regista della compagnia.
Per me quell’unica notte era stata importante. Per Raimondo un semplice
divertimento. Io ero divisa tra le qualità e i difetti di Fernando e Raimondo.
Ma nel frattempo, in mezzo a questa confusione amorosa, quando portavo con me
Puck sul mio luogo di lavoro, negli uffici resi metafisici dall’assenza
e dal silenzio, non lasciavo mai angoli inesplorati dal mio aspirapolvere, perché avevo
imparato che il dovere è stabilizzante e avevo così bisogno di
punti fermi a cui ancorarmi.
Non permettevo che la mia passione per il teatro e per due uomini mi distraesse
da ciò che dovevo fare. I miei sentimenti ballerini tra Fernando e Raimondo.
In questi grandi uffici a perdita d’occhio, scrivanie, scaffali e piante
finte, pulivo a fondo usando tutti quegli accessori in dotazione all’ aspirapolvere
che servono per stanare lo sporco.
Avevo imparato a considerare la polvere come la mia grande nemica e ad esultare
ogni sera, quando l’avevo sconfitta. La polvere può essere molto
dannosa. Contiene acari che provocano allergie noiosissime. Puck aveva un compito
e lo assolveva con piacere: adorava togliere la polvere. Passando l’aspirapolvere
si formavano nella moquette strisce pulite che via via vincevano la parte di
pavimento impolverata.
Mi comportavo come una di quelle casalinghe entusiaste delle pubblicità televisive,
che con una sola passata trasformano la superficie sporca in superficie lucida
e brillante. In qualche modo mi sentivo fiera, sia della mia scelta di recitare
che di quella di pulire le moquette degli uffici. Forse in questo stavo mettendo
in atto un’eredità ricevuta da mia madre, che prima della paralisi,
che le aveva tolto l’uso di metà del corpo, era sempre stata una
brava donna di casa e in più, cosa che io non ero, un’ottima cuoca.
Avrei dovuto mettere ordine nella mia vita come facevo negli uffici.
Forse era merito degli insegnamenti di mia madre, ma io ci tenevo a che tutto
fosse a posto e pulito. Il rumore dell’aspirapolvere mi ispirava. I luoghi
inabitati in cui dovevo operare avevano un aspetto strano, stimolante. Come se
tutto quello spazio in genere occupato da persone operose ,quando loro non c’erano
più, cadesse in mio potere. Mi veniva consegnato perché ci facessi
ciò che volevo. E ciò che volevo era ripulirlo a fondo, in modo
che le persone operose tornassero in grado di svolgere i loro compiti.
Era una cosa che sapevo fare. Così mi sentivo soddisfatta. E soprattutto,
nonostante non ne abbia parlato sinora,c’era Asli a lavorare con me, un’etiope
molto capace, che parlava tanto ed era decisamente simpatica.
Fino
all’inizio della primavera mi sentii perfettamente calata
nella mia realtà. C’era il teatro, c’era
Fernando (con l’intervallo di Raimondo) e c’erano
gli uffici da pulire.
Ma poi a marzo la mia piccola storia d’amore con Fernando
si concluse bruscamente.
Lui, nel Sogno di una notte di mezza estate, interpretava la
parte di Lisandro. Un mese prima che mi lasciasse io lo avevo
tradito con Raimondo, che nella commedia aveva il ruolo di Demetrio.
Dunque. Credo che il clima del Sogno avesse favorito l’insorgere
di sentimenti fluttuanti, che non mi sono propri.
Raimondo si era accorto di me. Mi guardava da lontano. Mi prendeva
per mano alla prima occasione. E così poi successe quel
che succede in questi casi. Avevamo fatto velocemente l’amore
e lui se n’era subito dimenticato. Il giorno dopo non mi
guardava già più, non mi prendeva più per
mano, più nulla, come se l’aver fatto l’amore
avesse esaurito tutta la sua curiosità..
Non lo aveva saputo quasi nessuno. Ma quel “quasi” lo
aveva raccontato a Fernando. Che aveva reagito con grande compostezza.
Lo avevo rassicurato che si era trattato di uno sbandamento temporaneo.
Anche se invece l’amore con Raimondo mi aveva lasciato
tracce dalle quali non riuscivo a liberarmi. Era successo, e
mi aveva creato delle aspettative che Raimondo aveva provveduto
subito a cancellare.
Raimondo si era semplicemente servito di me per ingelosire la
regista, Flora, che non sembrava innamorata di lui come una volta.
La nostra unica notte d’amore, quella mia con Raimondo,
per quanto a me forse parsa sincera, si era rivelata semplicemente
un diversivo. Questo mi aveva confuso. Non sapevo più dove
stare, in bilico tra Fernando che amavo da mesi, e Raimondo che
mi aveva attirato in una specie di tela di ragno, per mangiarmi
in un solo boccone la notte che avevamo passato insieme, e risputarmi
fuori tutta masticata e avvilita il giorno dopo, quando mi aveva
confessato la sua predilezione per la sua fidanzata Flora.
Strano percorso quello che passava attraverso di me per arrivare
a lei.Tutto inutile del resto, perché Flora non ricambiava
più l’amore di Raimondo ed evidentemente aveva già messo
gli occhi su Fernando. Il mio Fernando.
In marzo Flora aveva deciso di rivelargli la sua passione. Lei aveva preso l’iniziativa.
Credo che il suo ruolo tra tutti, quello di regista, fosse il più affascinante.
Flora era la guida del nostro gruppo d’attori. Reggeva lo scettro del comando.
Era lei che ci imponeva i gesti, le intonazioni. Non si può negare che
la sua sicurezza nel distribuire ordini e consigli fosse seducente. Io stessa
l’ammiravo. E Fernando da quando Flora si era dichiarata, si era accorto
di non amarmi più e di corrispondere invece appassionatamente all’amore
di lei.
Ero rimasta di punto in bianco senza fidanzato, Fernando, senza amante, Raimondo,
senza la guida di Flora, e senza la parte, quella di Puck.
Eppure dentro di me rimanevo un piccolo elfo dai capelli tinti di rosso, vittima
dei suoi stessi inganni. Naturalmente non me la sentivo più di recitare
in una compagnia dove la regista si era fidanzata con il mio fidanzato. Eccomi
dunque sola, con il mio gatto solitario. Alle soglie della temibilissima estate.
Come dicevo, c’era di che tremare.
Passai
le prime notti insonni a ricostruire il mio dramma in ogni
sua forma ed aspetto. Piangevo di notte e anche di giorno.
L’ aspirapolvere, per quanti sforzi facessi di mantenermi
ligia al mio compito quotidiano, ormai non funzionava più a
dovere. Dov’era andata a finire la mia passione per l’ordine
e la pulizia? Ero diventata distratta e svagata.
I miei due amanti, Fernando e Raimondo, si erano entrambi liberati
di me.
Non volevo più vedere nessuno di loro. Dovevo cancellarli
dalla mia vita. Cosa non facile, perché i versi di Puck
continuavano a passarmi e ripassarmi nella mente, senza avere
però la forza di scacciare il mio dolore, ricordandomi
continuamente quello che avevo perduto.
Il desiderio di essere Puck mi resisteva dentro e mi dava sofferenza.
Mi sentivo come una donna incinta a cui fosse negato di partorire
il suo bambino. Per tanto tempo avevo provato e riprovato la
parte. In tutto quel periodo ero stata una persona veramente
completa, nella sua vita sentimentale come in quella lavorativa.
Avevo perfino immaginato che non avrei temuto l’estate
come al solito, ora che avevo Fernando sempre vicino a me e la
prospettiva di mettere in scena il Sogno in autunno.
Ma adesso tutto era diventato oscuro e privo di speranza. Come
potevo fare per uscire da quel vuoto assurdo che minacciava i
miei giorni a venire?
O notte angosciosa, o lunga notte tediosa,
accorcia le tue ore!…
E il sonno,che talvolta serra gli occhi al dolore
per un po’ lungi mi porti dalla compagnia di me stessa.
E ancora “Mai così stanca e mai tanto infelice!”
Ma, ora è il tempo di dirlo, in mezzo a quei giorni fatti di lacrime e
disperazione, il destino aveva ancora in serbo per me qualcosa di bello. Di molto
bello, se penso a come apparve Million all’improvviso nei miei giorni feriti.
Però non
devo fare così. Non devo introdurre Million all’improvviso.
E’ vero che proprio all’improvviso mi apparve davanti.
E che da allora vive dentro di me, nel mio mondo immaginario
che mi consola e che si accompagna a quello reale che fa i
conti con la vita severa. Ma non posso fare confusione. Devo
raccontare con un certo ordine e Million dunque deve aspettare
che io ne parli dopo che avrò descritto la festa di
San Gabriele e la sera del ballo da Usman, in mezzo alla campagna,
e naturalmente, molto prima, la mia amicizia con Asli.
Così in quella primavera dai cieli azzurri in cima ai
palazzi che il sole tingeva di rosa, dolce preludio all’estate
che sempre invece mi incuteva terrore, avendo perso contemporaneamente
la mia parte nella commedia e il mio amore, trovai sollievo insperato
nell’amicizia con Asli.
Asli era molto nera. La compagna di lavoro assegnatami dall’agenzia
delle pulizie. Non mi ero curata molto di lei fintanto che ero
stata impegnata con la compagnia teatrale. Mi piaceva averla
accanto perché era una chiacchierona, allegra e divertente.
Capivo poco quel che diceva perché si inventava un italiano
buffissimo, ma era allegra e solare. Avevo provato stima per
lei fin dall’inizio perchè era proprio brava nel
suo lavoro ed era impossibile non accorgersene. Mi incuteva rispetto
e fiducia.
Immaginate qualcosa di molto grande e grosso. Un volto allegro
in cima a un bel corpaccione ampio. Treccioline ai lati della
faccia fin giù sul petto ampio. Fianchi larghi e sedere
fiero, sulle gambe più lunghe e affusolate del mondo.
Mentre io mi occupavo dei pavimenti lei doveva riordinare e spolverare
i mobili e le scrivanie.
E’ facile capire il livello di difficoltà di una
simile mansione se soltanto ci fermiamo a pensarci. Si tratta
di passare ovunque lo straccio senza compromettere l’ordine
particolare in cui ciascuno lascia i propri documenti, in modo
che possa trovarli nell’identica posizione il giorno dopo.
E sono documenti importanti, di cui i possessori si servono per
affari di grande complessità. E’ vitale che una
scrivania non sia sopraffatta né dalla polvere né dal
disordine. Asli riusciva in pieno a raggiungere i suoi obiettivi.
Così come io ero competente con il mio aspirapolvere lei
lo era con il suo straccio sulla superficie accidentata delle
scrivanie. Io e Asli formavamo una squadra vincente. A mia madre
Asli risultava così simpatica, per quello che le avevo
raccontato di lei, e sempre al telefono mi chiedeva più notizie
sulla “tua amica negra” che su Fernando, quasi presagisse
che un giorno avrei avuto più aiuto e collaborazione da
lei che da lui.
Asli era etiope.
Quando mi vide precipitare nell’angoscia dell’ abbandono
cominciò a consolarmi con brevi frasi che diventarono
sempre più efficaci. Io fermavo l’aspirapolvere
per mettermi a piangere in modo soddisfacente. Lei abbandonava
lo straccio per soccorrermi e a volte abbracciarmi stretta.Un
uomo che mi lasciava per un’altra non meritava che lo piangessi
tanto. Dov’era finito l’orgoglio? Peccato soprattutto
che avessi dovuto rinunciare alla mia bella parte nella commedia.
Questa era la perdita più importante, veramente, diceva
Asli. Come potevo fare per distrarmi?Una sera mi tenne stretta
mentre piangevo e mi disse che dovevo imparare a trovare un nuovo
scopo nella vita, un desiderio, per non pensare a Fernando che
non mi amava più.
Anche lei era stata abbandonata dal marito, per il quale continuava
a provare un sentimento d’amore infelice e non corrisposto.
Ma la vita doveva ricominciare, era distruttivo tenersi attaccate
a un amore impossibile. C’era tutto un mondo, al di là della
sofferenza e della solitudine. E c’è sempre la speranza.
Lei non aveva mai smesso di sperare che i suoi figli, che vivevano
con il padre, la raggiungessero in Italia.
Per sua volontà, in aprile, cominciai a prendere confidenza
con le comunità nere in città.
Andavo in giro con lei. Mi telefonava o mi faceva la sua proposta
mentre lavoravamo insieme, ed io per non stare da sola dicevo
sempre sì.
Perché Asli viveva in modo molto intenso i suoi rapporti
sociali. C’era sempre un matrimonio o un battesimo o un
compleanno a cui partecipare.
E da un certo momento in poi, essendo io stata lasciata sola
da Fernando e da tutta la compagnia teatrale, Asli cominciò a
coinvolgere anche me, che non avevo motivi per resistere ai suoi
inviti pressanti.
“
Allora esci con Asli adesso?” mi chiedeva mia madre al
telefono, dopo essersi informata di cosa mangiassi e di come
mi vestissi per andare fuori, che erano i suoi argomenti preferiti.
Aveva capito forse che cominciava un nuovo periodo per me.
In effetti cominciai a sentirmi come se fossi stata accolta da
un’altra compagnia teatrale. Solo che in questa gli attori
recitavano tutto il giorno la loro parte, ed io non ero abbastanza
preparata. Mi mancava un testo. Dovevo improvvisare sul momento.
I neri, imparai presto, sono molto diversi dai bianchi . Non
fu facile all’inizio traslocare da tutti gli amici che
avevo frequentato a teatro a queste nuove persone che all’inizio
mi sembravano molto estranee e per questo tutte uguali e designate
da nomi che scordavo nell’esatto momento in cui loro si
presentavano, prendendo con convinzione la mia mano e pretendendo
di baciarmi, sempre tre volte, dovevo ricordare.
Ma a poco a poco, con l’aiuto o la regia di Asli, cominciai
a distinguerli, a conoscere qualcosa delle loro storie.A interessarmi
ai loro fatti e alla loro musica . Una total immersion in un
continente altro, che fino a quel momento era esistito di fianco
al mio, nella mia stessa città, ma con cui non ero mai
entrata in contatto. Finii con lo stupirmi di non essermi accorta
prima di tutta quella vita.
Mi circondarono di affetto fino dal primo momento. Di questo
fui subito grata.
A loro piacevo. A tutti piacevo. Mi avvicinavano. Soprattutto
volevano che facessi festa con loro. Dovevo mangiare abbondantemente
i loro piatti ricchi di sorprese, e condividere la gioia per
la loro musica.
Ce n’erano di perfettamente inseriti, che avevano portato
in Italia anche i fratelli e i genitori, ce n’erano di
soli, lontani dai figli piccoli e dalle mogli o dai mariti, che
tuttavia non potevano più fare a meno del sistema di vita
occidentale. I loro stipendi assolutamente incompatibili con
quelli che avrebbero potuto ottenere a casa. Vestivano anche
cose firmate e false. O casacche colorate sui jeans.
Però se la testa era in occidente i piedi rimanevano in
Africa, e di questo sembravano ricordarsi quando per celebrare
qualche rito mettevano i loro abiti tradizionali, ascoltavano
i loro cantanti, quando ballavano, quando mangiavano il loro
cibo, quando lo mangiavano con le mani con un’abilità tale
che le dita rimanevano pulite.
Alcuni di loro mi fecero un’impressione più forte:
ad esempio c’era una nera del Senegal che alle feste era
invitata come ballerina professionista, ma aveva un sedere grosso
come quello di un grosso animale. Quando cominciava a muoverlo
diventava impossibile non rimanere ipnotizzati. Anche le cosce
erano belle tonde, ma sode. I polpacci maschili.
Lei cominciava a ballare con grazia paradossale, il pubblico
si entusiasmava e la copriva letteralmente di soldi. Glieli infilava
nella scollatura, oppure glieli incollava sulla fronte sudata.
Una sera mi chiese di raccoglierglieli se le cadevano a terra.
La cosa più sorprendente però era il fatto che
fosse sposata a un avvocato italiano talmente bianco di carnagione
da sembrare albino, e che votava per Forza italia.
Lei era di sinistra, mi disse, ma c’era l’amore a tenerli insieme.
Sulle cose della politica litigavano immancabilmente, nella vita di tutti i giorni
andavano perfettamente d’accordo.
Mi sorprendeva anche il matrimonio tra un vecchio di sessant’anni, magro
e rugoso, con una ragazza cubana che non doveva avere venticinque anni. Lui alle
feste si occupava della loro figlia, una bimba alta quasi quanto la madre, mentre
lei non faceva che sculettare a ritmo di salsa. In generale le coppie di neri
e bianchi risultavano sorprendenti e nello stesso tempo rassicuranti. L’amore
riusciva a mettere insieme di tutto.
E poi naturalmente c’era Asli. Ben presto invase completamente la mia vita,
con il suo fare materno e protettivo.
Asli
mi raccontò che era lontana dal marito e dai figli che
lui le aveva sottratto, rimasti ad Addis Abeba, e ogni tanto
piangeva nella sua solitudine, ma solo ogni tanto, e sempre
brevemente, perché la vita doveva avere la meglio. Fino
a quel momento avevo solo saputo che era lontana dalla sua
famiglia. Ma non mi aveva mai confessato il suo dolore.. Non
era qualcosa che si potesse immaginare, perché il suo
atteggiamento era sempre stato molto aperto e disponibile,
di grande coraggio.
Scopersi che quando era in compagnia diventava la più incredibile
ideatrice di scherzi e narrazioni di ogni tipo. E, accuratamente
truccata, gli occhi sottolineati dal rimmel, il rossetto sulle
labbra, madreperla sulle unghie delle mani e dei piedi, mi trascinò nella
baraonda che era la sua vita, di giorno in compagnia delle sue
amiche, e molte sere in mezzo alle musiche e alle danze di una
discoteca che si chiamava Le scimmie.
La notte, nella confusione, all’inizio io mantenevo un
silenzio carico della mia sofferenza, dalla quale non riuscivo
sempre a prendere le distanze. Ma intanto avevo cominciato a
uscire. E il darmi da fare in qualche modo mi permetteva di tornare
a casa stanca morta e di buttarmi sul letto a dormire per dei
periodi abbastanza lunghi, senza pensare al Fernando perduto.
Asli dimostrava un atteggiamento entusiasta nei confronti della
vita, che le garantiva torme di ammiratori e la mia riconoscenza.
Da un certo momento in poi vissi della sua luce riflessa. In
discoteca, dopo aver provato e riprovato a muovermi al ritmo
noioso del reggae che Asli prediligeva, mi addormentavo verso
le tre con la testa abbandonata sulle braccia conserte sul tavolino.
L’importante era uscire. Reagire. Tornavo a casa intontita,
e mi gettavo sul letto vestita completamente, e subito raggiunta
da Gatto che mi aveva atteso tutto il giorno e la notte.
Quando Asli mi invitò alla festa di San Gabriele della
sua chiesa cristiano copta decisi che volevo saperne di più di
lei e della sua gente.
Dovevo documentarmi.
Dovevo fare come quando leggevo un testo prima di recitare e
lo imparavo a memoria, e diventava una parte di me. Salii fino
all’ultimo ripiano della libreria, a nascondere Il
sogno di una notte di mezza estate in mezzo ai libri di cui avevo meno
bisogno, e uscii a comprare una guida dell’Etiopia.
Mi
piaceva l’idea di conoscere qualcosa di Asli e dei suoi
amici a loro insaputa. Li avrei sorpresi con la mia competenza.
La guida era ben scritta. Era una bella guida della Lonely planet
con una donna nera in copertina, avvolta in vestiti colorati.
Lessi un po’ della storia, che era assurdamente complicata,
e di come erano fatti Addis Abeba e i dintorni. “All’inizio
del XX secolo l’Etiopia era l’unico stato a essere
stato risparmiato dalla corsa europea alla spartizione dell’Africa.
Tuttavia la sua scomoda posizione tra le colonie italiane dell’Eritrea
e della Somalia la rendeva un bocconcino assai appetibile agli
occhi dell’Italia. Quando Mussolini salì al potere
nel 1922 le ambizioni coloniali italiane esplosero e accadde
l’inevitabile”.
Quando arrivò il giorno della festa alla chiesa copta
mi unii ad Asli, volevo imparare un po’ come era la loro
messa, in quale rapporto fossero con Dio.
E, arrivata alla chiesa, vidi che tutte le donne erano addobbate
come quella della copertina della guida, con abiti lunghi, bianchi
e ricamati. Per fortuna mi ero vestita con una camicetta elegante.
Non sfiguravo.La funzione incominciò molto presto la mattina
e durò diverse ore. Per me non era facile stare sui due
piedi ad ascoltare cose che non capivo. C’erano uomini
e donne dentro e fuori la chiesa. A volte si ballava e si cantava.
Mi piaceva l’idea che pregassero battendo tutti insieme
le mani. Il sacerdote condusse il suo pubblico in corteo fuori
dalla chiesa dietro l’Arca dell’alleanza.
Ad Asli quel giorno non era concesso di entrare in chiesa, mi
disse lei. Perché, chiesi. Perché aveva le mestruazioni.
Con le mestruazioni non si poteva entrare in chiesa. E nemmeno
le donne che nella notte avevano avuto un rapporto con il proprio
marito potevano entrarci, o, figuriamoci, con un amante. Così molti
rimanevano nel cortile a chiacchierare. Tanto amore si doveva
essere consumato la notte prima. C’erano capannelli vivaci
e un chiacchiericcio che naturalmente mi colpiva per quanto mi
faceva sentire estranea e lontana. Dovunque c’erano torme
di bambini ben vestiti che giocavano in qualunque modo. C’era
un’atmosfera da festa paesana.Più tardi distribuirono
pane e ngera da mangiare.
E per la verità fu lì che vidi per la prima volta
Million.
Era un bel tipo con una gran massa di capelli rasta . A momenti
si metteva a giocare con i bambini. Li rincorreva, e li prendeva
in braccio. Notai solo questo. Asli me lo presentò velocemente
e non capii come si chiamava.
Alla fine andammo, senza di lui, a casa di amici eritrei di Asli,
che prepararono il caffè alla loro maniera su un complicato
mobiletto di formica, sotto il quale furono sparse delle foglie
colte da un albero. Insieme al caffè vennero serviti dei
pop corn. Fu divertente e strano.
Poi arrivò, a fine luglio, quando l’estate ormai
si stava aprendo davanti a me con le sue lunghe giornate bianche,
ma con la consolazione di Asli, arrivò, dicevo, l’invito
che cambiò tutto, quello di cui ho parlato prima, cioè il
giorno della festa di Usman, che era amico di Asli.
Io
non conoscevo Usman, ma non aveva importanza. Mi aveva invitato
lo stesso, perché Asli gli aveva parlato di me. Usman
era originario del Senegal. Aspettava che la moglie e i due
figli, l’ultimo dei quali non aveva mai visto,.lo raggiungessero
in Italia. Era magazziniere. Aveva organizzato la festa per
il suo compleanno, alla quale aveva invitato gli amici e gli
amici degli amici.
La sua casa era in mezzo alla campagna, saremmo andate con la
mia auto. Mi pettinai con il gel che dava alla mia zazzera rossa
un aspetto spettinato. Infilai il mio vestito più attillato,
con uno spacco che metteva in risalto la mia gamba sinistra.
Infilai braccialetti in tutte e due le braccia. Avevo pianto
per Fernando anche quel giorno, ma mi ero imposta di non farlo
più, almeno fino al giorno dopo. Poi avevo telefonato
alla mamma. “Questa sera c’è una festa”. “Cosa
ti metti?” mi aveva chiesto. “Un vestito attillato”,
risposi. Mi parve contenta. Il suo sguardo da lontano sulla mia
vita, nelle sue condizioni, mi rassicurava.
Avevo tutta l’intenzione di lasciare il fantasma del mio
ex fidanzato fuori dalla serata. E uscii per andare da Usman
piena di una strana e perfino eccitata aspettativa.
Questo nero del Senegal accoglieva i suoi ospiti vestito di un
abito con grandi stampe chiassose. Compiva trent’anni.
Portavo con me una torta salata come contributo al buffet, e
la depositai sul tavolo accanto agli altri sformati, e in particolare
allo zighinì cucinato da una qualche eritrea, che è un
piatto di pane, ngera, da riempirsi di carne e verdura, che loro
mangiano abilmente con le mani, piccante. Era un nuovo tipo di
Sogno
“
Questo è un posto come Dio comanda
per le nostre prove. Questo spiazzo erboso
farà da palcoscenico.
Questa siepe di biancospino da spogliatoio.
Ed ora reciteremo proprio come davanti al duca”.
Anche qui il giardino prometteva magie e avventure.
Era un prato di velluto tagliato di fresco, percorso da donne
di ogni tipo che sfoggiavano vestiti strani e seducenti, e da
uomini bianchi e africani che interpretavano a piacere la combinazione
maglia pantaloni, in mezzo a un tripudio di zanzare.
C’erano tre grandi statue tribali quasi appoggiate agli
alberi e la musica era molto ritmata. Guardai tra i cd impilati
su un tavolo, Yousson N’dour, Cesaria Evora, Fela Kuti,
Papa Wemba e altri di cui non sapevo nulla. Nel patio della casa
due cubane strizzate in jeans e top brillanti ballavano meravigliosamente,
invitando già dal pomeriggio anche gli altri a fare altrettanto.
Non sapevo bene come comportarmi. Volevo starmene a guardare
un po’.
A dire la verità ero discretamente paralizzata dentro
di me. Nessuno mi aveva dato consigli su come recitare questa
parte. Ma non volevo recitarla male, non essendo all’altezza
degli altri ballerini.
Ero e mi sentivo tragicamente bianca, molto impacciata nonostante
avessi tanta voglia di sciogliermi dentro alla vita e alla musica
senza sapere da dove cominciare. Asli partecipava con entusiasmo,
rumorosamente. Pretendeva che ballassi anch’io. Ma ogni
mossa che il mio corpo riusciva a inventare impallidiva di fronte
alla spontanea e allegra perizia degli africani.
Non avevo imparato come loro da bambina certi movimenti delle
spalle e del bacino che rappresentavano quindi per me delle mete
irraggiungibili di bravura. La musica sembrava entrare nei loro
nervi e scuoterli, e dentro di me era inutile, non produceva
questo effetto.Ero in grado tutt’al più di spostarmi
da un piede all’altro in un modo che fino a quel momento
era stato il mio modo di ballare, ma che ora, in mezzo ai ballerini
così capaci di quella festa, non sentivo per nulla convincente.
Immaginavo che il movimento fosse connaturato con loro così come
la parola. Facile muoversi come facile parlare. Anzi, ballando
parlavano di amore e sesso e speranza e felicità
Noi occidentali dobbiamo aver perso la capacità di muoverci
in qualche fase precoce della nostra esistenza, non può esserci
mancata questa occasione da piccoli, ma è come se qualcuno
ci avesse intimato allora di crescere timidi e impacciati.
Ed ora per me, e per gli altri bianchi che vedevo osare il ballo
in mezzo al patio, era troppo tardi. Non potevo fare altro che
ammirare. Asli mi spiegò che il loro modo di ballare si
chiama iskista e consiste nel tener immobili le anche e nel muovere
su e giù, avanti e indietro solo le spalle, come spinti
da una molla. Questa molla mi mancava..
Quando la luce scese e il cielo divenne fluorescente per il tramonto
si formò un cerchio che si muoveva coerentemente secondo
un’altra modalità di danza che probabilmente era
dell’Africa nera: di volta in volta due danzatori si staccavano
dal gruppo e entravano nel centro per inventare movenze sessuali,
intrecciando le gambe e dondolando il bacino in modo da simulare
il coito. Questi uomini e queste donne che nella vita di tutti
i giorni facevano i lavori più umili,facchini, magazzinieri,
trasportatori, per mezzo della musica si trasformavano e diventavano
principi e principesse di un mondo primitivo, capaci di gesti
dal contenuto primordiale, ed io ero sopraffatta dalla loro superiorità,
perché riuscivano a essere espliciti e nello stesso tempo
eleganti.
Mi sedetti da una parte. Ero stanca e un po’ avvilita per
il fatto che il mio corpo, che avevo esercitato nell’ambito
del teatro, mi tradiva ora così tanto, inerte e inespressivo
nonostante il fascino della musica. E fu allora che alzando gli
occhi sul gruppo che ancora ballava che mi accorsi di lui, per
la prima volta.
Doveva esserci stato anche prima, ma lo vedevo davvero solo in
questo momento. Ballava benissimo. Quest’uomo era Million,
che avevo conosciuto alla chiesa copta. Non era alto e nonostante
dal modo di ballare e dai dred sulla testa si dichiarasse africano,
era tuttavia di pelle piuttosto chiara. Si era tolto la camicia
e ballava a torace nudo con un paio di calzoncini corti. Non
poteva dirsi bello, ma la sua faccia mi colpì e rimasi
a guardarlo dalla mia postazione su una sedia laterale.
Era lui, quello che durante la messa della festa di San Gabriele
avevo visto giocare con i bambini. Quando sono in mezzo alla
gente sento spesso la solitudine caratteristica di chi è circondato
da estranei. Ma qualche volta nella vita succede che all’improvviso,
dentro una folla uniforme, un perfetto straniero diventi famigliare,
per qualcosa che, non so dire come, lo avvicina all’improvviso
e lo fa diventare significativo.
Sui tuoi occhi a te villano
ecco verso il succo arcano.
Stava dunque succedendo di nuovo, così, imprevedibilmente.
Incominciavo a provare qualcosa di speciale per Million, senza ancora sapere
chi fosse e perché mi piacesse.
Seduta in un angolo potevo guardarlo senza che nessuno se ne accorgesse.
Parlava e danzava con Asli, sembrava che si conoscessero bene.
E infatti a un tratto smisero tutti e due di partecipare al ballo e vennero dalla
mia parte dove alcune sedie vuote aspettavano di venire occupate.
Vi si lasciarono andare apparentemente esausti. Asli rideva per qualcosa che
lui le stava dicendo nella sua lingua, l’amarico. Asli era seduta tra noi
due.
“
My name is Million” mi ricordò lui sporgendosi in avanti e avvicinando
una mano alla mia. “Antonia” dissi io presa alla sprovvista,
“
Million come milione” suggerì Asli.
“
Veramente?” dissi io “Million come Milione?”
Lui annuì “Milli for my friends. And also for you. I come from Addis
Abeba. And you? Are you Asly’s Friend”
“
Yes, I work with her”.
La musica a tutto volume ci impediva di scambiare informazioni più precise.
Era il momento di Bob Marley. “I prefer african reggae”, disse Million.
Ora non potevo più guardarlo, perché mi sedeva vicino, ma tra me
e me mi interrogavo su quel viso che mi appariva familiare. Il suo viso sembrava
promettere un mondo di storie strane. Immaginai subito che Million avesse passato
l’infanzia e l’adolescenza per strada e che i molti incontri che
aveva fatto gli avessero segnato i lineamenti. Aveva le braccia muscolose e il
torace largo. Il resto del corpo era quasi minuto. Le gambe erano magre e i piedi
erano chiusi in sandali grossolani.
Quando Asli se ne andò a cercarsi da bere lui mi prese una mano e le fece
accarezzare le sue gambe sotto il ginocchio. Erano piene di punture di zanzare.
Rideva.
Mi fece cenno di chiedermi se poteva accarezzare le mie gambe. Feci di sì con
la testa.
“
No mosquitos” disse “Your blood is not sweet enough”.
Poi rimanemmo in silenzio a guardare gli altri ballerini che passavano da una
salsa a una danza africana. Sentivo l’impressione di essergli molto vicina.
Mi prese di nuovo per mano perché mi alzassi e andassi a ballare con lui.
Cercai di resistere. La sua mano era forte. Mi lasciai trascinare. Muoveva le
spalle alla maniera del suo paese, io non potevo riuscirci. Mi fece cenno di
ballare lo stesso. Ci provai vergognandomi molto. Asli ci raggiunse. Si misero
spalla contro spalla a seguire il ritmo. Erano bravissimi. Li lasciai per tornare
a sedermi. Che lo guardassi o meno, ormai esisteva, tra tutti quanti. Milli.
Mi diede dispiacere che qualcuno venisse a occupare le sedie accanto a me.
La notte era scesa dolcemente con la sua oscurità ovunque, sul giardino
popolato di gente, sotto il patio della casa illuminato dalle lampadine. Sembrava
che le ore buie infondessero nuovo vigore a tutti, come se ci fosse un acme da
raggiungere a poco a poco, prima di decidere che la festa fosse finita.
La musica incalzava, lasciavo che mi sfinisse. Avevo bevuto anche un pochettino.
Tutto sembrava facile e a portata di mano. Quell’uomo al centro dei miei
pensieri. Era bello che quest’uomo mi piacesse tanto. Ci eravamo già accarezzati
a vicenda . Le zanzare, una semplice scusa. Come toccarlo ancora? Avanti, farsi
venire un’idea, per non perderlo, per parlarci ancora. Ma non fu necessario
prendere nessuna iniziativa.
Asli venne dalla mia parte e mi fece capire che voleva dirmi qualcosa.
Mi alzai abbandonando la sicurezza della mia postazione.
“
Milli è rimasto solo. Suo cugino è già tornato a casa con
la famiglia. Chiede se lo portiamo indietro noi. Potremmo dormire a casa tua
stanotte”.
“
Certo Asli, perché no. Ma ho un pochino bevuto”
“
Possiamo far guidare lui”.
Acconsentii. Dunque era così facile introdurlo nella mia vita. Come di
cosa decisa dall’alto. Destino appunto, quello che all’improvviso
rovesciava la mia vita e le dava una direzione nuova. Più tardi vennero
a prendermi e io lasciai scivolare le chiavi della macchina nel palmo della mano
di Milli. Salutavamo tutti come se tutti fossero i nostri amici del cuore, anche
se molti di loro li avevo visti per la prima volta quella sera. Mi sentivo in
un’ottima disposizione d’animo, piena di speranza, e lottavo con
me stessa per non cadere addormentata.
Milli prese possesso come un vero padrone prima della mia auto, poi della mia
casa. Come il gatto, ben presto si mosse come se ci fosse sempre stato, dentro
la mia vita e le cose che mi appartenevano.
Era un modo di fare da neri. Anche Asli a casa mia sembrava la padrona. Andava
ai fornelli, prendeva le pentole, il riso, cucinava quello che aveva voglia.
Milli prese i bicchieri dalla cucina. Lui e Asli avevano portato con sé una
bottiglia di whisky e si misero pazientemente a sorseggiarne il contenuto sdraiati
sul divano della mia sala dove il gatto li aveva raggiunti.
Parlavano amarico. Il suono delle loro voci non smise di cullarmi mentre nel
mio letto lentamente prendevo sonno e li lasciavo alla loro conversazione. Il
vino che avevo bevuto mi impedì di stare sveglia. Nemmeno per amore, e
nemmeno per un amore che stava per nascere.
La mattina mi svegliai con Asli accanto a me. Il suo corpo rotondo si stagliava
immobile accanto al mio. Milli dormiva sul divano del tinello con la coperta
addosso, le gambe nude e in una strana posizione. Il gatto si era acciambellato
su di lui. L’unico posto dove potevo stare sola era la cucina. Mi preparai
il caffè. Sedetti in un angolo sorseggiandolo con grande piacere.
Insomma era successo. Non avevo dovuto aspettare nemmeno poi tanto, anche se
l’attesa m’era sembrata più lunga di quanto potessi sopportare.
Nella vita non ero contenta se non ero innamorata.
Ed ora mi sembrava proprio di essere sul punto di un nuovo amore. Benvenuto.
Il gatto arrivò guardingo, stiracchiandosi davanti a me per segnalarmi
che era pronto per la sua razione di croccantini. Lo accarezzai e lo accontentai
subito. Era così bello vegliare sul sonno degli altri, dopo essermi addormentata
con gli altri che vegliavano sul mio.
Preparai con grande cura la colazione per tutti. Ma loro sembravano ancora sprofondati
nel sonno. Sbirciai in sala. Milli se ne stava a pancia in giù in un precario
equilibrio sul bordo del divano letto. Girandosi anche poco avrebbe potuto cadere
come un bambino.
Sul tavolo i miei due ospiti avevano lasciato i bicchieri e la bottiglia di whisky
vuota. Andai in bagno a lavarmi e vestirmi e uscii di casa a comperare il giornale,
percorrendo la strada affollata del sabato. Al ritorno Asli e Milli avevano cambiato
posizione, ma non si erano svegliati ancora. Toccai Asli sulla spalla. Gemette
rivoltandosi. “E’ quasi ora di andare”, le dissi. Controllò l’orologio
da polso a fatica. Si alzò, si grattò la testa e prese in considerazione
l’idea di cominciare la giornata. Quando fu pronta le chiesi, “Che
facciamo con Milli?” Ci mettemmo d’accordo di lasciargli una copia
delle chiavi ben in vista sul tavolo.
Al lavoro fui più efficiente del solito. L’essere nuovamente sul
punto di innamorarmi mi riempiva di energia. Passai da un ufficio all’altro
aspirando dappertutto come una pazza. Pulii le macchie con acqua e detersivo.Non
so se Asli si accorse del mio cambiamento, ma non disse nulla. Mi sedetti a una
scrivania e composi il numero di casa. Milli non rispose. Doveva essere già uscito.
Mi prese forte la nostalgia. Ebbi paura di averlo perso.
Asli disse: “Lo troveremo a casa di suo cugino”. Sì, forse
aveva notato il mio cambiamento, ed ora mi proteggeva. Però finsi di essere
preoccupata per le chiavi che avevo lasciato a Milli. Le dissi:”Mi piacerebbe
che tornaste stasera a cena”
“
Va bene” disse lei, “Ma ricordati che Milli non mangia né cavallo,
né maiale”. “Come mai?” “Per via della Bibbia” tagliò corto.
La sera alle otto erano di nuovo da me.
Il cugino di Milli portava i dred come lui. Cenammo insieme, guardammo un documentario
alla televisione. Si vedevano luoghi selvaggi e spiagge coralline. Acqua del
mare verde smeraldo., palme e vegetazione lussureggiante. Milli mi chiese “Is
Italy this?” “No Milli, there are not place like this in Italy”.
Il gatto andava e veniva, facendosi accarezzare e a tratti rintanandosi nei suoi
angoli preferiti. Spesso gli etiopi si mettevano a parlare nella loro lingua
e mi tagliavano fuori dalla conversazione, ma mi sentivo bene lo stesso.
Era abbastanza che Milli fosse vicino a me. Questo è il primo segnale
dell’amore. Che ci si accontenta semplicemente del fatto che l’altro
sia presente. E quando manca l’ambiente diventa un po’ vuoto, uno
spazio non molto significante. Lo spazio dell’attesa che l’altro
ritorni.
Arrivarono le una di notte ed erano ancora con me. Io stranamente resistevo sveglia.
Guardai alla finestra. Il ristorante di fronte aveva spento le sue luci e così anche
il gelataio all’angolo. Milli disse che sarebbe uscito per una passeggiata.
Dissi che sarei andata anch’io. Gli altri due ci salutarono tranquillamente
e ripresero le loro confidenze intorno al tavolo.
Fuori c’era un venticello tiepido e una bella luna dorata che camminava
con noi da sopra i tetti.
Le strade erano quasi deserte e silenziose.
Nell’attraversare Milli si faceva più vicino a me e a volte mi teneva
per il braccio, come se fosse pericoloso che io proseguissi da sola, senza la
sua vigilanza.
“
Tell me your story” mi chiese. Lo guardai sorpresa.
“
Your love story. Everyone has a love story”
“
I am an actress, you know” risposi allora, perchè gli avevo già raccontato
della mia passione per il teatro. Continuai il racconto.
“
I fall in love for a young actor, younger than me. His name was Fernando. His
caracter was not easy. He was very ambitious. We loved each other for almost
one year. After that there was a comedy where we had to… recitare. How
do you say recitare?”
“
To play”
“
E’ vero, to play. Well, then the director arrived. She was a woman. A beautiful
woman. She fall in love for Fernando. There was a difference of age of twenty
years. But it did not matter. Fernando left me, and now I’m alone”.
Stavamo attraversando una strada, deserta come le altre, e Milli allungò un
braccio per guidarmi e nello stesso tempo per consolarmi del mio triste resoconto.
“
I’m sorry for you. But now you can meet someone else better than him”.
“
Ormai il dolore sta passando. But you? What about a girlfriend in Addis Abeba?”
“
Yes, I had a girlfriend”, rispose molto lentamente, tenendo la testa reclinata
sul petto e i dred gli nascondevano gli occhi.
“
Tell me about”.
Non cominciò subito. Percorremmo un breve tratto in silenzio. Non c’era
nessuno. Davanti a un portone chiuso si fermò e poi scandì bene
il suo racconto. “She was nice. She was eritrean. When the war began she
had to go back in Asmara. She was called at the army. Her family doesn’t
know anything about her”
“
Oh Milli. Do you think she’s dead?”
“
I don’t know. I wait always some news about her. But now time passed.”
Mi guardò dritto negli occhi e mi prese il mento tra le mani: “You
too are so nice”, disse Poi riprendemmo a camminare: “Do you want
to come with me in Etiopia. If you want I can show you my country. I leave soon”.
“
For your job?”
“
I’m… commerciante” disse in italiano “I’ve business
with China.
Gli alberi di città, alti e forti, allineavano i loro tronchi neri nel
buio della notte. I semafori lampeggiavano tingendo l’aria di un po’ di
colore giallo. Il mondo si era fermato per dormire, e noi due eravamo le uniche
presenze vive in quelle strade.
Mi fermai di fronte alla saracinesca di un meccanico. Ero indecisa su quello
che era più adatto e utile dire. “Do you want I come with you?”
Accennò a baciarmi sulle guance. Prima su una guancia poi sull’altra.
Aspettavo il terzo bacio che è proprio del rituale etiopico. Ma la sua
bocca scivolò sulla mia e vi si fermò. Aprimmo le labbra Mi si
strinse addosso. Mi appoggiò alla saracinesca. Il suo sesso indurito cercò il
mio, i vestiti a separarli. Gli affondai le mani nei capelli folti e lo allontanai
un po’ “Wait Milli”. Mi mordicchiò le labbra e si staccò da
me. “We can make love tonight?” chiese. Ci baciammo ancora a lungo
poi lo fermai di nuovo.
“
No, we cannot make love”.
“
Why not?”
Dissi molto sicura: “We haven’t anything to make sex sure”
Seguì un momento di silenzio. Sembrava che questa volta ci mettesse un
sacco a tradurmi.
“
Do you mean condom?”
“
Yes”. Ma sapevo che non era solo questo. Avremmo potuto andare a cercarne
un pacchetto in una farmacia notturna. Non era quello.
C’era altro.
Lo sapevo, mentre rimanevo zitta nel silenzio calato tra noi.
C’era qualcosa che avevo capito definitivamente con Raimondo. Quella cosa
che è l’amore di una volta sola. Com’era stato quello con
Raimondo e con altri prima di lui.
L’amore della prima volta per me era sempre soltanto l’inizio. Quello
che apriva la porta alla conoscenza più intima
Per un uomo invece, questo avevo capito, una volta sola poteva bastare. Questa
la differenza.
Fin dal primo momento io cadevo nell’esistenza dell’altro tutta intera.
L’altro invece si accontentava di assaggiare il mio corpo come per una
curiosità repentina e passeggera.
Con Raimondo era successo così. Con altri era successo in passato. Io
sempre mi immaginavo fin dall’inizio il grande amore. Non può essere
il fatto così, di passare una notte soltanto. Per un uomo, ora lo sapevo,
una volta sola è una facile esercitazione di cui godere e poi dimenticarsi.
Per una donna come me invece ogni sospiro, gemito, ogni atto e ogni gesto racchiudevano
come in un regalo un’attenzione speciale e una promessa di futuro.
No.
Con Milli non volevo consegnarmi senza difese. C’era la serena delicatezza
di quella notte così silenziosa e profumata. Questo mi spingeva a confidare
nelle carezze e nei baci.. C’era la brutalità del suo sesso contro
il mio. Era troppo presto. La mia mano che lui aveva condotto giù in basso
oltre la cintura ritornò al suo posto chiusa in un pugno.
Mi guardai intorno per vedere se arrivasse qualcuno. La strada era completamente
deserta. Riprendemmo a camminare fianco a fianco in silenzio. Poi si fermò di
nuovo “Come with me, Antonia”, disse di nuovo.
“
Certo che verrò con te”, dissi in italiano.
Mi baciò ancora sulle labbra.
Tirai fuori le chiavi per aprire il portone e gliele porsi perché aprisse
lui.
“
Sleep with me, please” gli chiesi.
Milli rise : I could not sleep with you. I could not, you know. Let me go home.
Ci vediamo domani” terminò in italiano.
Salì in casa a prendere suo cugino che nel frattempo si era ubriacato
e se ne andò con lui e con Asli lasciandomi sola nel silenzio della mia
stanza a pensare.
Il
gatto mi raggiunse subito.
Dunque questa era una fase della mia vita diversa. Doveva esserlo
se volevo imparare qualcosa dalle esperienze.
L’amore non può essere la malattia di un attimo
indotta da un Puck in vena di pazzie con l’aiuto di un
succo magico che sveglia o assopisce i sentimenti, che così come
produce l’incantesimo lo scioglie e lo deride.
Non c’è niente da ridere in amore. Io volevo una
storia duratura. Qualcosa che assomigliasse all’attaccamento
dei miei gatti, di Gorbaciov per Raissa, di mia madre e di sua
sorella. Volevo un compagno alleato nei confronti degli avvenimenti
della vita.
Durante la notte, non riuscendo a dormire, continuavo a pensare
e pensare. Cos’è il modo diverso di intendere l’amore
dell’uomo e della donna. In cosa consiste. Nel corso del
tempo mi ero fatta un’idea. Il mistero che spingeva l’uomo
a possedere una donna anche solo una volta, senza amore, si chiamava
erezione.
Oh sì, era di questo che ragionavo, stranamente non riuscendo
a prendere sonno, nel buio della mia camera, avvolta nelle coperte
e sola perché Milli se n’era andato a casa invece
di rimanere semplicemente a dormire accanto a me per dare un
avvio che io ritenevo più poetico alla nostra relazione.
Nel buio della notte, rassicurata dal calore del mio letto, ragionavo
sugli uomini e su quel buffo meccanismo che si impadronisce del
loro sesso e li comanda e dirige, senza romanticismo.
Il loro pene singolarmente dotato di vita propria, come un bambino
piccolo e capriccioso che reclama di venire accontentato subito
quando la fame incalza.
L’amore si accompagna al sesso solo dopo quella frequentazione
che permette a due amanti di imparare i reciproci desideri.
Quindi la prima volta non dovrebbe mai essere l’ultima.
E’ una prova. Farlo una volta sola e poi basta è togliere
l’anima all’amore e lasciarlo sbucciato, indifeso,
morente.
Non che non mi piaccia la sfacciataggine dell’erezione,
pensavo. L’uomo non può mentire.
Il pene inalberato come una bandiera, un segno così vistoso
e bello del desiderio. Il desiderio sciolto nel sangue che finisce
con l’erigere un simile monumento, ardito, vigoroso, allegro
perfino, al bisogno dell’altro. L’erezione è bellissima.
Una donna ha desiderio di provocare l’erezione. Non solo
quella però. Non per una volta sola e poi basta.
Come lo posso dire? Per me attrice era come affrontare un provino
e subire il rifiuto.
Avanti un’altra. La parte non ti è affidata. Buttala
via, non c’è pubblico, non c’è recita,
niente applausi alla tua interpretazione.
L’amore è un turbinio che ha bisogno di venire calmato
alla fine, di acquietarsi tra le braccia e dentro la vita dell’altro.
“ Qui sulla nuda terra
dormi profondo.
Il mio farmaco
o dolce amante
ti stillerò
sul ciglio
E al tuo risveglio
Troverai
grande piacere
nel rivedere
gli occhi del primo amore.
E il detto di campagna
“ tocca a ognuno il suo dovuto”
sarà vero al tuo risveglio. Gianna avrà Giannino
e niente andrà per il peggio.
Chi l’ha persa riavrà la cavalla
e tutto finirà per il meglio.”
Con Milli io volevo qualcosa che non fosse di una volta sola e per finta.
Che sapevo di lui, se non che mi attraeva.
Non sarei più riuscita a giocare.
Gli avrei insegnato a tenere a bada il suo istinto impietoso, quel suo sesso
così reclamante, per dare la possibilità a una storia che stava
nascendo di costruirsi un po’ alla volta, con tutta la poesia che poteva
contenere. Volevo che mi portasse il suo paese e tutti i suoi amici in dote.
Un povero paese pieno dell’energia primordiale di tutti i paesi poveri.
In cui la gente aveva a che fare con problemi essenziali e non con le nevrosi,
così immaginavo. I loro sorrisi a dispetto di tutto. Il loro corpo che
ricorda tutti i movimenti e il fascino e l’allegria del ballo anche quando
loro sono esuli e mortificati da lavori che noi occidentali gli lasciamo in elemosina.
Perché vivere è bello nonostante ogni confusione e il dolore.
Mentre così ragionavo nella notte insonne il gatto era preso da una delle
sue estemporanee follie e saltando e correndo di qua e di là per la casa
come un cacciatore in cerca di preda contribuiva a tenermi sveglia.
Scesi dal letto per cercare la guida lonely planet dell’Etiopia. Il sonno
non voleva venire. Allora pensai di passare il resto del tempo a sognare a occhi
aperti, capacità che un’attrice possiede al massimo grado, quando è guidata
da un testo.
La prima cosa che immaginavo con veridicità era che Milli mi fosse accanto
nel letto.
Lui non era rimasto, io chiamai a sostituirlo il suo fantasma, più accondiscendente
con me.
Questo Milli immaginario era sdraiato nel letto al mio fianco e mi accarezzava
la pelle nuda con la stessa delicatezza con cui io accarezzo il mio gatto. Mi
accucciai contro di lui e lo pregai, come faceva mia madre con me: “Raccontami
qualcosa di bello”.
Nel mio sogno Milli rispose in uno strano italiano, quello che una straniero
usa dopo qualche tempo che sta nella nuova terra ospitante.
“
Cosa vuoi sapere?”
“
Di te e del tuo paese”
“
Ad Addis Abeba ci vivo da quando ero bambino. Stavamo per strada, spesso giocavamo
alla guerra con una banda di amici. Alcuni di loro poi sono morti nella guerra
vera. Anch’io ho visto i cadaveri, quelli della battaglia del Tigrè…Ma
questo non è bello da sapere. Non te lo voglio raccontare, dentro di me è cancellato
Invece quand’ero bambino ero felice. La mia è una città enorme.
Se vuoi che continui, prima mi devi baciare”.
Baciai Milli castamente sulla fronte, e ridemmo.
E lui riprese.
“
Come sono le strade di Addis Abeba?” gli chiesi
“
Piene di gente, Confuse. Ti terrei sempre per mano per non perderti. Però è accogliente
e per nulla pericolosa. Ti sentiresti sicura con me e anche senza di me. Ti divertiresti,
ci sono grandi alberghi, palazzi dell’epoca fascista insieme a capanne
d’argilla, e macchine e taxi, e bus e asini e capre che brucano sui marciapiedi.”
“
Bello. Andrei di sicuro in qualche mercato, ma davvero dovresti starmi vicino,
perché mi piace girare senza dover pensare a dove sono. Da sola mi perdo.
Nei posti che mi prendono di più sono capace di andare in estasi, perdo
il senso del tempo. Mi affiderei tutta a te”.
“
Fai bene a dirmelo, non ti perderò d’occhio. L’Addis Ketema
ti piacerebbe molto , è il più grande mercato dell’Africa
orientale. “
“
Com’è fatto?”
“
Odore di spezie e colori dei tessuti. Devi vederlo. Vieni qui per favore. E togliti
un po’ questa cosa che io non ci riesco”
“
Non ci riesci perché per ora non voglio. Ma dopo lo vorrò anch’io.
Dimmi ancora cosa farei al mercato. “
“
Ti piacerebbero le bancarelle dove gli artigiani trasformano le latte d’olio
e i pneumatici. Cammineremmo per ore. Ma non solo in questo mercato. Ti porterei
al museo a vedere Lucy, lo scheletro umano più antico del mondo. Lo scoprirono
negli anni Settanta in un lago prosciugato. Ha tre milioni di anni, riesci a
capire? Metà donna e metà scimmia, pesante non più di 30
chili, alta poco più di un metro. Una piccola donna attraente come sei
tu. Sai perché si chiama così? Perché al momento della scoperta
gli archeologi ascoltavano Lucy in the sky with diamonds”
“
Dei Beatles”
“
Certo. Per ringraziarmi adesso baciami qui”
“
Sì, lo meriti”
“
Sai che l’Etiopia è considerata la culla dell’umanità?Veniamo
da un passato pieno di meraviglie”
“
Ma oggi…la carestia nel tuo paese…”
“
Carestia? Non ne ho sentito parlare. “
Così il Milli vero mi aveva risposto quando gli avevo chiesto della “famine” di
cui raccontavano i giornali.
Chissà com’era che non ne sapeva niente.
Non conosceva il problema della Nestlè, che aveva intentato una casa al
governo dell’Etiopia per un esproprio subito, e poi l’aveva ritirata
per problemi di immagine aziendale.
Il mio Milli inventato preferiva, come quello vero, raccontarmi di favole e leggende.
Dovevo accettarlo. Probabilmente non voleva fare brutta figura con un’occidentale
e per questo prediligeva i racconti sul passato mitico.
Disse che voleva condurmi a Lalibela, una delle meraviglie del mondo, con le
cattedrali scolpite nella montagna. Ma non accennò al fatto che fossero
abitate dai poveri che inseguivano i turisti per chieder loro denaro.
Voleva dimenticare che il suo paese era uno dei più poveri del mondo,
dove gli aiuti internazionali venivano trattenuti tra le maglie della burocrazia
statale, mancava l’acqua per gli allevamenti, il crollo del prezzo del
caffè aveva costretto migliaia di persone ad emigrare, c’era stata
la guerra…
“
E tu hai mai sentito del regno di Axum.?” chiese il Milli dei miei sogni.
”
I negus che si sono succeduti alla guida del paese derivano il loro potere dalla
storia d’amore tra la nostra regina di Saba e il mitico re d’Israele
Salomone. La regina si recò in Israele e venne accolta da Salomone che
se ne innamorò. Tornata ad Axum ebbe un figlio, Menelik che da grande
rivide Israele e trafugò l’arca santa con le tavole della legge.
Allora l’Etiopia era piena di giacimenti d’oro e per tutto il paese
viaggiavano le carovane ricche di mercanzie. Il mio popolo è di nomadi
che fondavano accampamenti e poi li scioglievano. Addis Abeba ha solo un secolo
di vita.”
“
Tu fai commercio, Milli. Ma di cosa?”
“
Di quello di cui c’è bisogno. Vestiti, cibo…dipende da quello
che richiede il mercato. Qui in Italia ho cercato automobili usate da importare,
ma sono troppo costose. Quando verrai viaggeremo in aereo o in pulman. O affitteremo
una macchina, come vuoi tu, se preferisci che andiamo a Sud dove ci sono le tribù più strane.
Andremo dagli Aborè che coltivano banane e caffè. I loro bambini
fanno da spaventapasseri viventi. Le donne Hamer sono coperte di gioielli di
conchiglie. I Galeb hanno i capelli impastati di cenere e ocra e si adornano
di penne di struzzo. I migliori agricoltori sono i Konso. I loro villaggi sono
molto belli. Ci entri per una stretta porta, un tunnel di tronchi. Le ore del
tramonto le passano a suonare con flauti e tamburi…”
In realtà piano piano questo racconto che mi stavo inventando mi portava
finalmente verso il sonno e cominciavo a sbadigliare. “Dove andremmo se
fossimo stanchi?”
“
Potrei condurti al New Filwoha Hotel, ad Addis Abeba, dove ci sono le acque termali
e i massaggi. Vuoi un massaggio ora? Anch’io sono bravo. E tu? Sapresti
massaggiarmi un pochino?”
“
Oh, Milli, quel che ho letto è che l’Etiopia ha perso tanti animali
selvaggi che si sono estinti, ma è rimasto il paese degli uccelli”.
Socchiusi gli occhi e mi preparai ad addormentarmi.
“
Ci sono trampolieri, cicogne, aironi, pellicani, fenicotteri, falchi, otarde.
Hai mai visto volare gli storni?” chiese allora il mio Milli fantasma.
E continuò:“Volano tutti insieme a creare nuvole scure nel cielo,
che cambiano forma continuamente in mezzo all’azzurro. Formano queste composizioni
perfette senza mai sbagliarsi, senza scontrarsi, però sono migliaia, in
ammirevole armonia, in un equilibrio magico, incomprensibile. Io penso che il
volo degli storni sia la descrizione del paradiso, quando noi tutti esseri umani
avremo imparato a volare insieme, e ci ritroveremo in un modo armonioso e danzeremo
nell’aria e ci vorremo bene senza fraintendimenti e fatica.”
Poi disse: “Vieni, cominciamo da noi due ora…facciamo l’amore,
vuoi?”
“
Sì” dissi io, “ora facciamo l’amore”.
E così dicendo mi addormentai.
Nei
giorni che seguirono ebbi solo due problemi, ma molto gravi,
da dover affrontare.
Dove portare il gatto e come mettere insieme i soldi per partire
per l’Etiopia.
Milli mi aveva detto che la vita laggiù non sarebbe stata
costosa, ma il prezzo dell’aeroplano era già tale
da procurarmi delle difficoltà.
Fernando, Raimondo, Flora e Puck ero ormai sul punto di dimenticarli.
Mi era passata la voglia di piangere, naturalmente. Dovevo soltanto
organizzarmi il più velocemente possibile, perché non
sapevo quando Milli avesse intenzione di partire e volevo tenermi
pronta. Sarebbe successo ad ogni modo entro agosto.
Per il momento lui era volato insieme al cugino in Svezia da
parenti, ma progettava di tornare in Italia al momento di ripartire
per il suo paese e mi aveva confermato che voleva portarmi con
sé. Mi telefonava tutti i giorni con qualche frase carina
in italiano che probabilmente si faceva tradurre dal cugino.
Questa cosa della mia partenza mi metteva, come mi capitava al
solito di fronte ai viaggi, in uno stato di allerta costante,
dalla mattina alla sera. C’erano un sacco di questioni
pratiche da affrontare, più di quelle che sapessi risolvere.
La realtà è molto complicata e mette i bastoni
tra le ruote all’immaginazione.
Un giorno, prima di partire per la Svezia Milli mi aveva detto: “I
want merry you”.
Sembrava serissimo.
Era molto di più di quello che potessi sperare. Volevo
impegnarmi, correre il rischio, accettando di aprirmi a una vita
inaspettata. Un amore serio, che passa attraverso esperienze
profonde. Un altro mondo che mi rende ricca di nuove conoscenze.
Non ci avevo mai pensato. Ed ora era lì di fronte a me.
E con quanta facilità, nell’espressione convinta
di Milli che mi teneva le mani, accettavo paradossalmente di
andare a cercare sicurezza e continuità in un paese insicuro
e frammentario. L’unica possibilità che avevo di
affrontare i miei problemi era andare a trovare la mamma. Dovevo
chiederle di tenermi Gatto e poi di darmi in prestito un po’ dei
suoi risparmi. Io certo i soldi per il viaggio da me non li avevo.
Era una soluzione che mi pesava, ma non ne vedevo altre.
Per un momento però mi sentii perduta. E un dubbio feroce
mise in forse i miei programmi.
La colpa era di una storia raccontata per filo e per segno nella
cronaca del mio quotidiano. Lessi con avidità. Una ragazza
era andata in vacanza a Sharm el Sheikh, sul mar Rosso, e si
era innamorata di un ragazzo egiziano. La loro relazione era
durata tre anni, con lei che volava da lui appena poteva. Finchè aveva
deciso di sposarlo. Aveva preparato i documenti necessari e l’italiana
li aveva portati con sé al Cairo. Ma i documenti non bastavano,
le dissero gli impiegati. Ce ne volevano altri. E a quel punto
il giovane egiziano, convinto di tornare con lei a cominciare
una nuova vita in Italia, e ora impossibilitato a partire, aveva
perso la testa. Aveva chiuso la sua fidanzata in una stanza e
l’aveva picchiata. Chissà per punirla di cosa. A
salvarla era stato il fatto che in un momento di distrazione
di lui lei aveva mandato un messaggio con il telefonino a un
amico in Italia. E il ragazzo egiziano l’aveva lasciata
andare, triste e terrorizzata.
Mostrai l’articolo ad Asli. “E’ solo una storia.
Chi racconta invece tutte quelle che finiscono bene? Eppure tu
le conosci. Tra i nostri amici è pieno di coppie miste
felici, non ti sei accorta, non le hai mai contate?”
“
Milli mi vuole sposare per venire in Italia?” chiesi
“
Non ci sarebbe niente di male. Ma per quello che capisco di lui,
non ti farà soffrire”
Così una bella mattina mi inginocchiai in corridoio, con
la gabbietta di fianco, e mi misi a chiamare il mio gatto con
i soliti bacetti e soprattutto scuotendo la scatola di croccantini,
in modo che facesse il rumore che lo incantava.
E Gatto arrivò e io riuscii ad agguantarlo e nonostante
facesse resistenza lo pigiai dentro la gabbia dove cominciò a
miagolare e a starsene con la bocca aperta e la lingua di fuori.
Il giornalaio della stazione, dove mi ero fermata per comperare
l’ultimo Harmony da regalare a mia zia Una regina made
in Usa, vedendo così il mio gatto, mi fece una disamina
della situazione degna di un veterinario.
“
E’ ansia da viaggio, lo vedo da come tiene aperta la bocca.
Ci sarebbe voluta della xamamina e gli sarebbe passata. Contiene
serotonina che calma i timori”.
Edicolante d’eccezione.
Forse anch’io ero soggetta a quell’ansia, anche se
non tenevo la bocca aperta. Quando il treno partì, Gatto
per fortuna smise di miagolare e io potei immergermi nella mia
nuova lettura, che era Ebano di Ryszard Kapuscinski. Un reporter
polacco che era stato in Africa a lungo. “In passato, quando
gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il
viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. I panorami
scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava di poco
alla volta. Un viaggio durava settimane, mesi…Oggi di questa
gradualità non resta più niente. L’aereo
ci strappa bruscamente alla neve e al gelo e il giorno stesso
ci scaraventa nell’abisso ardente dei tropici”.
Così mi sentivo io anche prima di cominciare. Scaraventata.
Scaraventata da Puck e dal mio Sogno pieno di atmosfere magiche,
a un mondo completamente nuovo, altrettanto fatato, a considerare
le descrizioni dei paesaggi che avevo letto sulla guida, ma così imprevedibile,
perché ero abbastanza scaltra da capire che quel che leggi
sulle guide non corrisponde mai alla realtà che poi si
incontra. Mettiamo che tu sia davanti a uno scenario incantevole.
Ma hai le vesciche ai piedi per quanto hai camminato. E al contrario,
in un luogo senza particolari attrattive, lui ti dà un
bacio diverso da tutti quelli mai dati. Nonostante la mia capacità di
immaginare, avevo la sensazione che l’Etiopia mi fosse
sconosciuta quanto uno qualsiasi dei pianeti del sistema solare.
Avrei dovuto spiegare alla mamma cosa mi ci spingeva tutto d’un
tratto. La mia attrazione per Milli non sarebbe stato un buon
motivo per lei come lo era per me.
Arrivai e la zia mi venne ad aprire la porta tutta eccitata.
Era sempre molto contenta di vedermi. Era sempre molto contenta
di vedere qualcuno, perché con la mamma passavano le giornate
da sole e avevano fame di visite. C’era una signora della
parrocchia che portava loro l’ostia della comunione. C’erano
le vecchie amiche. E verso sera arrivava anche lo zio che lavorava
da autista. Ma per il resto trascorrevano il tempo in cucina
a risolvere le parole crociate la mamma, a leggere i rotocalchi
e gli Harmony mia zia. Fantasticavano sulla vita dei vicini di
casa che si vedevano attraverso le finestre. Oppure stavano in
sala a guardare i quiz alla televisione, le telenovelas, i telegiornali.
Ed ora che l’estate era cominciata, sedevano fuori, davanti
al giardinetto circondato da cespugli di fiori. Mia madre era
paralizzata nella parte destra del corpo da un ictus che l’aveva
colpita tre anni prima, dopo la morte di mio padre. Mia zia Emilia
l’aveva immediatamente adottata e se l’era portata
a casa, in una città lontana un’ora di treno dalla
mia, per accudirla con un amore sorprendente, perché prima
della disgrazia non aveva avuto modo di manifestarsi in tutta
la sua pienezza come ora.
Ora, così, quelle due donne vivevano intimamente la malattia
capitata a mia madre.
La zia Emilia le aveva concesso di portare con sé dei
mobili dalla sua vecchia casa, dei soprammobili e dei dipinti.
Così ora l’appartamento della zia era arredato in
maniera sovrabbondante.
C’erano fotografie incorniciate di tutta la famiglia, statuine
di ogni tipo, centrini di pizzo, vasi, candelieri. C’erano
piante e fiori che la zia curava con amore. Le petunie viola
pendevano fuori dalle finestre come un tappetino profumato.
Nel giardinetto mia zia e mia madre si erano perfino inventate
di far piantare un filare di pomodorini, che ora pendevano rossi
e brillanti, rallegrando il verde del prato.
Mia madre mi chiamava tutte le sere per salutarmi biascicando
un po’ le parole. Ma oramai sapevo a memoria quello che
voleva dirmi. La prima cosa era che aveva caldo. Aveva sempre
caldo, d’estate come in pieno inverno. In secondo luogo
si informava su di me. Voleva sapere come mi ero vestita per
uscire. Insieme a ciò che avevo mangiato, era quello che
voleva sapere da me. E spesso aggiungeva: “Novità”,
e a scelta “Raccontami qualcosa di bello”. Anche
dopo la rottura con Fernando il suo interesse nei miei confronti
non aveva cambiato di modalità. Come mi vestivo e cosa
mangiavo. Però aggiungeva che Fernando non mi meritava
e che dovevo smettere di piangere.
Anche mia zia insisteva che avrei trovato qualcosa di meglio,
a saper aspettare.
E alla fine della telefonata mia madre mi informava sempre di
quello che mangiava lei, che dava sempre indicazioni alla zia
su come cucinare, ma che aveva perso purtroppo l’appetito.
Aveva avuto un carattere molto forte, e continuava a mantenerlo
anche dopo la paralisi. Mia zia, che era più vecchia,
si sottometteva con piacere. Era una bella donna con i capelli
ossigenati, che aveva superato i cinquanta e che nonostante la
presenza del marito, continuava a coltivare sogni d’amore
leggendo i suoi adorati romanzi rosa.
Quando entrai in casa dopo che mi era venuta ad aprire, vide
contemporaneamente la gabbietta tenuta dalla mia mano destra
e Una regina Made in Usa nella sinistra.
Catturò il suo Harmony e mi accompagnò in cucina
leggendo a voce alta la trama sulla quarta di copertina.
“
Essere un principe ereditario di Treviboni obbliga Antonio Lorenzo
a trovare una moglie al più presto, viste le precarie
condizioni di salute del padre. Per schiarirsi le idee e prendere
una decisione parte per un viaggio al campo profughi di Malmeno,
in cui infuria la guerra civile. Non si aspetta che ad accoglierlo
ci sia la bella Jennifer Allen, un’americana intraprendente”.
Era una strana storia d’amore ambientata in un terzo mondo
da operetta. La protagonista si dedicava alla cura dei poveri.
Il protagonista era un aristocratico dotato di nobili sentimenti.
“
Ce l’avevi già, zia?” chiesi.
“
No, questo dev’essere l’ultimo e qua non è ancora
arrivato. Poverino il gattino, guarda come tiene spalancata la
bocca. Gli manca l’aria, piccino”.
“
Ma come fai a leggere certi romanzi, io proprio non capisco” disse
mia madre rivolta alla zia.
La baciai . Appariva sempre più piccola e magra nella
sua carrozzella.
La baciai sulle due guance, quella paralizzata e quella no e
le dissi che mi pareva che stesse bene. Le presi tra le mani
la mano che non poteva più muovere. Poi liberammo il gatto
che appena uscito dalla gabbia corse a nascondersi sotto il letto
della zia. Lei gli riempì la scodella con il cibo e gliela
mise davanti, per non lasciarlo solo a risolvere i suoi problemi.
La zia era abituata a risolvere i problemi della mamma. Nonostante
non le piacessero le parole crociate si impegnava sempre a cercare
le risposte, quando la mamma glielo chiedeva. 36 orizzontali,
Fu redenta con Trieste. 15 verticale, adoravano Giove. E la mamma,
nonostante non le piacessero i romanzi rosa, accettava che la
zia gliene raccontasse la trama, quando aveva finito di leggerli.
Mia mamma aveva imparato a usare la sinistra per scrivere, ma
era sempre impaziente di fronte alle proprie limitazioni.
La zia no, sopportava tutta la sfiducia e il malumore di mia
madre quando si manifestavano. Accettava e sorrideva. L’aiutava
a fare la doccia. Spesso la puliva dopo il gabinetto. Le spalmava
anche una crema grassa sulle gambe e le braccia dove la pelle
si squamava. In ogni momento, se glielo chiedevi, la zia avrebbe
saputo raccontarti per filo e per segno com’erano andate
le giornate con la mamma di un’intera settimana, quando
aveva dormito e quando no, quello che aveva mangiato e come si
era sentita.
Mia madre cercava di fare quello che le era concesso dalla paralisi.
Negli ultimi tempi aveva tentato con successo di mettersi in
piedi, appoggiata a un bastone di metallo che finiva con tre
punte. Di questo andava veramente fiera. Quello che la divertiva
era anche spiegare alla zia come andavano eseguite le ricette
di cucina, perché era stata una brava cuoca, e sempre
trovava che la zia avesse sbagliato qualcosa. Per questo mangiava
sempre meno, con una smorfia di disgusto sulle labbra.
Mia zia le metteva davanti piatti su piatti, sempre speranzosa
che l’altra ne avrebbe accettato qualcuno: nervetti, aringa
marinata, il lesso con i sottaceti. La zia aveva chiamato un
giardiniere che aveva piantato in giardino un filare di pomodorini.
Era un altro tentativo di far mangiare alla mamma qualcosa di
buono.
Le due sorelle, da quando mia madre si era ammalata, non potevano
fare a meno l’una dell’altra. Ogni settimana aggiungevano
a tutto l’arredo già sovrabbondante statuine comprate
quando uscivano insieme, la zia alla guida della sedia a rotelle
della mamma, per andare al mercato il venerdì mattina.
E ancora: c’erano oggetti per la ginnastica della zia,
acquistati alle aste della televisione. Non mancavano i gadget
dei settimanali femminili
Anche mia madre e mio padre avevano passato una vita di dedizione
reciproca. Sempre litigando, ma i litigi erano la prova dell’importanza
che rivestivano l’uno per l’altra. I litigi avevano
come scopo quello di farli rimanere insieme.
Mio zio era sposato con mia zia da vent’anni.
Come ho detto, tutti loro, mia madre e mio padre, mio zio e mia
zia, mi facevano pensare all’amore tra i miei gatti, a
quello di Gorbaciov per Raissa. Qualcosa di così profondo …una
specie di attaccamento speciale, che non avevo conosciuto, perché Fernando,
nel lungo periodo che avevamo passato insieme, era stato sempre
sfuggente e parziale nei miei confronti, ora me ne rendevo conto,
altrimenti non avrei ceduto alla seduzione di Raimondo, anche
questo ero arrivata a capire.
Quello che cercavo era una speciale unione d’intenti. Molta
libertà di movimento, ma dedizione nei sentimenti. Nel
passare da un amore a un altro è contenuto troppo dolore.
Ed ora, come sarebbe stata la storia con Million?
Cosa avrebbe portato l’Africa nella mia vita?
Da lontano l’immaginavo come il luogo di storie selvagge
e primitive, capaci di mettere alla prova la mia vita fatta di
sicurezze e ripetizioni. E di comodità. Ma priva di quella
energia così spontanea che intuivo nei neri. Il loro resistere
nonostante tutto. Un senso di inferiorità nei confronti
dei bianchi. Una volontà di riscatto. Il complicato esercizio
di assimilarsi a noi mantenendo intatto il proprio carattere
e vive le radici.
Avrei potuto affrontare tutto questo solo se fosse cresciuta
la intimità tra me e Million. I suoi baci erano così generosi.
Avrei voluto che lui mi raccontasse anche della guerra. E della
fidanzata sparita. E dei poveri che muoiono di fame. Accettando
che le zone d’ombra della sua esistenza entrassero a far
parte della nostra vita insieme. Perché le mie zone d’ombra,
la mia solitudine e la paura delle lunghe estati bianche io gliele
avrei portate in dote, come parti di me che lui poteva provare
a guarire.
Le difficoltà affrontate in due.
E mi chiedevo se sarei stata capace di partecipare al nuovo racconto
della mia vita che mescolava tante esperienze insieme, sentendomi
contenuta in nuovi affetti e conoscenze, o se mi sarei sentita
diversa e al di fuori, come alla festa di Usman, quando non ero
riuscita per nulla a ballare.
Non so per quale motivo Million mi sembrava promettere che mi
avrebbe protetto. Ma che ne potevo davvero sapere? Il futuro
non lo puoi mai prevedere.
Introdussi
l’argomento Etiopia solo dopo pranzo.
La mamma si pulì la bocca del budino di cioccolato che
era l’unico alimento che avesse accettato e, seduta nella
sua carrozzella, giù in giardino, si apprestò tranquillamente
ad ascoltarmi.
“
Ho bisogno dei soldi per andare in Etiopia. Ti ho detto (era
successo qualche giorno prima al telefono) che ho incontrato
questo Milli che mi piace molto. Fa del commercio, è venuto
in vacanza in Italia da un suo cugino, ed ora è in Svezia
a trovare dei parenti. Ma poi tornerà in Etiopia e mi
ha offerto di andare con lui. Io vorrei tanto andare”.
“
Ma non sai neanche chi è” rispose mia madre lentamente,
perché faceva fatica a parlare.
“
Sono sicura che se lo conoscessi ti piacerebbe molto”
“
Ma non lo conosco, e neanche tu. Ti basi solo sulla prima impressione”.
“
Ho sofferto tanto con Fernando. Ho bisogno di qualcuno”
“
E’ questo che mi spaventa. Ti lasceresti… avvicinare
da chiunque. Io non capisco questo vostro modo di passare dall’uno
all’altro. Con Fernando ti sei lasciata che era marzo.
Avresti potuto far passare più tempo”.
Come spiegarle che a me quel periodo tra Fernando e Milli era
sembrato lunghissimo? Una collana di ore senza senso. Poi Milli
era arrivato e con lui di nuovo la voglia di fare progetti e
sognare.
“
Per caso non avrai pregiudizi perché è nero?”dissi
“
A tuo padre in effetti non sarebbe piaciuto”.
“
Ti assicuro che ha la pelle bianca, anche se a me non mi importa.
E poi Asli ti piace, mi pare, anche se è nera”.
“
Cosa ne dice Asli?” chiese mia madre che aveva simpatia
per la mia amica etiope.
“
Dice che le cose si chiariranno col tempo. Bisogna solo aspettare.
Del resto mi sembra che sia così per ogni tipo di uomo.
All’inizio non sai mai se sarà una cosa duratura.
Ma Milli mi ha assicurato che non vuole un’avventura”
La zia aveva finito di sparecchiare e si sedette di fianco a
me: “Cosa ti è piaciuto di lui?” chiese, con
quella premura che le derivava dalla frequentazione delle storie
d’amore di Harmony.
“
E’ sempre disponibile e aperto con le persone. Anche con
me. Mi telefona tutti i giorni. E ha un bel modo di giocare con
i bambini. …non lo so. Ti ricordi che recitavo in quella
commedia di Shakespeare? Ti piacerebbe, zia. Te la porterò la
prossima volta magari. Sogno di una notte di mezza estate.è una
storia d’amore. Succede che tutti si innamorano e disamorano
all’improvviso, per l’effetto di un succo magico
posato sugli occhi. E provano passioni positive e negative assolute.
Se ami ami alla follia, altrimenti il disprezzo è totale.
In questo momento io comincio fortunatamente a disprezzare Fernando,
e Milli mi manca tantissimo. Mi manca il suo mondo. Ho letto
una guida dell’Etiopia. Mi attira.Ho l’occasione
di partire con qualcuno che mi farà conoscere il Paese.
Questa è la più bella occasione che mi sia capitata.
Sai come non soffro l’estate. Da una parte è qualcosa
di totalmente diverso da qui, e quindi mi crea un po’ di
inquietudine. Provo sempre un po’ di paura prima di partire.
Però dall’altra vorrei vedere come vive Milli, conoscere
i suoi parenti, gli amici. E poi fare un viaggio insieme a lui.
Deve essere un Paese strano, è pieno di popolazioni diverse
che hanno diversi modi di organizzarsi la vita… Anche tu
e papà avete molto viaggiato, dopotutto”
Questo in realtà non era un argomento vincente, perché la
mamma era sempre stata trascinata nei viaggi che papà la
costringeva ad accettare. Al ritorno raccontava sempre soltanto
di quel che aveva mangiato e delle tappe forzate.
“
Ma i nostri erano tour organizzati. Non puoi fare confronti. “rispose
la mamma, “Qui te ne vai senza nessuna sicurezza. In Etiopia
c’è la carestia, lo sai?” aggiunse, perché non
si perdeva mai le notizie tragiche del telegiornale.
“
Million dice che non ne sa nulla. Forse da loro è come
da noi che passiamo accanto ai poveri e continuiamo la nostra
strada senza esserne colpiti. Forse ci sono zone protette ed
altre no e quelli che abitano nelle zone protette non sanno nulla
degli altri. Capirò tutto questo quando sarò là.
Vi telefonerei spessissimo per farvi sapere cosa faccio, dove
sono”.
“
E’ bello?” interruppe mia zia.”Ce lo fai conoscere?”
“
Chi? Milli?Non è bello come Fernando, ma non mi importa
per niente” Me lo vedevo davanti, le sue spalle larghe
e le gambe sottili.
“
Beh, allora è davvero amore. E quando un amore è sincero è un
peccato non viverlo, secondo me”.
Avevo un debole per la zia. Quelle che preferiva erano “le
storie d’amore che hai sempre sognato di vivere e di leggere:
romantiche, travolgenti, calde, positive” come c’era
scritto sul libro che le avevo regalato.
La mia storia aveva tutte quelle caratteristiche. Romantica,travolgente,
calda, positiva. Una storia rosa. Era solo sul punto di nascere,
ma si presentava particolarmente ricca di sorprese. In ogni senso.
C’era l’incognita, di cui davanti alla mamma e alla
zia non era il caso di parlare: io di Milli non sapevo gran chè.
Non era facile comunicare in inglese. Solo mi accorgevo che quando
parlavamo cercava di dare al suo tono di voce un accento sincero.
Si occupava di me. Aveva sempre quell’atteggiamento di
volermi guidare su strade sicure come la notte che eravamo andati
in giro per la città e mi prendeva il braccio quando bisognava
attraversare.
Ma il mistero rimaneva ancora grande. E io stessa mi stupivo
di tutto il mio coraggio. Forse era l’agosto che avanzava
con tutto il suo carico di nonsenso a incalzarmi perché prendessi
una decisione. Mettiamola così. Dall’altra parte
del mondo c’era un gran teatro che mi aspettava. Un palcoscenico
con scenografia e sceneggiature ignote. Era necessario che accettassi
la nuova parte che mi era stata proposta. Lasciava un grande
margine all’improvvisazione. Ma avevo la certezza che se
non avessi rischiato, come si dice, non me lo sarei mai potuto
perdonare.
Dovevo lasciare il mio gatto e la mia casa, prendermi una vacanza
dal lavoro, salutare tutti quelli che conoscevo e mi volevano
bene e andarmene lontano. Chissà dove. Chissà cosa
mi aspettava davvero. La situazione imponeva che io agissi in
modo precipitoso. La prudenza, non dovevo sapere che cosa fosse.
Guardai mamma negli occhi. Mi voleva bene. Sembrava cedere un
po’ per volta.
La zia andò a cercare le carte.
“
Facciamo un solitario”, propose, “Anzi ne facciamo
tre. Se uno dei tre dovesse riuscire” disse rivolta a mia
madre, “ allora le presterai i soldi per fare il suo viaggio”.
“
Vuoi veramente?” mi chiese mia madre. “Hai deciso?”
Dissi di si con la testa. Non ero d’accordo che la decisione
fosse affidata alle carte. Ma mia madre e mia zia avevano questo
tipo di debolezze. Andavano pazze per gli oroscopi e le previsioni
di ogni tipo. Ci si misero d’impegno. La zia dispose le
carte sulla tavola lì in mezzo al giardino, e cominciò a
armeggiare. Improvvisamente si fecero tutte e due, madre e zia,
molto serie e pensierose. Le carte non sono il mio forte. Non
riuscivo a capire se il primo, il secondo, il terzo solitario
fossero sul punto di riuscire o no.
Mamma e zia facevano del loro meglio. Non ne riuscì nessuno.
“
Ma dai…”, protestai quando anche l’ultimo fu
concluso e la zia raccolse le carte sparpagliate sul tavolo.
La mamma allora disse con un sospiro “Se proprio vuoi andare
vai, i soldi te li do.”
Ecco, era fatta. La mia piccola mamma. Mi alzai di scatto per
abbracciarla. Sentii la sua guancia premere la mia.
“
Però devi chiamarmi sempre per farmi sapere dove sei..”
“
Ma certo mamma, figurati, sicuro…”
La zia rientrò in casa a prendere del vino bianco, per
brindare.
Ritornò in giardino. Il cielo d’agosto era privo
di nuvole, pieno di promesse.
“
Per festeggiare”., disse la zia.
Disse così. Ed io abbracciai anche lei.
“Cara
mamma, eccomi ad Addis Abeba”.
Francesca
Grazzini: Dopo aver provato a studiare da medico mi
sono messa a fare la giornalista.
Negli anni Settanta e Ottanta sono passata da tutte le testate
di quotidiani
e settimanali e mensili e da Radio popolare. A trent'anni ho
cominciato a
ritagliare il legno e dipingere e creare libri per bambini e
ho esposto le
mie opere. Ora sto preparando un libro di racconti, e una serie
di mostre.
Lo scrivere mi aiuta a dipingere, e viceversa.
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