L’UMANESIMO DEI FUORI LUOGO
Emir Sader
– L’autobiografia
di Edward Said riflette il dramma dello sradicamento –
Tre
autobiografie di eminenti personaggi del XX secolo sono state
pubblicate piu o meno contemporaneamente e trattano non solo
delle loro vite, ma di come hanno vissuto la parte di secolo
che gli corrispose: Eric Hobsbawn, Gabriel Garcìa Márquez
e Edward Said. Lo storico britannico, nato ad Alessandria d’Egitto
nel 1917, ha deciso di scrivere la sua autobiografia dopo aver
fatto ciò che non era suo proposito: la storia del secolo
nel quale ha vissuto – cosa che lo lasciò libero
di riflettere sul suo percorso nel secolo breve. Lo scrittore
colombiano decise di scrivere la sua quando, leggendo l’autobiografia
di Luis Buñuel, ha saputo che sua nonna morì molto
tempo dopo aver perso la memoria. Prima di correre un tale
rischio – e soprattutto quando è stato colpito
da grave malattia – Gabo si mise a scrivere le sue
memorie, delle quali disponiamo attualmente del primo volume.
Edward Said si trovava a Londra nel settembre del 1991 per
una conferenza che aveva organizzato con intellettuali e
attivisti
palestinesi, dopo la prima guerra in Iraq. Nonostante le delusioni
di un altro evento frustrante, telefonando a sua moglie a New
York per conoscere i risulatati dei suoi esami medici di routine,
preoccupato per il colesterolo, ha saputo che doveva telefonare
urgentemente al suo medico. Nell’intervallo fra due dibattiti
ha saputo che aveva la leucemia.
L’autobiografia di Hobsbawn obbedisce ai canoni del genere
della politicizzazione e militanza della sua generazione, presentando
i grandi avvenimenti che gli era toccato vivere e come aveva
reagito a questi, ma evitando di cadere in confessioni personali,
rivelando il pudore tipico di chi ha collocato il percorso politico
prima delle contingenze personali. Gabriel Garcìa Márquez,
al contrario, fa del suo primo libro di memorie un’esaltazione
di ciò che ha vissuto, da bambino, in seno alla sua famiglia – di
gran lunga la parte più interessante del libro – della
sua iniziazione professionale e dell’adolescenza, nella
quale cerca di dipingere ogni dettaglio vividamente, come se
fosse necessario provare che la traiettoria familiare e della
Colombia, di per se, richiedano una narrazione sproporzionata
per poter dare conto di tutta la sua eccezionalità. Il
narcisismo di Gabo – lo stesso che gli fa confessare la
frustrazione di non poter dare come giornalista la notizia più importante
della sua vita, la morte – pregiudica le memorie invece
di favorirle.
Said cominciò a scrivere le sue memorie nel maggio del
1994, quasi tre anni dopo la scoperta della malattia, già durante
le sedute di chemioterapia all’Ospedale Ebraico di Long
Island. Nel 1992 era ritornato a Gerusalemme per la prima volta
dalla partenza della sua famiglia, nel 1947, e, scoprendo come
un vecchio amico dei suoi parenti si ricordava dettagliatamente
ciò che avevano vissuto in comune, ha notato “come
erano fragili, preziose e non registrate, se non come reminiscenza
occasionale o conversazione intermittente”.
Quell’incontro rinforzò in Said la necessità di
registrare ciò che aveva vissuto, in particolare fra il
1935, data della nascita, e il 1962, quando stava per completare
il dottorato, “come un registro personale e non ufficiale
di quei tumultuosi anni nel Medio Oriente. Mi sono trovato a
raccontare la storia della mia vita sullo sfondo della II Guerra
Mondiale, della perdita della Palestina e della fondazione di
Israele, della fine della monarchia egizia, degli anni Nasser,
della guerra del 1967, dell’emergenza del movimento palestinese,
della guerra civile libanese e del processo di pace di Oslo.”
La sua biografia, al contrario di quella di Hobsbawn, ritaglia
un pezzo di storia del secolo e della sua vita e, a differenza
di quella di Garcìa Márquez, intreccia strettamente
il suo percorso personale con quello della Palestina, in modo
tale che essere “fuori luogo” vale come caratteristica
personale di chi ha vissuto fra due mondi – e due idiomi –,
ma anche per la sua patria d’origine e per tutti quelli
che videro la loro terra espropriata per la fondazione di Israele.
(Purtroppo l’edizione brasiliana perde l’opportunità di
riprodurre, in copertina, controcopertina e sul dorso, le foto
originali di Said scattate nell’arco di tempo affrontato
nel libro, così come il ritratto di famiglia nel loro
negozio al Cairo. L’immagine di una valigia con varie etichette
dà un’impressione di sradicamento, potendo servire
anche per qualcuno che viaggia all’estero, senza il contesto
drammatico della Palestina espropriata.)
“
Fui incapace di vivere una vita spensierata o sospesa: non ho
mai esitato a dichiarare la mia filiazione ad una causa estremamente
impopolare”, racconta aggiungendo: ”La Palestina è una
causa ingrata. Uno riceve di ritorno solo obbrobrio, abuso e
ostracismo…Quanti liberali benpensanti trovano tempo
per la Bosnia e la Cecenia e la Somalia e il Ruanda e il Sudafrica
e il Nicaragua e il Vietnam e i diritti civili ed umani in
qualsiasi
angolo del mondo, ma non per la Palestina e i palestinesi?”
Essere vittima delle vittime, un destino penoso per i palestinesi – il
modo in cui è avvenuta questa trasformazione è presente
nell’itinerario personale di Said e della sua famiglia,
partiti dalla loro patria occupata per vagare fra l’Egitto
e gli Stati Uniti. Tuttavia la piena coscienza del dramma sarebbe
arrivata per Said solo con la guerra dei Sei giorni, nel 1967,
quando si era già stabilito negli Stati Uniti e insegnava
alla Columbia University.
Le sue ricerche teoriche saranno fertilizzate da questa “scoperta”,
che lo porterà, dopo la pubblicazione di Beginnings (1975),
il suo capolavoro – Orientalismo (1978) – libro
che ha cambiato la prospettiva teorica di approccio alle relazioni
fra eurocentrismo e culture periferiche.
Con essa – integrata da Cultura e imperialismo (1983) – Said è diventato
uno dei più importanti intellettuali del nostro tempo,
avendo come dimensione inscindibile la sua militanza nella
causa palestinese.
È
diventato un intellettuale rispettato e scomodo, al punto da
subire diversi attentati, compreso l’incendio delle sue
stanze nel dipartimento della Columbia nel quale ha lavorato
fino alla morte. La stampa lo chiamava “professore del
terrore”, al punto che la polizia di New York ha installato
nel suo appartamento un “bottone antipanico” da
azionarsi in situazioni di pericolo.
Said è stato l’espressione intellettuale di uno
dei fenomeni più significativi della cultura mondiale
nelle ultima decadi – quelli che vivono “fuori dal
branco” producono le visioni più acute del nostro
tempo, sia in letteratura, nel pensiero sociale o nella musica,
come una sorta di ricreazione della concezione di Lukács
secondo la quale, nel suo momento di decadenza, la borghesia
raggiunge la massima consapevolezza apocalittica di se stessa.
Qui gli espropriati, gli esiliati, quelli che vivono fra due
o più culture, rivelano le grandi avventure e le migliori
visioni del mondo contemporaneo. Scrittori nati in India o in
Pakistan che vivono a Londra, messicani, cubani o nicaraguesi
che vivono negli Stati Uniti, tunisini o algerini che vivono
a Parigi, turchi che vivono a Berlino, albanesi che vivono a
Roma – in essi sembra risiedere il miglior approccio al
mondo “globalizzato” che espropria la maggior parte
dell’umanità delle proprie identità d’origine
e si rifiuta di concederne altre, riservate ai “globalizzatori”.
Said è consapevole che stare fuori luogo propizia: ”Molte
persone percepiscono principalmente attraverso una cultura, un
punto di vista, una patria: agli esiliati si offrono almeno due,
e questa pluralità di visioni dà luogo ad una consapevolezza
di dimensioni simultanee, una consapevolezza che, per prendere
in prestito un espressione della musica, è contrappuntistica…” Questa
visione scuote le concezioni ortodosse e aumenta l’empatia. “Anche
se uno non è proprio un esiliato o un immigrante, è sempre
possibile per lui pensare come se fosse uno di loro, immaginare
e investigare a prescindere dalle barriere e muoversi sempre
oltre il centralismo autoritario riguardo ai limiti, dove si
vedono cose che usualmente si perdono o menti che mai avevano
viaggiato oltre le cose convenzionali o confortevoli.”
La vita di Said, straordinariamente parallela alla sua opera, è una
vita fuori luogo come del resto siamo noi tutti “globalizzati”,
quelli che non hanno mai smesso di identificarsi negli sfruttati,
nei dominati, negli umiliati e offesi, ovunque ci troviamo – il
miglior cammino, insieme con Said, per scegliere l’umanesimo
come il miglior modo di vivere e vedere il mondo.
(Tradotto
da Julio Monteiro Martins insieme Mirella Abriani e ai suoi
studenti dell’Università di Pisa: Annalisa Carbonella,
Gabriele Ceriani, Simona Giannace, Marco Merlini, Alessandra
Pescaglini, Lorenzo Tamburini, Chiara Zucconi.)
Emir
Sader è sociologo e professore dell’Università di
San Paolo e dello Stato di Rio.
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