CENTOMILA GAVETTE DI GHIACCIO
Giulio
Bedeschi
(...)
Durante la notte successiva gli infermieri avevano collocato
nella tenda già stipata altre brande per due feriti
appena giunti e subito operati d'amputazione d'un braccio.
Giacevano in due brande vicine, il primo silenzioso e cupo;
il secondo, nervoso e insonne, era un alpino della Julia.
All'indomani,
quando l'alba filtrò un po' di luce sotto
la tenda, alcuni soldati notarono che l'alpino aveva cominciato
a guardare in malo modo l'altro ferito, che se ne stava rinchiuso
in sé e pareva molto sofferente. Col passare del tempo
i due si fissavano con maggiore insistenza, quasi si tenessero
d'occhio a vicenda. Per più di un'ora si scambiarono sguardi
carichi di sempre più evidente avversione; finirono col
piantarsi addosso reciprocamente gli occhi sbarrati, a guisa
di cane e gatto pronti al balzo, fra lo spasso dei compagni stupiti.
Con estrema lentezza si rizzarono a sedere sul letto tenendosi
avvinti con lo sguardo, e un secondo dopo si slanciarono davvero
uno contro l'altro, picchiandosi col braccio superstite, azzannandosi
in qualche modo. I loro informi camiciotti regolamentari di tela
bianca ballonzolavano fra i due lettini, mentre la vuota manica
sembrava segnare il tempo alla danza grottesca, interrotta alle
prime battute poiché i degenti più vicini,
vinto il primo sconcerto, provvidero a dividere i lottatori
subito
trasferiti in altre tende.
L'alpino poco dopo tornò, ma per quanto sollecitato
dai compagni non disse parola.
Soltanto durante la visita medica, quando entrò il
direttore dell'ospedaletto e l'alpino fu interrogato, si
conobbe il motivo
della rissa : il giorno prima, durante un assalto, si era
trovato corpo a corpo con l'altro, che era un greco. Mentre
erano avvinghiati
nella contesa mortale un colpo di mortaio esploso a pochi
passi, forse un'unica scheggia, li aveva divisi stroncando
a uno il
braccio destro e all'altro il sinistro. Raccolti svenuti
dai portaferiti, trasportati allo stesso ospedale, ricoverati
per
caso in due brande vicine, colla prima luce si erano riconosciuti:
ancora una volta di fronte, non avevano saputo fare altro
che riprendere come potevano, col braccio superstite, il
combattimento
interrotto...
La
linea era tanto vicina, che nelle tende dell'ospedaletto se
ne respirava l'aria.
La tragedia era nell'aria, non nel cuore degli uomini: questi
accettavano la realtà senza drammatizzarla, sminuzzandola
anzi e limitandola ai singoli episodi riguardanti ciascuno. A
un occhio osservatore, non quel senso di morte avrebbe fatto
impressione, ma quella giovinezza vivente nel dominio della morte,
perché era evidente che il potere della morte dilagava.
Bastava guardare certi ruolini di presenza nelle tende, irti
di nomi cancellati, sovrascritti, nuovamente cancellati : corrispondeva
ad essi il movimento fra le brande e il cimitero da campo. Quando
i ricoverati uscivano dalla tenda e sguazzavano nel fango per
raggiungere, ai limiti del recinto, due pali e un'asse sopra
una fossa chiamata gabinetto, bastava che volgessero lo sguardo
oltre le tende per vedere la distesa di croci bianche.
S'era cominciato con lo scavare le fosse lontano, al limite d'un
ciglione; ma poi i morti, che pure hanno diritto a un po' di
posto, avevano respinto a poco a poco gli affossatori verso l'area
dei ricoveri, tanto che ora le ultime fosse aperte e ancor vuote
aspettavano a pochi passi dalle tende; e bisognava usare attenzione,
di notte, per non cadervi dentro, anche perché il gran
piovere le riempiva di acqua. E invero, a osservare i poveri
cristi dalle gambe gialle e nude che usciti dalle tende s'arrabattavano
nel fango, una mano a sostenere il camicione rimboccato e l'altra
a trattenere sul capo e sulle spalle una coperta, tremanti di
febbre e lividi di freddo sotto la pioggia che frustava, c'era
da chiedersi verso quale fossa in realtà si dirigessero.
E non era raro il caso di vedere i loro occhi seguire come calamitati
un infermiere che portava un fastello di gambe e braccia alla
fossa comune: il contributo della baracchetta operatoria alla
terra d'Albania.
Eppure quegli stessi, tornati alle proprie brande, non davano
segno di sentirsi attori o almeno comparse in una tragedia allucinante;
contro il cielo fosco mai la loro immagine si sarebbe stagliata
a disegnare un controluce di tragedia; più semplicemente,
nelle ventate e nel tenebrore d'un destino impazzito ciascuno
teneva accesa la fiammella della propria giovinezza. Ogni ferito,
ogni malato sembrava riparare con la mano la sua esigua fiammella
vitale dalla parte da cui il vento più impetuosamente
soffiava, col gesto della vecchietta che nottetempo sale a lume
di candela la scala di casa.
Steso a fianco di quei soldati, pareva a Serri di vederli emergere
come quel primo visto nella Vojussa, ma aggrappati ciascuno a
un proprio relitto galleggiante.
Nella gran pioggia sotto un'unica immane nuvola bassa, opprimente
come una coltre stillante sospesa a mezz'aria, l'arco del fronte
ribolliva nella battaglia. Le armate italiane tentavano di scardinare
i pilastri della resistenza greca. Era venuto il Natale, stava
per giungere la Pasqua; e sempre gli uomini si uccidevano in
duelli all'ultimo sangue. Ormai i greci, che da oltre cinque
mesi combattevano con accanimento feroce e con valore indomito,
davano segni d'esaurimento di fronte al rinnovarsi degli attacchi
italiani. Lungo le linee contrapposte infiniti episodi, disperate
resistenze, inumane sofferenze, puntiglio d'uomini, amor proprio
di reparti, eroismi da emulare, tradizioni da sostenere, morti
da vendicare, le stesse pietre contese già bagnate di
sangue, la necessità di porre fine ad una lotta di durata
non prevista, tutto contribuiva a rendere asperrima la battaglia.
Nel fango del retrofronte italiano le ambulanze e i carriaggi
rotolavano verso gli ospedali, trasportando i feriti già portati
a braccia dai costoni e dalle trincee della linea. Era un deflusso
costante: i folgorati dalla battaglia terminavano la loro via
crucis nella prima fossa libera, o più fortunati la proseguivano
fino alle infermerie di smistamento e agli ospedaletti avanzati,
quindi agli ospedali arretrati e spesso sulle navi ospedale;
infine in Italia, negli ospedali territoriali. L'onda sanguigna
si diffondeva a rivoli su tutta l'Italia, sgorgando dal pietrame,
dalla neve, dal fango d'Albania. – Serri – disse
il medico di guardia, chino sulla branda nella penombra della
tenda.
L'ufficiale si svegliò, senti la mano del collega che
gli scuoteva il braccio, apri gli occhi.
–
Sì; cosa c'è? Che ora è?
–
È quasi mezzanotte. Senti: tu sei malato, bisognerebbe
lasciarti in pace. Ma il capitano medico mi ha detto di svegliarti.
Senti: da più di un'ora continuano a venire soldati in
condizioni
tremende, lassù c'è un massacro. L'ospedale di
Turano e sovrasaturo, li avviano tutti qui. Quelli che arrivano
dicono che i più sono ancora per la strada; i medici dell'ospedale
non bastano, sono tutti interventi d'urgenza. Il capitano medico
chiede se ti senti di venire a dare una mano in sala d'operazione.
–
Un minuto... dì che fra un minuto sarò là.
Senza aggiungere parola il collega corse via.
Nel rialzarsi, un capogiro costrinse Serri a sedersi per qualche
secondo sulla branda. A occhi chiusi calzò le scarpe e
il lieve sforzo di vincere l'attrito del cuoio bagnato contro
i piedi nudi gl'imperlò di sudore la fronte.
Dinanzi alla baracca che accoglieva i feriti in arrivo, una luce
rossigna illuminava l'andirivieni. Mentre gli ultimi arrivati
si trascinavano dentro, l'autocarro vuoto ripartiva e si faceva
avanti il successivo, stracarico di dolore. Quando Serri si avvicinò,
due infermieri stavano appunto ribaltando la fiancata posteriore
del cassone e tendevano poi le braccia ad aiutare i primi due
feriti a scendere. Gli altri seguivano, muti, o urlanti, ciascuno
proteggendo nella ressa e nel movimento la parte del corpo colpita.
Qualcuno rimaneva sdraiato sul piano dell’autocarro, incapace
a muoversi, o morto. Un soldato con i piedi congelati, sospinto
dai compagni da retro fu costretto a saltare giù : toccò terra
con un gemito, cadde prono nel fango e là giacque in silenzio
finché mani pietose lo risollevarono.
Erano tutti stracciati, fradici; le divise a brandelli, le camicie
strappate, le fasce penzolanti e disfatte li facevano sembrare
mendicanti, vagabondi cenciosi. Quasi nessuno aveva scarpe, i
piedi erano avvolti in stracci tenuti insieme con spaghi, con
ritagli di coperte, con brandelli di maglie. Qualcuno aveva infilato
i piedi in maniche di cappotto serrate anch'esse oltre le dita
e all'altezza della caviglia con cordelline, cinghiette, lembi
di camicia; un soldato aveva un piede chiuso in un tascapane
e l'altro piede nudo. S'avvicinavano alla baracca zoppicando,
gemendo, o trasportati a braccia dagli infermieri; o saltellando
sul piede ancor sano, agitavano l'altro a mezz'aria, violaceo
e nudo o ferito o già morto. Entravano nella baracca,
giunti alla prima stazione del loro calvario.
Serri affrettò il passo verso la baracchetta operatoria.
Nell'angusto spazio di questa, sotto la cruda luce non c'erano
né la calma né l'ordine necessari. Troppe persone
s'avvicendavano, feriti infermieri medici, troppo lavoro ferveva
sotto l'imperativo del dover fare presto, ché da troppe
ferite fluiva sangue. Serri indossò un camice, immerse
le mani nell'alcool e si chinò sul rosso d'uno squarcio.
Si fece innanzi, al proprio turno, un soldato dal torace racchiuso
in un enorme viluppo di cenci multicolori, dal quale la testa
emergeva come da una balla di stracci. Solo il braccio destro
era libero. L'insieme suggeriva l'idea d'una statua a metà imballata
per il trasporto.
–
Dove sei ferito? – chiese il medico, mentre l'infermiere
tagliava il viluppo.
–
Braccio sinistro.
–
Chi ti ha fasciato cosi?
–
I portaferiti. Il nostro medico è morto.
–
Guarda, hanno adoperato anche una calza.
–
Sì, c'erano anche delle calze. Dicevano che bisognava
tener fissato il braccio al corpo. Per impacchettarmi hanno adoperato
tutto quello che c'era nello zaino di due nostri compagni.
–
Sono rimasti senza niente?
–
Sì.
–
Generosi.
–
Erano morti.
Caduto un ultimo straccio di tela grigioverde, apparve il torso
nudo. Qualcosa nel cuore di Serri trasalì nel vedere ciò che
la serenità del soldato non aveva fatto supporre. Alcune
cordicelle tenevano aderente al torace l'avambraccio sinistro,
violaceo sino al polso ed enfiato fino ad essere difforme; la
mano invece, cerea, stranamente piccola al confronto della tumefazione
sovrastante, pareva aggiunta al suo naturale sostegno per uno
scherzo disgustoso. Sopra al gomito il braccio s'espandeva, come
se da un orrido stelo si fosse dischiuso un putrido fiore; s'espandeva
carnoso ancora e con qualche rimembranza d'umano, ma più simile
ormai a un velluto gettato e ricoperto di muffe. Era quasi completamente
reciso, il braccio dilacerato; solo qualche lacerto di muscolo
e pelle – una fettuccia – lo congiungeva alla spalla:
due centimetri di tessuto cutaneo e una cordicella tenevano innaturalmente
avvinto l'arto al corpo. Attorno al moncherino girava un laccio
emostatico approfondito in un solco, i tessuti circostanti erano
tumefatti e tesi; dal moncherino, come una canna di bambù spezzata,
ma bianco, lucido, fuoriusciva l'osso.
Serri guardò quello sfacelo, attento a rilevare dalla
devastazione le indicazioni per l'intervento. Anche il soldato
osservava la propria carne. Il medico sentì quello sguardo
sul tritume sanguinolento e pensò al cuore del soldato,
ai suoi occhi che avevano, sotto la crudissima luce, la rivelazione
di tanta rovina, definitiva, soggiogatrice di un'intera esistenza.
Volle vedere quegli occhi, esprimere in quell'unico modo al soldato
una fraternità che soffriva con lui; sollevò lo
sguardo dalla ferita al volto del giovane, lo fissò nelle
pupille. Erano serene, grandi. Parevano quasi inconsapevoli,
tanto lo sguardo era fermo e forte. Ma proprio allora un nulla
si mosse in quegli occhi fermi, un nulla che accennava a un'angoscia
muta, sepolta nell'anima; lo sguardo si addolcì, infantile
ora, di persona che supplica o teme; qualcosa esitò, palpitò,
perse luce nel nero delle pupille; e subito fu chiara, da quei
trapassi, la nota finale e dominante: un'umiltà che si
discopriva a se stessa e inginocchiava la forza, ogni forza,
al rivelarsi d'una inferiorità da allora in poi perenne.
Quel palpito era accorato e struggente come ogni debolezza che
langue sino a morire, come il battito ultimo di un'ala un tempo
possente. E già gli occhi del soldato imploravano, smarriti
alla vista della carne percossa: un tenebrore nuovo si distendeva
su un'intera vita, un legame d'impotenza s'attorceva nelle membra
a vincolarle per sempre; l'uomo s'irrigidì nello sguardo,
nel torace, nei muscoli, come a resistere ancora per istinto
a una spinta verso l'abisso nel quale sapeva ormai di dover fatalmente
cadere; infine, a palpebre abbassate, disse in un soffio le prime
parole umili della sua rinuncia :
–
Dottore... Si può sperare...?
Serri portò una mano al braccio incolume, glielo strinse
come altre volte suo padre aveva fatto quando voleva infondergli
forza o fargli intendere un consenso profondo; sorrise al mutilato
diritto, aperto, fratello; strinse ancor più forte il
braccio, senti fra le dita il bicipite rispondere con un guizzo;
il soldato si rinfrancò, respirò profondamente,
si raddrizzò sul solido tronco, rispose al sorriso con
un ampio sorriso.
–
Ho ancora quest'altro – disse. – È il destro,
per fortuna.
(...)
(...)
A percorrere cento metri sulla strada si può raggiungere
una casupola che, col suo pozzo, sorge al margine della strada
verso la collina. Si vede una piccola bandiera della croce rossa
penzolare a ridosso del muro: è un posto di medicazione
di qualche altro reparto.
–
Vado a vedere se c'è qualcosa da fare, là dentro,
signor colonnello?
–
Te lo volevo dire, ma non è compito tuo: è un posto
di soccorso dell'altro reggimento. Però se ci vai fai
bene, hanno portato diversi feriti. Sta' attento anche tu, è un
brutto posto e io non posso restare privo di un medico. Capito?
–
Signorsì.
In quel momento non tirano, l'ufficiale medico raggiunge la casupola. È costruita
con fango, assi e sassi. Entra, per qualche momento non vede,
tanto è buia. Gli vengono incontro due medici, sono esausti
e sconvolti. Serri si offre di sostituirli, quelli ringraziano
e se ne vanno.
S’intravedono i contorni di due stanzette comunicanti,
in una ci sono due banconi di vendita, l'altra è vuota:
una osteriola di campagna. Ma in terra... si, ci sono degli uomini.
Serri ormai s'è abituato alla penombra. Si china su un
soldato: è senza giacca, ha un braccio stroncato, gli
occhi chiusi. Un secondo, accovacciato contro la parete, ha un
triangolo di tela sul capo. Il medico solleva la tela arrossata
di sangue : una scheggia ha aperto la cute e il cranio dalla
fronte all'occipite, un liquido grigiastro misto a sangue cola
a gocce sul collo, scende a inzuppare la camicia. L'uomo, dagli
occhi semiaperti e spenti, respira gemendo.
Serri guarda ad uno ad uno i feriti; no, nessuno è del
suo battaglione. Ogni poco giunge qualche altro ferito, il da
fare aumenta. Sono le tredici, i greci sparano da quattro ore
e ne hanno almeno altre sei da utilizzare prima di intraprendere
il consueto ripiegamento notturno. Le batterie battono sempre
la collina; la pioggia di granate si avvicina gradualmente, poi
sovrasta, più tardi si allontana di qualche centinaio
di metri per riavvicinarsi poco dopo. È un lavoro metodico,
tranquillo quello che i greci ai pezzi svolgono dai colli opposti,
un lavoro simile a quello del giardiniere che con la pipa in
bocca e il tubo in mano innaffia l'aiuola.
Nella casupola ferve il lavoro fra il rintronare dei colpi; intorno
c'è tutta pietra, dietro prende subito attacco la collina
tutta rupi, ed ogni granata esplode.
Già da un'ora Serri fa del suo meglio per essere d'aiuto
a quei poveri ragazzi. Tutti hanno sete, le ghirbe e le borracce
sono vuote da un pezzo, ma i feriti chiedono l'acqua come se
invocassero la Madonna. Fuori c'è un pozzo, chissà che
non sia asciutto. Il medico esce, al pozzo c'è una latta
da benzina mezzo sfondata congiunta a una cordicella, la cala
nel pozzo. Il bidone rugginoso risale, Serri riempie la borraccia,
rientra nella casa. È putrida quell'acqua, limacciosa;
si può darla ai feriti? L'assaggia: è disgustosa.
Ci si può arrischiare a berla? E il tifo? E le circolari?
Ha un po' di steridrolo, ne versa nella borraccia; però non
c'è anasteridrolo, sarà imbevibile. Il medico riassaggia
: ora è nauseante, letteralmente schifosa con quel sapore
di cloro.
–
Acqua... acqua...! – dicono, gridano, gemono i feriti.
Il ferito alla testa, che delira, canticchia quella parola di
continuo, in modo macabro. Serri ha ancora la scatoletta di latte
condensato che forse può correggere un poco quel sapore.
Versa il latte nell'acqua, agita, sperando, mentre agli occhi
dei feriti non sfugge un movimento.
–
Dottore, muoio, datemi da bere... – dice in un soffio un
fante, ai piedi di Serri.
L'ufficiale prende la borraccia, si china sul ferito, gli solleva
la testa. L'assetato beve avidamente qualche sorso, ma improvvisamente
ritrae il capo e lascia uscire dalla bocca l'ultima sorsata,
disgustato. Il rivolo di latte gli scende sul petto, scorre più rapido
sul sangue rappreso che intride la camicia – latte sul
sangue è uno spettacolo orrendo – cade sul pavimento
argilloso.
–
Anche a me! Anche a me! – invoca qualcuno che ha visto
il gesto del medico. Egli passa fra quei poveri corpi, offrendo
il miserabile dono. Qualcuno beve ingordo, quasi tutti lo respingono
alla prima sorsata, ma prima vogliono provare.
–
Non ho altro, ragazzi; non c'è altro.
Si avvertono all'improvviso due sibili vicini, due schianti di
là dal muro, dal lato della collina; l'atmosfera nell'interno
della casupola vibra, la capanna sembra crollare, qualcosa cade
dal soffitto, l'aria s'imbianca di polvere. La porta si spalanca
e un gruppo urlante irrompe nella stanza schizzando attorno sangue
e terrore. Un fante sostiene con un braccio l'altro braccio del
tutto aperto; dalle vene recise il sangue fluisce continuo, nero,
dall'arteria beante fuoriesce a fiotti e il ragazzo alla vista
impazzisce. Non ci sono lacci emostatici, il medico gli strappa
la cinghia delle giberne e con quella frena l'emorragia, più tardi
interverrà più accuratamente; fa inginocchiare
il ferito dinanzi al banco di vendita, gli stende il braccio
sul piano, il braccio è una poltiglia.
–
Sta' fermissimo, non aver paura, non ti faccio più male
di quanto già senti, ti fascio.
Corre da un secondo: è a terra, con una coscia sfracellata,
la rotula arrovesciata pende fra una gamba e l'altra, tutta l'articolazione
del ginocchio è in pezzi, una scheggia grossa come un
pugno è piantata nella carne, il sangue fluisce.
–
Faccio bene a levare la scheggia senza poi disporre di mezzi
adatti? Non aprirò una nuova porta all'emorragia? – Il
medico deve decidere subito, ma sa che dalle sue decisioni dipende
la sorte degli uomini che lo invocano. Divarica la ferita, con
l'occhio ne fruga i recessi.
–
Meno male, la femorale è salva, quasi del tutto scoperta,
eccola li; posso levare la scheggia.
La scheggia rotola sul pavimento. Bene, l'emorragia non aumenta;
ma l'estremità del troncone inferiore del femore spezzato
preme sulla safèna ancora intatta, se il ferito muove
il bacino probabilmente la lede, bisogna scongiurare quel pericolo.
Perché i portaferiti che hanno trasportato questo poveretto
restano impalati?
–
Portaferiti aiutatemi un poco, slacciate almeno le vesti a quell'altro
ragazzo, non vedete che soffoca? Fra un minuto vengo io.
–
Così, da bravi! Sollevategli intanto la camicia, adagio,
guardate dove è ferito, se gli esce sangue.
–
Che? la ferita soffia?
Il medico si precipita sul ferito, guarda: è vero, la
ferita “soffia”, le pleure evidentemente sono perforate,
la scheggia è penetrata nel polmone ed ha aperto un tragitto
fino ai bronchi: quando il ferito inspira, l'aria entra anche
dalla ferita: enfisema traumatico.
–
Dio Madonna! respira con la ferita... – mormora un portaferiti;
un sorriso ebete stira le sue labbra esangui.
–
Là, sul banco! – dice concitato il medico. – Trovato?
Si, un rotolo rosa, cerotto, cerotto, non lo conoscete? Oh, finalmente!
Date qui. – Riavvicina i bordi della ferita toracica, stende
su questa uno strato di cerotto, un secondo, un terzo, bisogna
che ne risulti un tampone impermeabile. Quella volta in clinica
il chirurgo... – Portaferiti, mentre finisco qui, fate
un'iniezione di canfora a questo... a questo... e a questo. Là sopra
c'è ago, siringa e fiale.
–
Ma noi... non siamo portaferiti.
–
Come? Anche questa... Correte allora, andate a dire ai vostri
ufficiali che mandino a darmi una mano, se no qui qualcuno mi
muore. Fate presto...
Corrono fuori, tutt'e quattro, non vedevano l'ora di andarsene.
Il ferito al torace, che sembrava morisse, ha ripreso a respirare
con una certa regolarità; il medico può occuparsi
di altri due fanti.
–
Ora a voi due, scusate, non vi avevo visto. Niente di grave spero,
se state in piedi. Siete amiconi sembra, anche qui vi tenete
per mano.
È
forzato però questo tono scherzoso, nell'aspetto dei due
c'è qualcosa che non lo convince. Poggia una mano sul
braccio di uno. – Cos'hai che non va, tu?
–
Signor dottore io sono... sono... cieco – balbetta quello.
–
Ma no, ma no, non dire parole grosse. E a te invece cosa e successo? – Il
secondo non risponde, trema tutto.
–
Vieni qui da me, avvicinati.
Fa un passo, due passi incerti; se il medico non lo ferma calpesta
un ferito. Non vede, non vedono. Li guida in un angolo, li fa
sedere a terra.
–
Non muovetevi, state tranquilli, lo scoppio vi ha fatto uno scherzo,
ma presto vedrete di nuovo.
Ora che ha constatato la gravità di ciascun ferito ed è ricorso
agli immediati ripari, bisogna medicarli tutti questi figlioli,
fissare opportunamente i lacci, scongiurare il dissanguamento
senza avviarli al pericolo della cancrena.
Il colpito al polmone non presenta forame d'uscita, i cerotti
hanno servito e servono, la respirazione è riattivata;
ma la vita viene meno, a poco a poco. Basta un nonnulla per spegnerla,
una complicazione minima, un colpo di tosse, forse meno. Il polso è filiforme.
Potrà davvero giovare il cardiocinetico che il dottore
gli sta iniettando?
La siringa non è svuotata e già Serri tende l'orecchio
per individuare l'origine del nuovo rumore che da vari secondi
si è inserito fra gli altri: un brusio che gradualmente
s'è trasformato in un rumore di ferraglia smossa. Carri
armati, non c'è più dubbio; sono due, ora procedono
sulla strada, passano dinanzi alla casa... Ma no, hanno girato
attorno all'angolo della casa, si sono fermati...
Nell'istante stesso, due tre cinque granate scendono fischiando
sui carri, sulla casa, tutto si scuote intorno, una parte del
soffitto crolla, il tugurio sembra sprofondare. Gli urli attorno
alla casa si rinnovano moltiplicati, il polverone è tanto
che il medico non vede più nulla. La porta viene aperta
d'impeto e una decina di soldati urlanti irrompono calpestando
i giacenti che iniziano a urlare anch'essi; i sopravvenuti invocano
aiuto ad altissima voce, resi folli dal gridare collettivo, inorriditi
nel vedere le proprie membra squarciate; chi li sorregge urla
di terrore. Altre granate su quell'inferno esplodono, una sembra
sfondare il muro, nella violenza della deflagrazione la porta
richiusa viene scardinata di schianto, si fa più luce
nelle stanzette dannate; e più alte d'ogni rumore, d'ogni
fragore, più disperate di quel destino stesso sono le
grida dei feriti, appelli inferociti singhiozzanti di chi vede
la morte frugare tra le carni aperte.
Il medico riesce a far tacere il folle coro; fra il pianto sommesso,
contagioso, in cui si è disciolto il collettivo farneticare,
s'accosta a ciascuno e lavora con fervore, sospinto dalla tragica
necessità di far presto, di vincere in rapidità il
flusso del sangue che da tutte quelle creature fuoriesce a fiotti.
Ancora granate sul suo lavoro, le conta, stono sei tutte a ridosso
di quella “sua” casa; hanno puntato ormai maledettamente
bene su quel bersaglio. Nuovi calcinacci precipitano, nuovi urli
rintronano.
Ancora tre fanti ne portano un quarto, lo depongono, guardano,
fuggono. Il fante ha una gamba sfracellata sopra il ginocchio,
mostruoso impasto di muscoli dilaniati, filacci di panno grigioverde,
frammenti d'osso, lembi di tela, coaguli di sangue, pietrisco
e terra; tutti i grossi vasi sono recisi, il sangue affiora dallo
sfacelo come acqua da una polla sorgiva.
Con la cinghia dei pantaloni il medico gli frena l'emorragia,
la gamba è attaccata al corpo con brani di pelle.
–
Non muoverti così, figliolo, ché sfreghi l'osso
per terra, ti fascio subito.
–
Ma bisogna liberare il corpo da questa gamba ormai perduta – pensa; – non
ho un bisturi, una forbice, nulla. Adoprerò il mio coltello
da caccia, perdonami.
Leva dalla cintola il coltellaccio.
–
Macellaio! – La parola che gli attraversa la mente sibila
come una frusta.
La cadenza di fuoco è un po' rallentata, ora.
Il medico lavora rapido, appassionato. Ha senso comune il suo
lavoro, servirà a qualcosa, o una granata particolarmente
precisa risolverà ogni ulteriore problema travolgendo
e seppellendo tutti in quella bicocca? Disinfetta, sbriglia,
ricompone, taglia, fascia. Iniezioni, garze; il coltello da caccia
dalla larga lama che finora serviva ottimamente per tagliare
a fette la pagnotta e ad aprire le scatolette, ora sprofonda
nella carne, perdonino Iddio e queste creature! Muscoli squarciati,
ossa infrante. Bisogna tener d'occhio i lacci, i cuori, il respiro.
Il medico lavora febbrile. Mai la vita di tanti uomini si è abbarbicata
cosi disperatamente alle sue mani, né queste sono state
più spoglie. S'accorge di non aver mai pensato a sé,
fino a quel momento. Ha nel cuore una calma meravigliosa, una
serenità assoluta.
–
Questa arriva qui, eccola... – pensa il medico. Il tetto
sembra rovinare, con gran fracasso un angolo del soffitto precipita,
nel polverone che si diffonde s’intravede l'apertura che
s'è formata, ampia come una botola; il materiale crollato è caduto
tra il banco di vendita e il muro, dove non era stato posto nessun
ferito. Il medico ha un sospetto, si porta dietro il banco, guarda
fra le macerie, vede ciò che temeva: la granata si è infissa
a metà nel pavimento senza esplodere. È di medio
calibro, se esplode in quel piccolo ambiente chiuso è in
grado di finire tutti col solo spostamento d'aria. Permetterai
anche questo, Signore, in una simile fossa di dolore?
Il medico passa fra i feriti. Sono molti ormai, una trentina,
addossati uno all'altro nello spazio ristretto. Bisogna scavalcarli
per raggiungere gli altri. Qui e là c'è qualche
spazio libero, nei punti declivi del pavimento ove sono raccolte
pozze nerastre: il terreno argilloso non assorbe il sangue che
ristagna perciò a grandi chiazze, come olio denso. Nell'aria
c'è l'odore graveolente, grasso, dolciastro, nauseabondo
del sangue umano. Muovendosi bisogna stare attenti a non scivolare
su questo sangue sparso a pozze sull'argilla. È lì per
terra, nero, sta coagulando lentamente, gli uomini che lo hanno
perduto sono intorno, ogni tanto il medico è costretto
ad allentare qualche laccio e farne perdere ancora, per evitare
la cancrena.
–
Dottore, non vedo... – geme un fante, tendendo la mano
in aria; nel gesto ha già il tratto del cieco.
–
Davvero non vedi ancora? È uno choc nervoso, passerà presto. – Sarà cosi
davvero?
Il medico volge l'occhio al più vicino, in tempo a vedere
che sta strappandosi la benda che gli copre la testa. È il
fratturato cranico. – Fermo tu! – Ma quello non ascolta,
non può, è in delirio. Non si può fissare
saldamente la fascia perché comprimerebbe il cervello.
Il medico gli lega le braccia, non può fare di meglio.
Anche un altro bendaggio si è allentato, sulla coscia
del ragazzo al quale ha amputato la gamba sfracellata: smaniando
e torcendosi, a poco a poco il ferito ha messo a nudo lo squarcio
e nell'incoscienza della febbre inarca il corpo poggiando a terra
con le spalle, con un piede e col residuo del femore che è fuoriuscito
nuovamente dai muscoli della coscia. Il troncone d'osso, puntato
contro la terra, fruga orrendamente nell'argilla e va scavandola
ad ogni movimento che il ferito imprime al bacino. Il medico
si è precipitato a impedire quello strazio.
Il sole sta tramontando, le artiglierie nemiche tacciono, fra
poco dovranno arretrare.
Una granata, solitaria, alta nel cielo passa sibilando in una
nuova traiettoria. Qualche attimo, e nella zona delle batterie
nemiche si avverte una modesta, nitida esplosione. La granata
proviene dalle linee italiane, è evidente.
–
È un pezzo di piccolo calibro – pensa Serri; – per
sparare su un obiettivo a cinque chilometri, il cannone è stato
spinto quasi alle nostre spalle. La strada è perciò praticabile,
potrà giungere un automezzo. – Il medico sente che
i suoi feriti saranno posti in salvo, non moriranno in quella
tana sanguinolenta.
–
Ragazzi, coraggio! – Egli stesso ascolta la propria voce
fatta gioiosa; – presto verrà l'autolettiga, dovrà fare
due o tre viaggi. Stabilisco io i turni, non ammetto proteste
sulle precedenze di partenza. Comando io, intesi?
I soldati annuiscono, rianimati. Il medico sa che con la speranza
si acuiscono gli egoismi e l'istinto di salvezza, non vorrebbe
dover essere duro quando starà per separarsi dai suoi
feriti.
–
Sento un motore! – grida uno.
–
È vero! – gridano altri.
–
Ferma! Ferma! – gridano tutti. I più vicini all'ingresso
si trascinano verso l'uscita.
Come nelle favole, quando lo spasimo pare spezzi l'ultima resistenza,
s'avvera il miracolo. Dinanzi alla porta s'arresta una brutta,
tozza, tarda autolettiga dell'esercito italiano. Cessati per
incanto gli urli dei feriti, s'ode la voce dell'autista :
–
Feriti, qui?
–
Eh, sì. Quanti ne puoi caricare? Ne ho otto che devono
assolutamente stare sdraiati. Parti tu... tu... tu... e questi.
Basta, ho detto basta.
I portaferiti dell'ambulanza vanno e vengono con la barella,
i feriti passano dinanzi a Serri nell'uscire dalla catapecchia,
gli tendono la mano fatti ridenti e ciarlieri.
–
Grazie, signor dottore...
–
Veniteci a trovare all'ospedale.
Uno dei partenti, il fante dalla gamba fracassata dice passando
:
–
Dottore, voi non avete l'elmetto, il mio vi deve andar bene,
io non lo porterò più, prendetelo, vi potrà servire. – E
glielo tende dalla barella in movimento, volgendosi penosamente
col capo per vedere se il dono è gradito.
L'elmetto è stillante di sangue, lurido: Serri vi aveva
infilato la coscia monca, quando il fante in delirio la premeva
in terra.
–
Grazie, mi va benissimo, mi ricorderò di te... – E
come il fante guarda ancora in attesa di un gesto, Serri mette
in capo l'elmetto. Qualche goccia gli scende subito lungo il
collo: sangue di quel poveretto, che sorride.
Poco dopo torna l'autolettiga: i feriti partono tutti in un unico
viaggio, la casupola si vuota.
Il medico ora dà un'occhiata in giro, è ormai tutta
buia; gli uomini hanno concluso il loro episodio e cedono il
campo ad altre vite: questa notte i topi nelle loro scorribande
sul pavimento si tingeranno le zampette di rosso; altri animali
di campagna entreranno, e nell'oscurità lambiranno con
le avide lingue quelle pozze cosi bene odoranti e gustose. (...)
(Tratto
dal romanzo Centomila gavette di ghiaccio, Mursia editrice,
Milano, 1963.)
Giulio
Bedeschi, nato ad Arzignano (Vicenza) nel
1915, e morto a Verona nel 1990, ufficiale medico nell’Armata
Italiana in Russia (ARMIR), fu testimoni diretto dell’immane
tragedia che colpì gli italiani nel gelo della pianura
russa. Ha pubblicato inoltre il romanzo storico La mia
erba è sul
Don e Il peso dello zaino.
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