CULTURA E IMPERIALISMO
Edward W. Said
A
cinque anni circa dalla pubblicazione di Orientalismo, nel
1978, ho iniziato a mettere insieme alcune idee sul più generale
rapporto tra cultura e impero, idee che avevo cominciato ad
approfondire proprio durante la stesura di quell'opera, e che
sarebbero poi state al centro di un ciclo di conferenze in
varie università degli Stati Uniti, Canada e Inghilterra
tra il 1985 e il 1986; tali contributi avrebbero costituito
il nucleo originario del presente saggio, al quale ho lavorato
fin da allora. Nel frattempo molti studiosi – di storia,
di antropologia e di altre discipline ad esse correlate – avevano
sviluppato alcuni degli elementi presenti in Orientalismo,
nel quale mi ero limitato a prendere in esame soltanto i rapporti
con il Medioriente. Con Cultura e imperialismo ho cercato quindi
di allargare gli orizzonti della mia ricerca per delineare
uno schema generale dei rapporti tra il moderno Occidente metropolitano
e i suoi territori d'oltremare. [...]
In quasi tutto il mondo non-europeo l'arrivo dei bianchi ha generalmente
suscitato forme di resistenza. Quel che non ho affrontato in
Orientalismo è per l'appunto la reazione al dominio occidentale,
culminata, in tutto il Terzo Mondo, nel grande movimento della
decolonizzazione. Accanto alla resistenza armata in luoghi tanto
diversi tra loro quanto l'Algeria del XIX secolo, l'Irlanda e
l'Indonesia, si registrarono anche, pressoché ovunque,
importanti tentativi di resistenza culturale, rivendicazioni
di identità nazionaliste e, in campo politico, la nascita
di associazioni e partiti i cui obiettivi comuni erano l'autodeterminazione
e l'indipendenza nazionale. Non è mai accaduto che la
partita dell'imperialismo vedesse in campo un invasore occidentale
attivo contro un indigeno non-occidentale passivo e inerte: vi è sempre stata una qualche forma di resistenza attiva e, nella stragrande
maggioranza dei casi, questa alla fine ha avuto la meglio.
Questi due fattori – l'esistenza di un modello culturale
imperiale più generale, valido per tutto il mondo, e un'esperienza
storica di resistenza all'impero – caratterizzano questo
libro in modo tale da farne qualcosa di diverso dalla semplice
continuazione di Orientalismo. In entrambi i testi ho attribuito
grande importanza a ciò che, in modo piuttosto generico,
ho definito "cultura". Così come io la intendo, "cultura" significa
in particolare due cose. Prima di tutto sta a indicare tutte
quelle pratiche, come le arti della descrizione, della comunicazione
e della rappresentazione, che godono di una relativa autonomia
dalle sfere dell'economia, del sociale e della politica, e che
sovente assumono forme estetiche che hanno tra i loro principali
obiettivi il piacere. Tra queste, naturalmente, si contano tanto
il popolare complesso di leggende, miti e tradizioni sui luoghi
più remoti del mondo, quanto una competenza scientifica
propria di discipline quali l'etnografia, la storiografia, la
filologia, la sociologia e la storia letteraria. Poiché in
questa sede ho inteso concentrare la mia attenzione esclusivamente
sugli imperi occidentali moderni dell'Ottocento e del Novecento,
ho esaminato in particolare quelle forme, quali il romanzo, che
ritengo abbiano avuto una importanza enorme nella formazione
degli atteggiamenti, dei riferimenti e delle esperienze imperialiste.
Con questo voglio sostenere non solo che il romanzo sia stato
importante, ma che esso è l'oggetto estetico per eccellenza,
le cui connessioni con le società in espansione di Francia
e Gran Bretagna sono particolarmente interessanti da studiare.
Il prototipo del romanzo realistico moderno è Robinson
Crusoe, e non è certo un caso che esso parli di un europeo
che diventa signore assoluto di un piccolo regno da lui creato
in una lontana isola non-europea.
Sebbene gran parte della più recente critica letteraria
si sia concentrata sulla narrativa, ben poca attenzione è stata
dedicata al posto che questa occupa nella storia e nel mondo
imperiale. I lettori di questo mio libro scopriranno presto che
la narrativa ha un ruolo centrale nella mia riflessione, dal
momento che al cuore di quello che esploratori e scrittori riferiscono
circa le regioni sconosciute del mondo, vi sono proprio delle
storie. Narrazioni che sarebbero poi divenute anche lo strumento
attraverso il quale i popoli colonizzati avrebbero affermato
la loro identità e l'esistenza della propria storia. [...]
Come ha suggerito un eminente critico1, le nazioni stesse sono narrazioni. Il potere di narrare, o di impedire ad altre narrative
di formarsi e di emergere, è cruciale per la cultura e
per l'imperialismo, e costituisce uno dei principali legami tra
l'una e l'altro. Inoltre non dobbiamo dimenticare che le grandiose
narrazioni di emancipazione e di edificazione spinsero intere
popolazioni del mondo colonizzato a sollevarsi e a rovesciare
il dominio imperiale; e che, nel corso di tale processo, non
pochi europei e americani furono infiammati da quelle storie
e dai loro protagonisti, e combatterono anch'essi per una nuova
narrativa, di eguaglianza e di solidarietà umana.
In secondo luogo, e in modo quasi impercettibile, la cultura è un
concetto generale che racchiude in sé un fattore di perfezionamento
e innalzamento; in altri termini, è il serbatoio di tutto
ciò che di buono una determinata società ha compreso
e pensato, come ebbe a dire Matthew Arnold intorno al 1860. Egli
era convinto che la cultura attenuasse, se non addirittura neutralizzasse,
le devastazioni prodotte dalla civiltà urbana moderna,
aggressiva, mercantile e abbrutente. Si legge Dante o Shakespeare
per restare al passo con quanto di meglio è stato pensato
e scritto, e anche per vedere se stessi, il proprio popolo, la
propria società e la tradizione nella loro luce migliore.
Con il tempo, la cultura finisce però per venir associata,
spesso in modo aggressivo, con la nazione o lo stato; diventa
ciò che differenzia "noi" da "loro",
quasi sempre con un certo grado di xenofobia. In questo senso,
la cultura è una fonte d'identità, spesso militante,
come possiamo osservare nel caso di tanti recenti "ritorni" alla
cultura e alla tradizione, accompagnati in genere da rigorosi
codici di comportamento intellettuale e morale, che si oppongono
alla permissività associata a filosofie relativamente
liberali quanto lo sono il multiculturalismo e il meticciato.
Nel mondo delle ex-colonie, questi "ritorni" hanno
prodotto vari fondamentalismi, di tipo religioso e nazionalista.
Dunque, in questo senso, la cultura è una specie di teatro
nel quale le varie cause, politiche e ideologiche, entrano in
rapporto le une con le altre. Lungi dall'essere un placido regno
di gentilezza apollinea, la cultura può diventare un vero
campo di battaglia sul quale le diverse cause si mostrano alla
luce del sole e si contrappongono l'una all'altra in modo tale,
ad esempio, che se viene insegnato agli studenti americani, francesi
o indiani a leggere i propri classici nazionali prima di quelli
degli altri paesi, ci si aspetta che essi apprezzino e siano
fedeli – spesso acriticamente – alla propria nazione
e alle proprie tradizioni, denigrando oppure osteggiando quelle
degli altri.
Ora, il problema di questo approccio è che esso comporta
non soltanto un atteggiamento di venerazione verso la propria
cultura, ma anche il pensarla in qualche modo separata – perché lo
trascende – dal mondo di tutti i giorni. [...]
Così concepita, la cultura può diventare una sorta
di area protetta e recintata: prima di entrarvi, è bene
controllare che la politica ne rimanga fuori. avendo dedicato
tutta la mia vita professionale all'insegnamento della letteratura,
e al tempo stesso essendo cresciuto nel mondo coloniale precedente
la II guerra mondiale, ho sempre considerato una sfida da raccogliere
quella di non considerare la cultura in questo modo – cioè asetticamente
separata dalle sue affiliazioni terrene – ma, al contrario,
come un campo di azione estremamente variegato. I romanzi e gli
altri testi qui presi in esame sono stati scelti prima di tutto
perché sono opere d'arte e di cultura valide e degne d'ammirazione,
opere dalle quali io e molti altri lettori traiamo piacere e
certamente profitto. In secondo luogo la mia sfida consiste nel
collegarli non soltanto a tale piacere e profitto, ma anche al
processo imperialista del quale in modo manifesto e inoccultabile
sono state parte; anziché condannare e ignorare il contributo
da queste offerto a quella che fu una indiscussa realtà delle
società del tempo, propongo invece di approfondire questo
aspetto sin qui ignorato, in modo che esso possa accrescere concretamente
la nostra capacità di leggerli e capirli. [...]
Mentre Conrad ha scritto Nostromo in un periodo caratterizzato
da un forte entusiasmo imperialista europeo largamente incontrastato,
i romanzieri e i registi di oggi che hanno appreso così bene
la sua ironia, hanno realizzato le proprie opere dopo la decolonizzazione,
dopo la massiccia revisione e decostruzione – intellettuale,
morale e immaginativa – della rappresentazione da parte
dell'Occidente del mondo non-occidentale, dopo le opere di Frantz
Fanon, di Amílcar Cabral, di C.L.R. James, di Walter Rodney,
dopo i romanzi e le opere teatrali di Chinua Achebe, Ngugi wa
Thiong'o, Wole Soyinka, Salman Rushdie, Gabriel García
Márquez e molti altri.
Così Conrad ha passato il testimone delle sue residue
propensioni imperialiste, ma i suoi eredi non hanno molte scuse
da addurre per giustificare il pregiudizio, spesso sottile e
superficiale, contenuto nelle loro opere. Non si tratta qui solo
del fatto che gli occidentali non hanno sufficiente simpatia
o comprensione per le culture straniere – vi sono, dopo
tutto, intellettuali che hanno effettivamente attraversato il
guado: Jean Genet, Basil Davidson, Albert Memmi, Juan Goytisolo,
e altri ancora. Quel che è forse più importante, è la
presenza o meno della volontà politica di prendere sul
serio le possibili alternative all'imperialismo, tra cui l'esistenza
di altre culture e società. [...] Il mondo oggi non si
presenta più come uno spettacolo sul quale possiamo essere
ottimisti o pessimisti, e i nostri "testi" interessanti
o noiosi. Tutti questi modi di pensare implicano il dispiegarsi
di poteri e di interessi. Nella misura in cui sapremo cogliere,
in Conrad, sia la critica all'ideologia imperialista del suo
tempo che una riproposizione della stessa, saremo in grado di
definire quale sia il nostro atteggiamento: la proiezione o il
rifiuto del desiderio di dominio, la tendenza a condannare o
la forza di comprendere e rapportarci con società, tradizioni
e storie altrui.
Dai tempi di Conrad e Dickens il mondo è cambiato in modi
che hanno sorpreso, e spesso allarmato, europei e americani,
che oggi si trovano a confrontarsi con la presenza sul proprio
territorio di vaste popolazioni di immigrati non-bianchi, e ad
affrontare innumerevoli voci dotate di una energia del tutto
nuova, le quali esigono che le loro storie vengano ascoltate.
Il punto focale del mio libro è che queste popolazioni
e queste voci sono lì ormai da tempo, grazie al processo
di globalizzazione innescato dall'imperialismo moderno; ignorare
o sminuire le esperienze, parzialmente coincidenti, di occidentali
e orientali, ignorare o sminuire l'interdipendenza dei territori
culturali sui quali hanno convissuto e si sono combattuti colonizzatori
e colonizzati, attraverso proiezioni, geografie, narrative e
storie tra loro antagoniste, significa farsi sfuggire l'essenza
stessa del mondo negli ultimi cento anni. [...]
Uno dei risultati raggiunti dall'imperialismo è stato
quello di avvicinare i diversi mondi e, sebbene nel corso di
tale processo si sia avuta una separazione ingannevole e fondamentalmente
ingiusta tra gli europei e gli indigeni, la maggior parte di
noi dovrebbe considerare l'esperienza storica dell'impero come
un'esperienza comune. È nostro compito quindi descriverla
come appartenente a indiani e inglesi, ad algerini e francesi,
a occidentali e ad africani, ad asiatici, latino-americani e australiani, nonostante gli orrori, gli spargimenti di sangue
e il desiderio di vendetta.
Il mio metodo consiste nel prendere in esame, quanto più è possibile,
le singole opere, leggendole dapprima come grandi prodotti dell'immaginazione
creativa e interpretativa, e poi mostrandole come parte del rapporto
tra cultura e impero. Io non credo che gli autori nel loro lavoro
siano meccanicamente influenzati dalla ideologia, dall'appartenenza
di classe, o dalla storia economica, ma credo anche che essi
siano profondamente inseriti nella storia delle società a
cui appartengono, e che siano condizionati – oltre a condizionarla – in
varia misura da quella storia e dalle loro esperienze nella società.
La cultura e le forme estetiche che essa contiene derivano quindi,
come più avanti vedremo, dall'esperienza storica. [...]
La mia speranza (forse illusoria) è che una storia dell'avventura
imperiale dal punto di vista della cultura possa dunque avere
un effetto non solo e semplicemente descrittivo, ma anche deterrente.
Del resto, dal momento che l'Ottocento e il Novecento si sono
caratterizzati non solo per l'implacabile avanzata dell'imperialismo,
ma anche per i progressi fatti dai movimenti che gli si opponevano,
ho cercato dal punto di vista metodologico di mostrare le due
forze insieme. Tuttavia la cosa non assolve in alcun modo da
ogni critica le popolazioni oppresse delle colonie; come qualsiasi
indagine sugli stati postcoloniali rivela, le fortune e i rovesci
da parte del nazionalismo, di quel che potremmo chiamare separativismo
e nativismo, non sempre hanno dato luogo a storie edificanti.
Anche questo va detto, se non altro per chiarire che sono sempre
esistite delle possibili alternative agli Idi Amin e ai Saddam
Hussein. L'imperialismo occidentale e il nazionalismo del Terzo
Mondo si sono sempre alimentati a vicenda, ma anche nelle loro
forme peggiori non sono mai stati monolitici o deterministici.
Inoltre nemmeno la cultura è monolitica, e non è proprietà esclusiva
dell'Est o dell'Ovest, né di piccoli gruppi di uomini
o di donne.
Ciò nonostante, la storia di cui stiamo parlando è oscura
e spesso scoraggiante. Quel che oggi la stempera, qui e là, è l'emergere
di una nuova coscienza politica e intellettuale, ed è questo
il secondo aspetto del problema sul quale ho focalizzato la mia
attenzione nello scrivere questo libro. Infatti, nonostante molti
lamentino che il vecchio corso degli studi umanistici sia stato
influenzato dalle pressioni politiche, da quella che è stata
chiamata la cultura della lamentela, da ogni genere di pretese,
spesso portate all'eccesso, in nome dei valori "occidentali" o "femministi", "afrocentrici" o "islamocentrici",
oggi il quadro è assai più ricco di quanto si potrebbe
pensare. Prendiamo ad esempio la straordinaria trasformazione
avvenuta nel campo degli studi sul Medioriente, che al tempo
in cui scrivevo Orientalismo erano ancora dominati da un ethos aggressivamente maschilista e paternalista. Per limitarci solo
ad alcune delle opere apparse negli ultimi tre o quattro anni – Veiled
Sentiments di Lila Abu-Lughod, Women and Gender in Islam di Leila
Ahmed, Woman's Body, Woman's World di Fedwa Malti-Douglas – vediamo
come una diversa idea dell'lslam, degli arabi e del Medioriente
abbia sfidato, e in misura ragguardevole minato, l'antico dispotismo.
Queste opere sono femministe, ma non esclusiviste; esse dimostrano
la diversità e la complessità di una esperienza
che è sempre viva sotto la rigida superficie delle concezioni
totalizzanti dell'orientalismo e del nazionalismo (a schiacciante
preponderanza maschile) mediorientale; sono sofisticate, sia
dal punto di vista intellettuale che politico, e sono in sintonia
con gli studi teorici e storici più avanzati; impegnate
ma non demagogiche, sensibili ma non lacrimose riguardo all'esperienza
delle donne; infine si tratta di opere scritte da studiose con
un diverso retroterra culturale e personale; opere in grado di
dialogare con – e in grado di offrire un contributo fattivo
a – la situazione politica delle donne nel Medioriente.
Con The Rhetoric of English India di Sara Suleri e Criticai
Terrains di Lisa Lowe, anche la dottrina revisionista ha modificato, se
non ha già spezzato, una concezione geografica del Medioriente
e dell'India intesi come territori omogenei, sempre interpretati
in modo riduttivo; così come sono scomparse le opposizioni
binarie tanto care alle imprese nazionaliste e imperialiste.
Al loro posto, si comincia a percepire il fatto che le vecchie
autorità non possono semplicemente essere rimpiazzate
da autorità nuove, ma che si stanno rapidamente affermando
nuovi schieramenti, trasversali a confini, tipologie, nazioni
e caratteri di fondo; e sono questi nuovi schieramenti che oggi
sfidano e minacciano la nozione, fondamentalmente statica, di
identità, da sempre nucleo del pensiero culturale durante
l'era dell'imperialismo. Per tutto il lungo periodo dello scambio
tra gli europei e quelli che per loro erano gli "altri",
iniziato in modo sistematico mezzo millennio fa, la sola idea
rimasta praticamente immutata è che esiste un "noi" e
un "loro", e che ciascun termine è ben definito,
chiaro, indiscutibilmente evidente. Come ho già spiegato
Orientalismo, tale divisione risale ai tempi dei greci e a quel
che essi pensavano dei barbari. In ogni caso, chiunque abbia
dato vita a questa idea di "identità", nell'Ottocento
essa era divenuta ormai l'elemento caratterizzante delle culture
imperialiste, nonché di quelle che cercavano di resistere
all'invasione europea.
Noi tutti siamo ancora gli eredi di quel modo di pensare grazie
al quale ognuno viene definito sulla base della nazione a cui
appartiene, e questa a sua volta deriva la propria autorità da
una presunta, ininterrotta tradizione. Negli Stati Uniti, questo
interesse per l'identità culturale ha dovuto per forza
di cose cedere il passo alla discussione su quali testi e quali
autorità costituiscano "la nostra" tradizione.
In genere, cercare di decidere se questo o quel libro appartenga
(o non appartenga) alla "nostra" tradizione, è una
delle operazioni più faticose che si possano immaginare.
Senza contare che gli eccessi cui tale pratica può dare
adito sono più frequenti del suo contributo ad una accurata
analisi storica. A tal proposito vorrei precisare che non riesco
a sopportare l'atteggiamento secondo il quale "noi" dovremmo
preoccuparci solo o soprattutto di quel che è "nostro",
così come non riesco ad essere indulgente verso le reazioni
a tale atteggiamento, le quali vorrebbero che gli arabi leggessero
libri arabi, adottassero metodi arabi, e così via. Come
diceva C.L.R James, Beethoven appartiene tanto alle Indie Occidentali
quanto alla Germania, perché la sua musica fa ormai parte
del patrimonio universale dell'umanità.
Tuttavia, la preoccupazione ideologica circa l'identità si
intreccia – comprensibilmente – con i programmi di
vari gruppi (e non solo quelli appartenenti alle minoranze oppresse)
i quali cercano di fissare delle priorità che, per l'appunto,
riflettano i loro interessi. Poiché gran parte di questo
libro è dedicato a che cosa leggere della storia recente,
e in che modo farlo, riassumerò qui in breve il mio punto
di vista. Prima di poterci mettere d'accordo sulla sostanza della
identità americana dobbiamo ammettere che, in quanto società coloniale
di immigrati che si è sovrapposta alle macerie di una
considerevole presenza indigena, l'identità americana è troppo
variegata per poter essere considerata qualcosa di omogeneo ed
unitario; la battaglia che al suo interno si svolge è infatti
quella tra i difensori di una identità unitaria e quanti
la vedono, nel suo insieme, come una identità complessa
ma non riduttivamente uniformabile. Questa contrapposizione implica
due prospettive diverse tra loro, due storiografie – una
schematica e gerarchica, la seconda contrappuntistica e spesso
nomade.
Soltanto quest'ultima, a mio parere, è pienamente aderente
alla realtà dell'esperienza storica. Del resto, anche
a causa dell'imperialismo, tutte le culture sono intrecciate
le une alle altre, nessuna è singola e pura, tutte sono
ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche.
[...]
L'ultimo punto che mi preme sottolineare è che questo
libro è il libro di un esule. Per ragioni obiettive, indipendenti
dalla mia volontà, sono cresciuto da arabo ma con una
educazione di tipo occidentale. Da che ho memoria, sento di essere
sempre appartenuto a entrambi i mondi, senza mai essere completamente
dell'uno o dell'altro. Tuttavia, nel corso della mia vita, quelle
parti del mondo arabo a cui ero più attaccato hanno subìto
profonde trasformazioni, ad opera di sollevazioni civili e guerre,
o perché hanno semplicemente smesso di esistere; per lunghi
periodi di tempo mi sono sentito come uno straniero negli Stati
Uniti, soprattutto quando il paese era in guerra o si contrapponeva
duramente alle culture e alle società (tutt'altro che
perfette) del mondo arabo. Eppure, quando parlo di "esilio" non
mi riferisco a qualcosa di triste o ad una mancanza. Al contrario,
appartenere, come io di fatto appartengo, ai due campi della
divisione imperiale, consente di capire più facilmente
ambedue. Per di più New York, dove è stato scritto
questo libro, è per molti aspetti la città par
excellance degli esiliati; una città che contiene in sé persino
la struttura manichea della città coloniale descritta
da Fanon. È possibile che tutto ciò abbia stimolato
gli interessi e le interpretazioni avanzate in questo testo,
ma di certo queste circostanze mi hanno dato la possibilità di
percepire me stesso come appartenente a più di una storia
e a più di un gruppo. Starà poi al lettore giudicare
se questa condizione possa essere considerata o meno un'alternativa
salutare al normale senso di appartenenza a un'unica cultura
e di fedeltà a un'unica nazione.
1 Homi
Bhabha, Nazione e narrazione, Roma, Meltemi, 1997 [NdC].
(Edward
W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso
nel progetto coloniale dell'Occidente, [traduzione italiana di
Stefano Chiarini e Anna Tagliavini], Gamberetti Editrice, Roma
1998, pp.7-24.)
Edward
W. Said è nato nel 1936 a Talbieh (Gerusalemme),
da una famiglia palestinese di religione cristiana. Esiliato
da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è stato
professore di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia
University di New York. Formatosi a Princeton ed Harvard, Said
ha insegnato in più di centocinquanta università e
scuole negli Stati Uniti, in Canada ed in Europa. I suoi scritti
sono apparsi regolarmente sul Guardian di Londra, Le Monde
Diplomatique ed il quotidiano in lingua araba al-Hayat.
Nel suo libro Orientalismo – pubblicato per la prima
volta nel 1978 – ha analizzato l'insieme di stereotipi
con cui l'Occidente ha percepito e rappresentato l'Oriente
come "altro". La sua posizione sull'orientalismo
viene sviluppata e approfondita in Cultura e imperialismo:
uno straordinario lavoro di indagine letteraria e storica sulle
complicità della cultura – da Austen a Conrad,
da Verdi a Camus – con il progetto egemonico dei vecchi
e nuovi imperi. Da una parte Said ci spinge a rileggere con
occhi nuovi i grandi capolavori della letteratura occidentale,
mentre dall'altra – analizzando le opere di Fanon, Césaire
e Rushdie – ci fa scoprire la grande ricchezza della
letteratura di resistenza che si oppose, e si oppone, al dominio
imperiale. Emerge così la realtà di un mondo
postcoloniale caratterizzato da culture ibride e interdipendenti.
Edward W. Said ha sempre lottato per la dignità del
suo popolo e contro coloro che hanno demonizzato l'Islam. Ex
socio del Consiglio Nazionale Palestinese, fu un negoziatore "nell'ombra" del
conflitto arabo-israeliano. A causa della sua pubblica difesa
dell'autodeterminazione palestinese, a Said è stato
impedito di entrare in Palestina per molti anni. Si è opposto
agli accordi di Oslo e al potere di Yasser Arafat, che ha fatto
vietare i suoi libri nei territori autonomi. È morto
a New York il 25 settembre 2003.
Conosciuto tanto per la sua ricerca nel campo della letteratura
comparata quanto per i suoi interventi politici incisivi, Said è stato
uno degli intellettuali più in vista negli Stati Uniti.
La sua opera è stata tradotta in quattordici lingue.
In italiano sono stati pubblicati: Orientalismo (Bollati Boringhieri),
La questione palestinese e Cultura e imperialismo (Gamberetti),
Dire la verità e Sempre nel posto sbagliato (Feltrinelli).
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