DUE LETTERE
Italo
Calvino e Guido Morselli
Ottobre
1965: Italo Calvino prende carta e penna e rifiuta a Guido
Morselli la pubblicazione de Il Comunista presso Einaudi.
Sarebbe stato l’ennesimo rifiuto editoriale, in una sequenza
che non avrebbe mai incluso un parere positivo. Infatti, Morselli
morirà suicida nel 1973 senza aver mai visto un suo libro
pubblicato. Oggi la sua opera omnia è pubblicata in Italia
da Adelphi, nella prestigiosa collana della “Nave Argo”,
e molti dei suoi romanzi sono stati tradotti con successo in
altri 15 paesi.
Ecco i testi delle due lettere:
Torino,
5 ottobre 1965
Caro Morselli,
finalmente ho letto il Suo romanzo. So d'aver tardato oltremisura
e che non c'è nulla che spazientisca un autore quanto
queste lunghe attese: ma la lettura dei manoscritti è un
lavoro supplettivo per cui devo rubare del tempo al lavoro e
alle altre letture che riempiono - ahimè senza margine
- le mie giornate feriali e festive, inverno ed estate. Ed è anche
un lavoro - devo dirglielo subito -che, quando si tratta di romanzi
politici, faccio senza nessuna speranza. La politica continua
a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che
questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla,
né in un campo d'interessi né nell'altro. Credo
cioè che si possa fare opera di letteratura creativa
con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso
più duttili, più vere, meno organicamente false
di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi
che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere
letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo
idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie
bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo.
Le ho detto questo prima, come avrei potuto dirglielo prima di
leggere il Suo romanzo: insomma è chiaro che gran parte
del mio giudizio è basato su questo a-priori.
Cominciando a leggerLa ho però provato interesse. Il Suo
libro si presenta gremito di fatti, di dati, di documentazione
d'una vita reale, ed è questa parte non-romanzesca, questo
materiale accumulato dentro, che mi faceva appunto rimpiangere
che Lei non avesse scritto, che so?, una divagazione sul movimento
operaio emiliano, raccogliendo e commentando memorie dirette
e indirette, o una biografia, o un libro di ricordi e pensieri.
Macché "divagazione"!
Andando avanti ho distinto vari filoni nel materiale che Lei
organizza, su cui ho da dare un giudizio diverso:
il retroterra anarchico-emiliano, l'autodidattismo marxista,
tutta la figura di Terranini, c'è, persuade;
la discussione ideologica che percorre tutto il libro, resta
una discussione in margine ai testi, sovrapposta al romanzo,
lì è Lei che parla, chiosando libri; la vita vissuta
c'entra fino a un certo punto;
la biografia americana di Terranini, anch'essa minuziosissima,
e tutto sommato persuasiva, sa però di documentazione
indiretta, resta fredda, come se Lei avesse utilizzato le memorie
di qualcuno; quest'impressione è accentuata dall'italiano
che Lei usa quando parla dell'America, tutto voci prese di peso
dall'inglese (pneumonia per polmonite; libreria pubblica per
biblioteca; udienza per pubblico). Niente di male; sarebbe sgradevole
se facesse l'opposto, se italianizzasse troppo; ma direi che
ci vorrebbe più consapevolezza dell'operazione linguistica
che sta facendo;
dove ogni accento di verità si perde è quando ci
si trova all'interno del partito comunista; lo lasci dire a me
che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti
i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti,
né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un
mondo che troppa gente conosce per poterlo "inventare".
Qui è la grande delusione a cui necessariamente va incontro
il "genere" che Lei ha scelto, il romanzo di rappresentazione
quasi fotografica d'ambienti diversi, il romanzo storico-privato.
L'unica via possibile è l'autobiografia, o comunque la
riflessione in cui sia ben chiaro chi è il soggetto e
qual'è il suo rapporto coll'oggetto che tratta; inventare
- se non si tratta d'invenzione pura, cioè sempre d'autobiografia
- è impossibile;
quel che riguarda Montecitorio, e la vita del povero deputato
di provincia, è però più persuasivo. Conosco
abbastanza anche quel mondo (dei deputati comunisti più umili
e provinciali, senza nessun contatto con le grandi vedette della
vita parlamentare e culturale del Partito) e - sebbene non abbia
trovato nel Suo romanzo quel tanto di inconfondibile che fa "riconoscere" un
ambiente a colpo sicuro - però non vi ho trovato le stonature
che saltano all'occhio quando Lei rappresenta i rapporti più propriamente
di Partito;
tutta la parte amorosa, le donne, specialmente Nuccia, non convincono;
Nancy è solo un manichino ideologico tutto-fare.
La sua preoccupazione era altro, non la storia privata del protagonista,
messa lì solo per far "romanzo"; vede a cosa
porta il "genere"?;
dell'America di oggi non ho una conoscenza altrettanto approfondita
(ci sono vissuto solo sei mesi), ma posso solo dirLe che la procedura
per avere un visto è molto molto più complicata
e lenta, ed esclude tassativamente i comunisti, a meno di rare
occasioni ufficiali. E che le probabilità di trovare un
dottor Newcomer (cioè uno che abbia dimestichezza con
la dialettica hegeliana) sono talmente poche da poter definire
quei discorsi come inverosimili.
So che Lei s'aspettava da me non una perizia di verosimiglianza,
ma un giudizio sulla favola e sui contenuti che mette in gioco.
Ebbene il tema centrale è un tema che sento anch'io, e
quasi nei Suoi stessi termini. Ma la favola lo serve male; la
crisi di Terranini viene fuori bene fin che ha un ritmo lento,
appena affiorante alla coscienza; ma quando precipita si disfa,
non ha più evidenza nemmeno ideologica. E tutto il viaggio
in America è forzato, con lo sciopero, l'ex moglie diventata
di sinistra... Era un romanzo che puntava sulla credibilità,
sulla riconoscibilità delle situazioni e dei personaggi;
quando questa fiducia in quel che Lei racconta è perduta,
l'incanto è rotto. Per questo ho usato la verità documentaria
come metro del mio giudizio (criterio critico ormai insolito,
ma che nel suo caso s'impone).
Come vede il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni,
e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso
gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo (un viaggio
a Milano in treno, andata e ritorno) che ho impiegato a leggerlo,
posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho imparato.
Spero che Lei non s'arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per
questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o "aver
successo".
Un cordiale saluto
Suo Italo Calvino
9
Ottobre 65
Caro Calvino,
La ringrazio della Sua lettera. - Il "successo" c'è e
non speravo di averne tanto: in veste, magari involontaria, di
critico Lei mi dedica una lunga, articolata recensione, in cui è implicita
una premessa per il povero "Comunista". Il quale si
presta alle Sue critiche, si capisce, ma so che Lei non concederebbe
l'imprimatur a un lavoro che non stimolasse e non provocasse.
Lei editore non ammetterebbe un libro "pacifico" sul
quale tutti fossero destinati a trovarsi acriticamente d'accordo,
sia pure in senso elogiativo. Lo considererebbe insignificante.
Mi pare logico. Poche settimane fa ho letto in un giornale un
giudizio severo su un romanzo einaudiano (di un autore nuovo),
un romanzo con qualche probabilità fatto pubblicare da
Lei. Ora Lei non si dimette per questo da direttore letterario
della Sua Casa. Quelle critiche Lei (e comunque, chi ha dato
il "via" editoriale) le ha anticipate, penso, e in
ogni caso ne prendo atto senza pentirmi di aver fatto pubblicare
il libro; questo evidentemente meritava, lo stesso, di essere
fatto conoscere. Quanto a me - aggiungo che se nella Sua lettera
avesse parlato l'editore, avrei controbattuto, ma una recensione
si accoglie e si gradisce, anche se è rigorosa. Perciò quanto
dico ora, lo dico in tesi generale.
Quell' "a priori" che Calvino fieramente premette, "il
romanzo è organicamente falso", Calvino autore di
opere che sono narrativa e senz'altro romanzo e lo mettono fra
i 10 e 15 italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei
manuali di lettere del 2000, - quell'apriori anti-romanzo è condiviso
da parecchi, e è respinto da parecchi altri, non solo "produttori" come,
poniamo, Moravia o la Ginzburg, ma studiosi; da Lukàcs
a Jean Bloch-Michel. La spiegazione sta forse nel fatto che il
romanzo è un "universale", oggi, all'esterno
del quale manca oramai un genus proximum, mentre dentro di sé include "generi" in
numero imprecisato - e reciprocamente incomparabili come potevano
essere all'epoca del classicismo francese l'idillio e la tragedia
e La Bruyère, ecc. Questo spiega anche la coesistenza
e l'azione efficace di "poetiche" così opposte,
che sembrerebbero doversi escludere a vicenda, e cioè che
possano trovare udienza e seguito i "joyciani" e i
nuovi esaltatori di Zola, che riescano altrettanto attendibili
i più recenti sperimentalisti per es. i teorici del nouveau
roman francesi, e un Lukàcs codificatore del realismo
(socialista e no), quanti ammettono al massimo il romanzo-saggio
e quelli che lo vogliono invece effusione lirica, confessione;
ecc. È facile che questa brava gente abbiano tutti ragione,
parzialmente, unilateralmente; il torto degli uni e degli altri,
Lei sa, è di assolutizzare, di negare validità alle
opere che escano dagli schemi (e "generi", piuttosto)
da ciascuno preferiti.
Mi sono avvicinato al punto che, provvisoriamente, ci interessa.
Tutto, Lei sa, dipende dagli scopi che uno scrivendo si propone
e dai mezzi che a quegli scopi si adattano. Chi ha molte cose
da dire, cose di una certa categoria, gli conviene (per parlare
un po' all'ingrosso) l'oggettività e la costruzione; e
una volta adottato questo metodo, che adoperi la prima persona
e la terza "storica", che autobiografizzi e si trinceri
dietro un fittizio distacco saggistico, alla resa ultima il suo
andamento narrativo non può essere molto diverso.
Tendenziosità. Ammetto che ci sono in certi racconti incontri,
coincidenze, situazioni, che al futuro lettore disabituato alla
narrativa oggettiva e "costruita" sembreranno tendenziosi
e artificiosi, ma qui osservava Lukàcs, e Lei, Calvino,
lo sa quanto me, che questo "arbitrio" è legittimo
e persino doveroso quando serve all'espressione di un conflitto:
beninteso, bisogna che non sia meccanico, che abbia una giustificazione
nella personalità delle figure introdotte, che contribuisca
davvero a fare di esse uomini (e non immobili portapanni ideologici),
ecc. ecc. Mi permetta adesso di venire a "Il Comunista":
Newcomer, lo sciopero nell'East che liquida o demistifica l' "efficiency",
il colloquio con lo spagnolo ubriaco, sono tendenziosi, sì.
Ma hanno una funzione nella crisi di Terranini?
Lei mi parla del Suo disagio nel dover fare della "critica
documentaria" a proposito del "Comunista". La
capisco. Mi limito a dire questo, che chi si occupa di narrativa
dovrà sempre, presumibilmente, tener conto anche di questo
parametro critico. Un critico musicale d'oggi non può del
tutto ignorare che accanto ai dodecafonici, ecc., la musica include
sempre un Malipiero e un Menotti - che gli pongono problemi non
più (diciamo) di armonizzazione ma anche di orchestrazione.
Su questo punto - se dovessi dire oggettivamente il mio parere
sulla Sua "recensione", direi che è vero, il "Comunista" può dar
luogo a discussioni, vivaci e lunghe. Il Partito, i suoi esponenti,
i suoi organi, periferici e non periferici, sono bene descritti
in questa tipologia così rapida, unilaterale? L'argomento
era inesauribile, Lei ha ragione; da poterne discutere all'infinito.
Finirei per concludere così: che nel "Comunista" è veduto
un ambiente e soprattutto un "tempo" (il '58: già lontano
da noi) di un organismo che - in Italia! - è soggetto
a frammentazioni (anche geografiche) e a evoluzioni frequenti
e non di superficie. Non pretendo di dare un giudizio storicizzante,
e nemmeno, nemmeno, un ritratto esauriente. La sua rappresentazione
poggia su un personaggio che è, e del resto sa di essere,
molto inadeguato a incarnare le ragioni e i caratteri della localizzazione
italiana (sia pure) di un movimento politico e dottrinale di
portata universale (Avrà notato che il Partito è visto "di
traverso", direbbe Auerbach, sempre cogli occhi e nella
prospettiva passionale, anarchico-autodidattica, del Terranini.
Neppure in una riga l'autore lascia apparire un giudizio di altri,
o il proprio).
Ma queste sono osservazioni di margine; quel che conta ora è che
Lei mi scriva che alla lettura "ci ha preso gusto e ci si è arrabbiato",
che la figura centrale, o unica, del libro "c'è e
persuade" (sono le Sue parole) e che il libro "è gremito
di fatti e di cose". Di più, io sinceramente non
avrei potuto chiedere per il mio lavoro. Se uscirà, ho
una mezza idea che si meriterà altri éreintements,
e magari solo éreintements e stroncature, il che farà molto
onore all'editore e persino troppo all'autore. Ma sarei felice
se i critici che lo attaccheranno sapessero arrivare alle stesse
conclusioni di fondo cui è arrivato Lei, e che lo maltrattassero
col gusto e la passione che ci ha messo Lei.
La ringrazio dunque ancora, e La prego: quando ritorna a Milano
me lo faccia sapere, verrò a salutarla e per me sarà incontrare
un amico.
Per non essere, a Lei, del tutto uno sconosciuto: sono emiliano,
autodidatta, vivo solo su un piccolo pezzo di terra dove faccio
un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi,
con quasi nessuna speranza di uscirne.
Mi creda
Guido Morselli
.
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