UNA
QUESTIONE DELL’ANIMA
(1975)
Saul
Bellow
Per
avere l’onore di inaugurare i vostri lavori, sono venuto
in centro alle nove del mattino. Cosa che normalmente farei
solo se convocato dalla polizia. Questa parte di Chicago non
la sento affatto mia. È il quartiere dominato dalle
banche, dalle compagnie di assicurazioni, dalle speculazioni
commerciali e dai grandi magazzini, dalla legge e dalla politica,
dall’acciaio, dal petrolio, dalla chimica, dalle compagnie
aeree, dai computer e dalle imprese di servizio pubblico. Qui
la cultura è rappresentata dalla Biblioteca Pubblica
e dall’Art Institute.
Milioni di persone vengono fin qui per vedere i tesori dell’Art
Institute. Gli scolari che arrivano in pullman dalle lontane
propaggini borghesi della città e dai quartieri popolari
sfilano lungo le sue gallerie. Un sovrintendente mi ha detto
che certe volte bisogna togliere dai vetri la saliva di bambini
risentiti. La venerazione coatta è destinata a sfociare
nella ribellione, nell’odio, nella bestemmia.
Ricordo di aver provato emozioni simili quando andavo a scuola,
nel 1925, in occasione delle iniziative per farci apprezzare
l’arte o la musica, quando gli insegnanti ci mostravano
diapositive a colori dell’Angelus o della Témeraire
di Turner rimorchiata lungo il Tamigi al tramonto oppure, girando
la manovella del grammofono, ci facevano ascoltare Saljapin che
cantava La canzone della pulce o la Galli-Curci che interpretava “L’aria
delle campanelle” da Lakmé, oppure Caruso, Tito
Schipa o Madame Schumann-Heink. Che significato aveva tutto questo
per noi? Se eravamo sensibili, reagivamo alla devozione degli
insegnanti. Se eravamo impermeabili, li schernivamo, li beffeggiavamo
o li maledicevamo nei nostri cuori. Ma impermeabili o sensibili,
in qualche modo facevamo nostro il tacito presupposto di Chicago
che questo fosse un luogo da duri, una città in cui si
lavorava e si facevano i soldi, una città di bande e di
politici corrotti, di partite di baseball e incontri di pugilato.
Eravamo figli di immigranti confusi che brancolavano nel buio
e cercavano di capire che ne fosse stato di loro in America.
Grossolanità, delusione, malattie, crepacuore, denaro,
potere, felicità e amore nelle sue forme più rudimentali:
ecco le cose di cui eravamo consapevoli. Questo era un luogo
in cui regnava la materia, un luogo in cui la pietra aveva un
valore. Se ci si sentiva attratti dalle forme più nobili
dell’esistenza – e poteva tranquillamente succedere,
persino in una città fatta di recinti di bestiami, di
acciaio e di gangster – bisognava arrangiarsi da soli.
Un secolo e mezzo fa le condizioni di vita erano assai diverse
in una città come Milano, quando Verdi, arrivato dal paese
natio per studiare musica, vi trovò, come più tardi
in altre città, teatri, produttori, musicisti e un pubblico
di dilettanti esigenti e sensibili.
Non che qui non si sentisse mai parlare di queste cose. La musica
c’era eccome, nella Chicago dei primordi. A dodici anni
io stesso eseguii al violino il Moto perpetuo di Böhm,
in occasione di un saggio musicale alla Kinball Hall. E da Jeremiah,
il nostro pensionante, avevo imparato un sacco di cose sull'opera.
Jeremiah, dai ricci capelli rossi, si struggeva anima e corpo
per diventare cantante. Faceva l'operaio in una fabbrica di Chicago
e lavorava a una pressa. Aveva l’abitudine di cantare in
cucina davanti a noi. Si alzava sulla punta dei piedi, gli occhiali
ottagonali imperlati di sudore, e quando congiungeva le mani
mi chiedevo se con tutti quei calli non sentisse male. Privo
di talento ma pieno di passione, faceva sorridere gli amici.
Era stato un pugile dilettante e una volta era uscito dall’YMCA
con il naso rotto. La mia teoria personale era che un pugno sul
naso avesse mandato in fumo le sue possibilità di diventare
tenore. Quest’uomo gentile e disperato, mio intimo amico,
aveva studiato canto con Alexander Nakutin al Fine Arts Building.
Chicago ha davvero un edificio che porta questo nome e che allora
pullulava di professori di musica stranieri. Avevano nomi meravigliosi
come Boruscek. Schneiderman, Treshansky, e i loro allievi erano
per lo più figli e figlie di immigrati.
All’epoca delle grandi immigrazioni Chicago era una città assai
diversa. Le leggi del 1924 sull’immigrazione cambiarono
decisamente il carattere dell’America urbana. Arrestarono
il flusso di artigiani, ebanisti, meccanici, pasticceri, panettieri,
cuochi, fabbricanti di strumenti e altri operai specializzati
provenienti dall’Europa centrale, dall’Italia e dai
Balcani. I movimenti migratori interni portarono al nord manodopera
non specializzata proveniente dal sud. La vita prese una piega
diversa. I discendenti degli artigiani europei abbandonarono
le loro attività, molte delle quali non sarebbero comunque
più state al passo coi tempi.
Chicago non faceva che anticipare quanto sarebbe accaduto dappertutto.
Un nuovo mondo stava rapidamente sostituendo il vecchio. Chicago
e l’alta cultura – lo dico con una certa sorpresa,
come abitante di questa città – ora sono più vicine.
A Chicago adesso si ascoltano concerti raffinati mentre a Milano
mettono le bombe nelle banche, la borghesia italiana somiglia
assai alla nostra; in entrambe le città i giovani si somigliano
sempre più. E dappertutto, purtroppo, gli intellettuali
sono sempre più simili. Gli intellettuali, specialisti
raffinati in un centinaio di campi, sono spesso filistei quanto
le masse da cui sono emersi. Ho sentito un illustre matematico
vantarsi del fatto che deve ancora mettere piede nella “nuova” biblioteca
della University of Chicago, aperta cinque anni fa. Nel suo campo
specifico ha bisogno soltanto di giornali.
Gli intellettuali non sono diventati una nuova classe di mecenati
delle arti. Ciò significa che le università hanno
dolorosamente mancato il loro obiettivo. Non hanno educato gli
spettatori, i lettori e gli ascoltatori come avrebbero dovuto
e qui, come dappertutto, tra le nuove forze negative emerge un
colto filisteismo. Le persone istruite sono lontane dall’arte
e dal gusto di quanto fossero anche solo una generazione fa.
Se si crede nella verità della regola di Stendhal, secondo
cui “Le mauvais goût mène aux crimes” – Il
cattivo gusto conduce al crimine – si può prevedere
che le future ondate di criminalità non avranno mai fine.
Intendo i crimini contro l’arte. Nulla lascia supporre
una loro diminuzione: anzi, si moltiplicano alla follia.
Non sono venuto qui per scoraggiare gli specialisti dediti allo
studio di Verdi. Io stesso, parlando di arte nel mondo moderno,
non mi lascio sopraffare dalla tristezza. Cerco di guardare con
lucidità a quanto sta accadendo. Milioni, no, miliardi
di esseri umani stanno prendendo coscienza sulle ali tempestose
di una rivoluzione. In vaste regioni della terra le rivoluzioni
hanno prodotto stati di polizia e società di schiavi,
in cui l’ideologia sostituisce la realtà.
All’inizio del Ventesimo secolo Max Weber ci aveva già detto
che la modernità è “disincantata”.
A questo pare l’acquisizione della coscienza è legata
a certi tipi di privazione. È l’amarezza dell’autocoscienza
che noi conoscitori conosciamo meglio. Critica nei confronti
delle illusioni che hanno sostenuto l’umanità al
principio, l’autocoscienza ora fa ben poco per sostenerci.
Il punto è: che cosa è più disincantato,
il mondo o la coscienza che di esso abbiamo? La spiegazione consueta è che
la causa del nostro disincanto stia nella razionalità del
nuovo ordine sociale, economico e tecnologico. Nessun artista
degno del pane che mangia è disposto a concederlo. Controbatterà che è tutta
colpa di una falsa razionalità. Ma il suo non è un
compito facile.
Forse è un errore pensare sempre alla condizione generale
dell’arte o a un’intera civiltà, anziché a
singoli aspetti di quella stessa civiltà. Gli spettacoli
buoni trovano ancora un pubblico selettivo, e ci sono ancora
lettori in attesa di libri. Certo, sono una minoranza, ma una
piccola parte della popolazione moderna può essere numericamente
significativa. Un pubblico di due o trecentomila persone potrebbe
senz’altro soddisfare i bisogni di gran parte degli artisti.
Naturalmente nell’Ottocento c’erano degli artisti
nazionali come Dickens, Dostoevskij o Verdi, che traevano forza
e ispirazione dall’interesse, dall’ammirazione e
dal sostegno vitale di tutto un popolo. Un Dickens che parlava
all’Inghilterra intera, e in un certo senso a suo nome,
godeva di un vantaggio incomparabile; ma con la possibile eccezione
dell’Unione Sovietica – e qui penso a Solzenycin – per
l’artista di oggi questo status non è possibile.
E poi non c’è proprio da lamentarsi, quando si hanno
duecentocinquantamila lettori.
Il numero sarebbe anche maggiore se il sistema educativo americano
non tendesse a mutilare, confondere e alienare gli studenti.
Negli Stati Uniti ci saranno venticinque milioni di laureati,
ma uno dei problemi del Paese è la stoltezza, l’instabilità e
il filisteismo delle persone colte. Spesso penso che c’è più speranza
per il giovane lavoratore che tira su per caso un tascabile di
Faulkner, Melville o Tolstoj dallo scaffale del drugstore, che
per il laureato al quale i docenti hanno fornito “interpretazioni” di
quegli stessi autori e che è in grado di dire, o pensa
di saper dire, cosa simboleggia l’arpione di Achab o quali
sono i simboli cristiani di Luce d’agosto. Nei college
e nelle università non si istilla passione alcuna per
romanzi e poesie. La gente impara solo a fare dotte conversazioni
di qualche minuto senza tradire ignoranza e stupidità.
E pure l’università è in un certo senso il
mio mecenate, o lo è stata, quando avevo ancora bisogno
di mecenati. Nei decenni di prosperità seguiti alla seconda
guerra mondiale, le università americane chiamarono a
raccolta poeti, romanzieri, pittori e musicisti e offrirono loro
asilo. Siccome le università private sono finanziate dai
filantropi, dalla generosità dei ricchi, i ricchi erano
indirettamente i mecenati di quegli stessi poeti, pittori e musicisti.
Lasciano che siano le istituzioni – fondazioni, università,
musei e giurie di premi letterari – a stabilire i livelli
consultando commercialisti e funzionari delle grandi banche.
Giacché il mecenatismo, come tutti ben sappiamo, è dominato
dalle politiche fiscali del governo federale dell’interpretazione
data dall’Internal Revenue Service. È giusto ricordare
che molti dei bisogni umani più profondi, quelli ai quali
ci riferiamo quando usiamo parole come “arte”, vengono
regolati da organismi e individui che non hanno per essi la minima
sensibilità.
A suo tempo io stesso ho fantasticato sul mecenatismo ideale – tristi
sogni a occhi aperti su come sarebbe stato bello unirsi spiritualmente,
al pari degli scrittori nel Settecento, a un mecenate aristocratico,
anch’egli uomo di grande sensibilità. Che piacere
dev’essere stato per Jonathan Swift essere segretario di
Sir William Temple. Come è stato utile a Haydn il Principe
Esterhazy. E per quanto crudeli e capricciosi fossero i protettori
delle arti – penso a Mozart e al suo arcivescovo – non
si può fare a meno di desiderare che chi domina la società con
il suo denaro e il suo potere abbia una certa sensibilità per
l’arte, o almeno la coscienza di cosa sarebbe il mondo
senza arte. Giacché un mondo simile sarebbe semplicemente
un mondo corrotto – una condizione assai più disperata
di quella prefigurata dal più pessimista tra gli ecologisti.
La mia situazione è relativamente semplice. Un narratore
non ha bisogno di strumenti, cantanti, cori, teatri. Non devo
vedermela con mecenati o sindacati, sempre più dolorosamente
consapevoli del fatto che l’opera viene deprezzata ed esclusa
dal mercato. Io ho risme di carta, una macchina per scrivere
e i lettori. È facile soddisfare i miei bisogni.
Ciò che narratori, compositori e cantanti hanno in comune è l’anima
alla quale rivolgere il proprio appello, che essa sia sterile
o feconda, vuota o ricca, che sappia, senta o ami qualcosa.
Sembra proprio che oggi non appena appare un bisogno chiaro,
esso debba essere soddisfatto in modo falso e diventi una nuova
occasione di sfruttamento. Sappiamo che ciò è vero
a tutti i livelli. Tanto per cominciare con esempi insignificanti,
oggi non ci vendono mele vere o gelati veri, ci vendono l’idea
della mela, il ricordo del gelato. Molta gente, per quindici
cent, compra l’idea del giornale. E, ad altri livelli,
ascolta l’idea della musica in ascensore. In politica si
confronta con le idee di onore e di patriottismo; nel diritto,
con le ombre della giustizia. I media offrono idee inconsistenti
di devozione umana, i film producono gli spettri della passione
e dell’amore. Poi ci sono impresari, artisti, pittori e
scrittori che offrono nelle confezioni più svariate ricordi
esilissimi, il fantasma dell’arte. A quanto pare molti
artisti contemporanei credono che sia sufficiente offrire perle
artificiali a porci veri. È così che il mondo moderno
soddisfa i bisogni umani più profondi – con la frode,
la demagogia, l’opportunismo e l’affarismo.
L’essenza della vita dovrà essere conservata da
piccole minoranze finché simili abusi, probabilmente inevitabili
nelle condizioni attuali della nostra civiltà, saranno
scacciati da un’accresciuta stabilità e dal miglioramento
del gusto e della selettività. Dico “scacciati”,
ma so che questo mirabile progresso non avrà mai luogo.
Non sono un profeta, soltanto un osservatore. Osservo, per esempio,
la sete delle grandi folle che si esprime in un uragano di applausi
nell’istante stesso in cui è stata suonata l’ultima
nota di un concerto. Alla radio si sente benissimo. Il pubblico
del Mozarteum di Salisburgo, di Londra o di New York non vede
l’ora di erompere nell’applauso, di vociare con primitivo
entusiasmo, facendo seguire all’armonia dell’orchestra
manifestazioni di caos. Questa esplosione, in cui d’un
tratto si sprigionano tante forze umane, lo spettacolo della
folla dopo quello dei musicisti, è un uragano di liberazione
collettiva. La gente urla con voce roca: “Sì, è questo
ciò che tutti cerchiamo!”.
Il vocio e gli strepiti mostrano la nostra gratitudine per Aida,
una giovane donna che non ha mai messo piede sul Michigan Boulevard.
Per Otello, il nero sofferente vestito di broccato che canta
in italiano, del tutto estraneo a noi non fosse per la musica
e la sua umanità. Il desiderio è lì, e migliaia
di persone provano lo stesso riverente timore. Il chiasso esprime
la volontà di appropriarsi di queste cose strane, di rendere
loro onore. Una fanciulla etiope, un geloso generale veneziano,
interpretati da un compositore dell’Ottocento e presentati
da cantanti italiani, possono essere più reali per la
gente che frequenta il quartiere di Ravenswood che non le strade
stesse di Chicago. Ed è imperativo che la gente abbia
una realtà migliore di quelle strade – qualcosa
di poco pratico, di gratuito, qualcosa che non frodi, non sfrutti
o aggiunga altri fantasmi a una vita già colma di fantasmi,
seduzione e inganni.
Forse il desiderio di queste cose svilupperà anche il
senso di responsabilità verso di esse. Forse una società in
cui gli adolescenti spendono più di un miliardo di dollari
per i regali di Natale comprenderà la necessità di
soddisfare i bisogni importanti del pubblico. Forse il ruolo
dell’opinione pubblica nel mecenatismo si accrescerà.
Forse persino i sindacati vorranno fare qualcosa per sostenere
le arti, spendendo per la musica almeno l’un per cento
di quanto spendono per mandare un presidente alla Casa Bianca.
Idee del tutto impossibili come questa mi dimostrano che sono
un vero abitante di Chicago. Il motto della città è: “Io
voglio”. Io voglio cosa? Qualcosa di diverso, spero, da
quello che ha voluto nel passato. Signore e signori, benvenuti
a Chicago.
(Tratto
dalla raccolta di saggi e conferenze I conti tornano, Mondadori,
Milano, 1995, traduzione di Franca Cavagnoli [Articolo originalmente
pubblicato su Opera News, USA, 11 gennaio 1975])
Saul
Bellow ha vinto il Premio Nobel
per la letteratura nel 1976.
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