LA
SCOMPARSA DI UN POETA
Umberto
Eco
Per
uno scrittore non è mai raccomandabile morire di ferragosto.
I giornali si occupano d’altro, del caldo, degli ingorghi
sulle autostrade, degli incendi nei boschi. Ma una qualche attenzione
avrebbe pur dovuto essere dedicata alla scomparsa (avvenuta a
San Paolo, all’età di 74 anni) di Haroldo De Campos,
uno dei grandi poeti del nostro tempo. Non posso dire di avere
controllato su tutti i giornali, ma, per quanto ne so, posso
citare solo Lello Voce che ha dedicato all’evento, su “l’Unità”,
un ampio e commosso articolo.
Tra gli incidenti ferragostiani c’è il fatto che
anch’io sono lontano da casa, dove ho tutta l’opera
di De Campos, e debbo parlarne senza potere citare nulla, anche
perché De Campos deve la maggior parte della sua fama
alla poesia concreta, che è di carattere eminentemente
visivo e gioca non solo sulla composizione tipografica, ma anche
sui colori. Come si fa a mostrare queste cose in una “Bustina”?
Ma qualcosa debbo pur dire di questo personaggio eccezionale
e carissimo amico da quarant’anni.
È
sempre vissuto (quando non era in giro per il mondo) a San Paolo
del Brasile, città avvelenata dallo smog e attraversata
da strade sospese tra i grattacieli che ricordano le megalopoli
di Flash Gordon, non così vivibile e bellissima come Rio
de Janeiro. Ma De Campos l’amava come se fosse l’ombelico
del mondo. A San Paolo Haroldo viveva il suo Brasile “profondo”,
un paese dove convivono i riti del Candomblé, il ricordo
dei “cangaceiros” e una grande e moderna tradizione
letteraria e artistica. De Campos e i suoi amici all’inizio
degli anni sessanta, quando sono stato loro ospite, si riunivano
in un João Sebastian Bar, e lavoravano a esperimenti di
neo-avanguardia (in anticipo di dieci anni su italiani e francesi),
celebrando al tempo stesso, sulla scia di alcuni loro grandi
scrittori “modernisti” come Mario e Osvald de Andrade,
il “cannibalismo brasiliano”.
Sia pure attraverso l’ambiente tedesco di Max Bense, che
di Peirce aveva capito poco, sono stati tra i primi a rivisitare
la semiotica di questo grande filosofo americano, a quei tempi
persino snobbato dall’accademia statunitense, e in via
di riscoperta in Italia e Germania. E contemporaneamente, con
la rivista “Noigandres”, Haroldo, sua fratello Augusto
e Decio Pignatari, iniziavano esperimenti di poesia concreta,
che hanno fatto scuola in tutto il mondo. Lello Voce nel suo
articolo lamenta che l’opera di Haroldo, che ha ricevuto
vasta attenzione in molti paesi, sia poco conosciuta da noi,
dove non esiste un solo volume che traduca le sue poesie. Ma,
per gli appassionati, Haroldo era un maestro, e visitava il nostro
paese dove aveva molti amici, così come noi si andava
in Brasile per essere introdotti, da questo gruppo di “illuministi
etnici”, sia alle esperienze letterarie più avanzate
che ai misteri dei riti sincretistici e alla scoperta dei buoni
pittori primitivi che ridavano vita al politeismo di quell’incredibile
paese.
Haroldo era uomo maestosamente gioviale, dalla risata contagiosa,
ed era un entusiasta della parola. Forse la sua fama è stata
dovuta in gran parte ai suoi esperimenti di avanguardia, ma Haroldo
era un finissimo conoscitore di varie letterature e – mentre
teneva un occhio a Joyce – è stato formidabile traduttore
di grandi poeti, da Cavalcanti a Goethe, con un’attenzione
alla poesia cinese (sulla scia di quel Pound che considerava
uno dei suoi maestri) e (non temo di affermarlo) il più grande
traduttore moderno di Dante. “6 cantos do Paraíso” erano
stati pubblicati nel 1976 dall’Istituto Italiano di Cultura
di San Paolo, ma hanno avuto una circolazione quasi clandestina,
almeno da noi.
Tradurre Dante è cosa difficile perché, come notava
Douglas Hofstadter in “Le ton beau de Marot”, di
solito i traduttori non sanno se ricreare termini arcaici o puntare
alla modernizzazione, si arrestano sovente di fronte alle difficoltà dell’endecasillabo
e alle costrizioni della rima, e in ogni caso non colgono la
struttura profonda della terzina dantesca dove, a spostare soltanto
una parola da un verso al seguente, si perde il respiro dantesco.
Haroldo era riuscito a superare tutti questi limiti. Il Paradiso è certamente
la cantica più difficile, ma i canti del Paradiso di De
Campos suonano medievali e modernissimi al tempo stesso, ed egli
era riuscito veramente a ricreare nel suo portoghese-brasiliano
immagini e suoni della Divina Commedia.
Spiace dar l’impressione di farsi pubblicità a
spese di un amico scomparso, ma chi volesse trovare almeno una
pagina
della traduzione del canto 31, quello sulla candida rosa, la
può reperire nel mio libro “Dire quasi la stessa
cosa”. Non è necessario comperarlo, basta andare
in libreria e cercare la pagina 297. Anche se non sapete il portoghese,
cercate di mormorarvi a bassa voce (in modo da non insospettire
il libraio) il Dante di De Campos “À forma assim
de uma cândida rosa...” Forse capirete quello che
ho cercato di dire.
(Tratto dal settimanale L‘Espresso del 4 Settembre 2003)
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