LA
SPOSA BAMBINA
Beppe
Fenoglio
Catinina
del Freddo era di quella razza che da noi si marchia col nome
di mezzi zingari perché mezza la loro vita la passano
sotto l’ala del mercato.
Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti,
a giocare coi maschi a tocco e spanna, quando sua madre le fece
una chiamata straordinaria.
–
Lasciami solo più giocare queste due bilie! – le
gridò Catinina, ma sua madre fece la mossa di avventarsi
e Catinina andò, con ben più di due bilie nella
tasca del grembiale.
A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali
vennero a mettersi lei e sua madre, e così tutt’insieme
fronteggiavano un vecchio che Catinina conosceva solo di vista,
con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo odore
un po’ come quello dell’acciugaio. I suoi di Catinina
stavano come sospesi davanti al vecchio, e Catinina cominciò a
dubitare che fosse venuto per farsi rendere ad ogni costo del
denaro imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il
vecchio la vedesse e li compatisse.
Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina
per il suo nipote che aveva diciotto anni e già un commercio
suo proprio.
Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che
sei contenta di sposare il nipote di questo signore?
Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre
la rimise in posizione: – Neh che sei contenta, Catinina?
Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.
Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio
calar pesantemente le palpebre sugli occhi.
–
Però la veste me la fate rossa, – aggiunse Catinina.
–
Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio. Perché ti
faremo una gran festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure
celeste.
A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella
veste non rossa già le cambiava l’idea, per lo scoramento
si lasciò piombare una mano in tasca e fece suonare le
bilie.
Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti
confetti; a sentir questo Catinina passò sopra alla veste
non rossa e disse di sì tutto. Anche se quei confetti
non finivano in bocca a lei.
Si sposarono alla vicaria di Murazzano, neanche un mese dopo.
Lo sposo dava alla vista meno anni dei suoi diciotto dichiarati,
aveva una corona di pustole sulla fronte, più schiena
che petto, e certi occhi grigi duretti.
Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio
e dopo vespro partirono. C’era tutto il paese a salutar
Catinina, e perfino i signori ai loro davanzali.
Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da
andare fino a Savona a caricar stracci, che era il suo commercio,
e ne approfittava per fare il viaggio di nozze con Catinina.
Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di
lassù tutta quella gente che rideva, ma le levò quel
groppo un cartoccio di mentini che le offrì una donna
anche lei della razza dei mezzi zingari.
Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento
di quei bastardini che fino a ieri giocavano alle bilie con la
sposa. Quantunque lo sposo non tardasse a girare la frusta.
Viaggiavano sulla pedaggera e ne avevano già ben macinata
di ghiaia, e Catinina non aveva ancora aperto la bocca se non
per infilarci quei mentini uno dopo succhiato l’altro,
e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.
Ma passato Montezemolo lo sposo si voltò e le disse: – Voi
adesso la smettete di mangiare quei gommini verdi –, e
Catinina smise, ma principalmente per lo stupore che lo sposo
le aveva dato del voi.
Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza,
di rotondità e giallore, navigava nel cielo caldo a filo
del greppo della langa, come li volesse accompagnare fino in
Liguria.
Catinina toccò il suo sposo e gli disse: – Guarda
solo un momento che luna.
Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: – Voi
avete a darmi del voi, come io lo do a voi!
Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente
che il listello di legno l’aveva tutta indolorita dietro,
dopo ore che ci stava seduta. E allora lui parlò con una
voce buona, le disse che al ritorno sarebbe stata più comoda,
lui l’avrebbe aggiustata sugli stracci.
Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.
Lo sposo disse: – Quello lì davanti è il
mare, – che Catinina già ci aveva affogati gli occhi.
–
Che bestione, – diceva Catinina del mare, – che bestione!
Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche
prato sotto la strada del mare e sentiva d’un tratto sonagliere,
si arrampicava sempre sull’orlo della strada e da lì guardava
venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro bestie in
cammino verso il mare con grandi carichi di vino e di farine.
Qualche volta li vedeva anche al ritorno, coi carri adesso pieni
di vetri di Carcare e di Altare e di stoviglie d’Albisola,
e si appostava per fissare i carrettieri negli occhi, se ritenevano
l’immagine del mare.
Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le
calò una mano sulla spalla e si fece accompagnare a stallare
la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e poi
prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono
a trovare un parente di lui.
Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a
Catinina rincresceva il sangue del cuore distanziarsi dal mare
fino a non avercene nemmeno più una goccia sotto gli occhi.
Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo
vecchiotto ma ancora galante, e quando si vide alla porta i due
ragazzi sposati fece subito venire vino bianco e paste alla crema
ed anche dei vicini, ridicoli come lui.
Mangiarono, bevettero e cantarono. Catinina in quel buonumore
prese a snodarsi e a rider di gola e ad ammiccare come una donna
fatta, e teneva bene testa al parente galante ed ai suoi soci;
lo sposo le era uscito di mente ed anche dagli occhi, non lo
vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col bicchiere
sempre pieno posato in terra fra i due piedi.
Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente,
allora riempì di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro,
tanto Catinina non era ancora sviluppata.
Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle
con un’ombra di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con
le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente disse
o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare
a Murazzano. E sì che si sarebbe fermata un altro giorno
tanto volentieri per via di quel parente così ridicolo,
ma ora sapeva cosa le costava il buonumore, e poi il mare le
diceva molto meno.
Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere
sul molle e tornarono.
La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre
il primo di tutto il paese, uscito in strada a veder com’era
il cielo di quel nuovo giorno, trovò Catinina seduta sul
selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.
–
Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì,
a quest’ora della mattina?
Lei gli scrollò le spalle.
–
Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non
sei col tuo uomo?
–
Me no di sicuro!
–
Perché te no?
Allora Catinina alzò la voce. – Io non ci voglio
più stare con quello là che mi dà del voi!
–
Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme,
e per sempre. È la legge.
–
Che legge?
–
O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!
Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva
anche lei che scrollar le spalle non bastava più, e allora
disse: – Io non ci voglio più stare con quello là che
mi dà sempre del voi. E poi che casa mi ha preparata che
io c’entrassi da sposa? Una casa senza lume a petrolio
e senza il poggiolo!
L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse
piano al suo garzone: – Attento che non scappi, ma non
beneficiartene altrimenti il mestiere vai a impararlo da un’altra
parte, – e uscì.
Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catilina.
Col panettiere testimone, le promise il lume a petrolio per subito
e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.
Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche
il poggiolo, ma dopo un anno buono, che lei aveva già un
bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la donna
che per aver la grazie dei figli deve andarsi a sedere sulla
santa pietra alla Madonna del Deserto e pregare tanto.
Questo primo figlio, dei nove che ne comprò nella sua
stagione, l’addormentava alla meglio in una cesta e poi
subito correva sotto l’ala a giocare a tocco e spanna con
quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava
e strillava da farsi saltare tutte le vene, finché una
vicina si faceva sull’uscio e urlava a Catinina:
–
O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a
cunarlo, o mezza zingara!
–
Lasciatemi solo più giocare questa bilia!
(Tratto
dalla raccolta Un giorno di fuoco, Einaudi, Torino, 1988)
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