I RE-COMANDATI
José Cardoso
Pires
Il manovale se ne andava verso casa, quando apparve sulla porta
della taverna il calzolaio del quartiere, che lo chiamava
«
Vicino, ehi, vicino! Può mandare a prendere le sue scarpe,
che le ho finite proprio ora!»
«Lo faccio adesso», disse il manovale, che era rimasto subito contento
della novità. «Ma prima ci beviamo un bicchiere per festeggiare.»
«Si metta a sedere. Chieda pure, io vado un attimo in bottega a prendere
quanto mi aveva ordinato.»
Le scarpe non erano per lui, manovale. Le aveva fatte fare di cuoio buono, pelle
di vacca bella morbida, suole di pneumatico e cuciture ben resistenti, per un
suo figliastro.
«Le ho tagliate» spiegò il calzolaio, «con la stessa
facilità con la quale ho tagliato la forma di cartone. Né un nervo,
né una piega irregolare. Non mi è capitato niente sotto il coltello
che mi facesse dire: é un peccato, sciupa la pelle. E, caro vicino, non
c'è niente come le pieghe e le curvature del cuoio per far diventare brutto
un oggetto in pelle. Non solo brutto, ma lo rendono meno resistente, che è molto
più grave. Alla nostra salute, vicino.»
I. Il manovale portò a casa le scarpe nuove e le fece vedere
alla moglie.
«
Caro mio», disse lei, con aria preoccupata. «O io
mi sbaglio di grosso o hai calcolato davvero male le misure.
Come vuoi che cammini un bambino con questi diavolo di scarponi
enormi?»
«
Il ragazzo cresce, l'ho fatto apposta. Tra poco meno di un anno
gli vanno giuste.»
Mentre ammiravano le scarpe, arrivò l'ospite di casa.
Le guardò e diede anche lui il suo parere:
«
Sono proprio grandi. Ma meglio a crescenza che giuste. Comare,
ci metta delle solette di cartone, e vedrà come gli stanno
bene. Guarda guarda, fodera in pelle?»
«
Sì, sì, fodera in pelle,» confermò il
manovale. Sorrideva alla moglie e all'ospite, orgoglioso del
suo acquisto. Tutto della migliore qualità. Né un
nervo, né una piega a rovinare il cuoio, che è la
cosa più importante, perché le scarpe siano resistenti.
E le rifiniture, le ha viste? Guardi bene come sono stati dati
i punti.»
«
Hanno odore di nuovo,» disse dall'altra parte la donna. «A
molta gente dà fastidio, ma a me questo odore piace. Mi
fa pensare ai giorni di festa, non lo so…»
«
L'odore del cuoio, » dichiarò l'ospite, sottovoce.
E il padrone di casa: «Soprattutto del cuoio tagliato a
mano. Il cuoio di fabbrica è tutta un'altra cosa, non
ha quest'odore.»
Sebbene fossimo in Estate e in Estate fa scuro, come si sa, lentamente
e molto tardi, i due uomini e la donna non si erano ricordati
di accendere la luce. Forse non si erano accorti della notte
perché stavano tutti e tre in piedi, in una cantina che
dava direttamente sulla strada, mirando e rimirando due cose
pesanti e chiare, due volti che in realtà erano scarpe
ma che, con il morire del giorno, si erano trasformate da forme
in volti e da volti in semplici macchie.
E, naturalmente, quanto più l'oscurità avanzava, più gli
intenti abitatori della cantina avvicinavano le scarpe alla faccia per poterle
vedere, decifrare e discutere, fino a tuffarvisi dentro, ad andare fino in fondo
alla loro anima (come direbbe un ministro del culto), fino a non riconoscerle
neanche più come volti ma come due pezzi di odore – l'odore che
portavano con sé.
«
Si dica quel che vuole, ma ancora chi comanda è la qualità del
materiale, » commentavano fra loro, annusando le scarpe. « Una pelle
come questa, così morbida e regolare, la si può ingrassare come
tingere.»
«
Ingrassare? No, no, ingrassare no, assolutamente, compare. Nessuno prenderà come
garzone un ragazzo con le scarpe piene di grasso.»
«
Beh, mi dispiace comare. Con il grasso sarebbero durate di più.»
«
Bene…, »mormorò la voce del manovale, padrone di casa. « Se è vero
che il grasso fa durare la pelle più a lungo, è anche vero che
ci sono pelli che si conservano benissimo senza. Come questa, per esempio.»
«É
anche vero che dipende tutto da come è rifinita» disse la voce del
manovale ospite.
«
Proprio così. Un lavoro ben rifinito non ha bisogno di tinta, di grasso,
di niente. E non c'è dubbio che chi ha fatto queste scarpe le ha fatte
con cura.»
«
Il vostro Janico ha qui un bel paio di scarpe garantite a vita.»
«
Anche il calzolaio non si aspettava una cosa così. Mi ha detto lui stesso
che non ha trovato traccia di nervo in tutta la pelle. Nemmeno una piega, meglio
di così?»
«É
un caso raro. Là al paese, che è il nostro paese, ce la vedevamo
brutta per trovare della pelle che non avesse nodi.»
La donna, che si era seduta accanto al fornello, in fondo alla casa, disse che
infatti era per questo motivo che tutti, là al paese, aspettavano S. Bartolomeo
per calzare la famiglia. «Mi ricordo molto bene, contavamo le settimane
sulle dita delle mani e a volte le mani non bastavano. Per gli ornamenti e le
pelli la fiera di S. Bartolomeo era famosa.»
«
Era ed é,» completò la voce dell'ospite. «Ancora l'anno
scorso quando ci sono stato era tutto uguale. Lo stesso gregge, gli stessi arrosti,
lo stesso pellegrinaggio…»
«
Lo stesso odore?, » chiese la donna dal suo angolino. «Quando ero
piccola, riconoscevo quella fiera da lontano, dall'odore del cuoio.»
«
Il cuoio, comare, ha lo stesso odore da tutte le parti. É suola, sa di
pelle conciata.»
«
Le sembrerà a lei. Quando stavamo a guardare delle scarpe alla fiera di
S. Bartolomeo, non so, era diverso.»
Dal posto dove si trovava, la donna già non riusciva a distinguere le
scarpe o le due macchie che queste potevano essere, fluttuando fra i due uomini,
nell'oscurità. Un po' lontana, seduta vicino al fornello e con il ventaglio
in grembo, per lei le scarpe erano odore messo da parte, ricordo. Forse di più:
infanzia, ginestre in fiore, inverni rigidi.
«
Moglie,» le disse il marito. « Accendi la lampada e chiama il ragazzo.»
E lei, subito: «Janico, Janico!»
Gridò, ancora dentro casa, alzandosi di scatto, come chi si sveglia ricordandosi
un nome. Poi accese la lampada e venne in strada.
Si girò verso nord: «Janico!»
Si girò verso sud: «Janico!»
Si girò verso una vicina che tornava dalla fonte ed un ragazzotto che
passava piano piano, su una lambretta: « Avete visto il mio João?»
Mentre lo chiamava, il figlio le saltò fuori da sotto la gonna:
« Signora.»
Lo spedì a casa, e appena entrarono si trovarono davanti una tavola illuminata,
con le scarpe nuove ed un cestino per il pranzo. Il patrigno sedeva a un capo
e l'ospite all'altro.
«Stai attento,» esordì il padrone di casa parlando col piccolo
figliastro. «Domani mattina presto la tua mamma ti darà questo con
dentro il pranzo e queste scarpe, che dovrai mettere.»
« Le posso provare?»
«Non si interrompe chi parla,» lo riprese l'ospite, sottovoce.
« Mettiti queste scarpe,» continuò il patrigno, « ma,
occhio, non le sbucciare perché le dobbiamo tingere.» (Guardò l'ospite.) « O
darci il grasso, non ho ancora deciso. Comunque sia, vai con queste scarpe. Ti
prepari per bene, ti pettini quel ciuffo e prendi il primo tram della giornata,
verso gli Estoril. Mi segui? Te ne vai a cercare, fai attenzione, le spiagge
e i caffè che in questa stagione dell'anno sono pieni di bagnanti e di
borghesi.»
Davanti alla tavola armata di cestino e scarpe, madre e figlio ascoltavano le
parole del marito-patrigno. A differenza di quanto accadeva di solito, era un
discorso misurato parola per parola, e sia il padrone di casa, sia l'uomo che
lo accompagnava, avevano gli occhi puntati su Janico. Tutti e due, di guardia
alla tavola, davano le spalle alla notte.
Certamente la strada, là fuori, doveva essere piena di voci che tornavano
dal lavoro. Ma se era davvero così, non si sentivano, o invece si erano
zittite davanti a quel marito-patrigno di spalle alla notte. Diceva, lui:
« Dunque, ti fai tutti i caffè con terrazza sul mare, perché hanno
una clientela che dà le mance. Prima i caffè con terrazza sul mare,
hai capito bene? Rivolgiti più che altro ai grandi caffè, con belle
porte, perché lì, oltre alle mance, si può salire di grado.
Ma per salire bisogna avere giudizio e una buona presentazione. Dunque ragazzo,
ora tocca a te. Hai tutto quello che ti serve, anche la cedola con su scritta
la tua età, in caso ti ritenessero troppo piccolo, e se ti chiedono della
scuola, non dire mai che non hai la quinta elementare.»
A questo punto la donna si ricordò della cedola: « Che testa! Non
mi ricordo dove l'ho messa. L'hai messa da parte tu?»
«Comare,…» sussurrò l'ospite.
Il padrone di casa alzò la voce:
«Piacerebbe a molti,» disse quello, continuando, «piacerebbe
a molti che hanno fatto solo la quarta elementare saper leggere e contare come
te. Di questo non mi preoccupo. Poi c'è anche la questione dello stipendio,
ma dello stipendio,» (tornò a guardare l'ospite) «parleremo
dopo. É una questione che risolvo io. Mi sembra che, più o meno,
abbiamo detto tutto».
«Garante…, » ricordò l'altro uomo.
«Garante?»
«
Certo. Ci sono posti dove richiedono un garante.»
«
Se lo richiedono, ci penseremo. Ma per adesso il ragazzo sa quello che è importante
sapere. Deve avere giudizio, in quella testa. E non dimenticare ragazzo, i caffè con
terrazza sul mare prima di tutto. Non ti mettere a fare il furbo, e tanto meno
a parlare di scuola serale, che sarebbe una bella disgrazia. I padroni se ne
fregano della scuola degli altri. Prendono un garzone, ma, beninteso, lo vogliono
a disposizione a qualsiasi ora. Mi sono spiegato?
«
Sì, padrino.»
Allora il patrigno, padrone di casa, accese lentamente una sigaretta, si fece
una bella tirata, e squadrò il figliastro dalla testa ai piedi: « Dunque
sai perfettamente cosa devi fare, vero?»
Risposta del piccolo:
«
Sì, padrino.»
II. La mattina presto, ancora di notte, a dire il vero, il piccolo
Janico partì all'avventura. La mamma, in ciabatte e
con i capelli sciolti sulle spalle, lo accompagnò fino
alla fine della salita e questo lo fece molto contento, perché solo
una volta, una volta sola, lei lo aveva fatto per il marito-patrigno.
Sì, però con il suo uomo lei è andata
ancora più avanti, pensò il ragazzo. Lo ha accompagnato
per lo meno fino alla caserma di polizia e forse addirittura
fino alla stazione dei tram. Stazione dei tram?, chiese João
Janico a se stesso. Così lontano? Già lontano
da casa e dalla madre, portava con sé il ricordo della
cerimonia della salita notturna che aveva fatto con lei, verso
la città.
Da lì in poi viaggiò con gli operai, uguali a lui, in un tram di
sonno e campanelli. Attraversò l'oscurità e le ceneri della notte,
fino a che, di sorpresa, il sole venne a prenderlo in un grande viale, mentre
scivolava lungo una spiaggia deserta.
« Scusi, che posto è questo?»
Il controllore rispose che era Algés, dove i bagnanti sono poveri, la
maggior parte turisti della domenica.
« E ora, dove siamo?»
« Siamo a Cruz Quebrada, fine del mio viaggio e interruzione del tuo. Se
vuoi arrivare a Cascais o a una qualunque altra spiaggia nobile devi prendere
l'autobus o fartela a piedi. Né a sinistra, né a destra, sempre
dritto. Sempre che tu non prenda il treno, che è più sicuro e più preciso.
Scegli tu.»
«Scelgo il treno,» disse il ragazzo,
«Che biglietto?»
«Uno qualunque, basta che non sia per il rapido, perché è più caro.»
Il controllore gli diede una pacca sulla spalla:
«Vedo che sei furbo. Vai tranquillo, che non ti perdi.»
E andò. Cestino del pranzo in mano, stivali delle sette leghe, calzoni
lunghi e pettine in tasca, João Janico (Zampette di Lepre, Orecchie a
Punta) si vide trasportato sulla riva del mare e in un batter d'occhio si trovò in
mezzo ad un giardino, circondato da una miriade di negozi. Erano proprio i negozi
che lo aspettavano, solo che dovevano ancora aprire, a quell'ora del mattino.
Scoprì una porta illuminata, e bussò. Gli apparve una ragazzina,
molto bella e sdegnosa, avvolta in profumi e cristalli.
«Non ha bisogno di un ragazzo per le consegne?»
«Ragazzo? Questo è un salone di bellezza, prova alla porta accanto.
Passò ad una altra: nessuno. Poi a un'altra e ancora un'altra.
«Non ha bisogno di un ragazzo per le consegne?»
«Torna più tardi, il principale non è ancora arrivato.»
João Janico si mise ad aspettare, seduto nel giardino. Davanti a lui passavano
automobili luccicanti, corridori dalla bella figura, molto eleganti nel mattino;
e sul mare, sfiorate dal vento, le barche.
Si mise a contare le macchine. Decise che se fra le prime dieci ne fosse comparsa
una rossa significava che avrebbe trovato un lavoro entro la fine della mattinata.
Contò e perse. Ne contò altre dieci e vinse. Così non era
valido, se avesse fatto centro al primo tentativo, allora sì – arrivò a
questa conclusione.
Sapeva di aver puntato su un colore difficile, ma preferiva così, visto
che, sebbene fosse molto giovane, aveva già imparato che quanto più si
rischia nel mettere alla prova la sorte, tanto più sicuro è il
risultato. Scegliere, per esempio, una macchina nera non avrebbe necessitato
alcuna abilità, non la si sarebbe neanche potuta considerare una domanda
al destino. Magari la sorte si sarebbe anche offesa se avesse fatto il furbo
così, pensava Janico.
In questo gioco di colore e destino, aprirono i negozi e a poco a poco si affermò il
sole. Janico prese il pettine ed un pezzettino di specchio che portava con sé e
si sistemò i capelli.
« Un ragazzo per le commissioni, ne avete bisogno?»
E dai negozi rispondevano:
«Tutto al completo, piccolo.» Oppure: « Torna più tardi.» O
ancora: «Lascia il tuo nome, ti chiamiamo noi.»
A mezzogiorno aveva i piedi in fiamme, dentro i pesanti scarponi. La gola gli
bruciava per l'arsura, e siccome là c'erano solo strade asfaltate, sotto
il sole a picco, camminava con difficoltà, prigioniero del calore della
terra.
« Acqua, » sospirò. « Magari ci fosse qui una fontana.»
«La soluzione è facile, » lo consigliò una voce dentro
di lui. « Vai ai caffè sul lungomare, là non mancherà chi
ti disseti.»
E così fu. João Janico, sempre a calpestare calore e asfalto, arrivò ad
una pensione sulla riva del mare, dove cominciavano le baracchine e i ristoranti
dei bagnanti. Doveva chiedere dell'acqua o un lavoro?
Chiese dell'acqua, due bicchieri di fila. Poi domandò che strada fosse
quella, dove portasse e come si chiamasse.
« Strada dell'Estate e dei turisti, » gli risposero. « Salendo
su di là si arriva al Casinò e al gioco, scendendo si va a Lisbona.
Si chiama Marginal. Soddisfatto?»
Ringraziò ed uscì. Si sentiva così appesantito, ed anche
così consolato, che si tolse le scarpe. Il mare lo chiamava con la sua
frescura, la sua dolce solitudine, e il piccolo camminatore non riuscì a
resistere. Corse verso il mare, con le braccia aperte, alzando in aria il cestino
del pranzo e le scarpe: « Alè, alè, alè!». Gridava
e saltava attraversando la spiaggia bollente e si fermò soltanto quando
la spuma delle onde gli baciò i piedi, molto delicata. Allora il sollievo
fu tale che si sentì leggero, leggero, e molto lontano dal mondo, dalle
case e dalle persone. Era tutto luce e acqua che brillava; adesso sarebbe stato
difficile dimenticare quel mare e soprattutto il modo leale come lo aveva accolto.
Se avessi una barchetta vivrei qui per sempre, pensò.
Continuò a camminare lungo la spiaggia, sempre sulla sabbia bagnata, sempre
compagno del mare. Camminò, camminò, e dopo molto camminare si
sedette all'ombra di un alto muro. Scelse con cura dove sedersi, per evitare
che la fanghiglia o le alghe gli macchiassero i pantaloni. Subito dopo tirò fuori
il pranzo, che consisteva in pane, riso e due sarde. Mangiò.
Mentre mangiava si mise ad osservare il cestino del pranzo fabbricato dal patrigno
con sottili tavole piallate e angoli di lamiera battuta. Il cestino e i pantaloni
bagnati, nonostante li avesse arrotolati, gli facevano ricordare la famiglia
e i suoi obblighi di piccolo lavoratore, garzone o ragazzo per le consegne. Contava
sul tempo del pranzo per asciugarsi i pantaloni e sul pomeriggio per scovare
un padrone che lo ricevesse. Il pomeriggio, sì: aveva sempre sentito dire
che i padroni ricchi rimangono a letto fino a mezzogiorno e le spiagge con i
bagnanti erano laggiù, lontane, erano un brulicare di gente.
Intorno a lui saltavano le umili pulci di mare che, per il suo modo di vedere
le cose, erano animali molto misteriosi. Sembravano gamberetti di latte, o figli
da gamberetti appena usciti dall'uovo. Non gli sembrava impossibile che fosse
così, visto che nelle Avventure del Capitano Morgan le tartarughe venivano
a deporre le uova sulle spiagge deserte e come quelle tanti altri animali di
mare che cominciano dal niente e crescono molto col passare del tempo.Queste
pulci-pulcine potevano benissimo essere i gamberetti di domani, e i gamberetti,
a loro volta, forse erano scampi ancora di pochi giorni.
E gli scampi?, chiese. – Gli scampi, aragoste di pochi giorni.
E i granchi? – Granseole di pochi giorni.
E le acciughe? E i gattucci? – Sarde di pochi giorni, squali di pochi giorni.
E le balene? Ahi, sospirò. Le balene! Quelle sono vecchie, hanno città dentro
la pancia.Sono gli animali più grandi, sono gli animali più vecchi
che ci sono nel mare. Alcune quando muoiono rimangono in superficie e si trasformano
in isole dove le persone piantano palme e costruiscono capanne. Vero?, chiese
João Janico senza sapere se lo aveva letto o no da qualche parte.
Sistemò il cestino del pranzo e si preparò a partire. Se fosse
stato un vero operaio si sarebbe fumato la sua brava sigaretta e avrebbe schiacciato
un sonnellino. Ma era un garzone, e i garzoni si vogliono sempre a disposizione
dei padroni per qualsiasi cosa ci sia bisogno. Mi sono spiegato?, gli ricordò la
voce del patrigno.
III. João Janico, Zampette di Lepre, Orecchie a Punta, continuò il
suo viaggio fino ai caffè con terrazza sul mare e alle
cittadine dei bagnanti. Si fece tutte le porte principali,
in alcune gli dissero di tornare, in altre di lasciar perdere.
Si rivolse poi a locali più modesti, semplici taverne
di strada o botteghe con un unico proprietario: sempre la stessa
cosa. Non volevano nessuno, erano al completo
Deluso e, per di più, con i piedi logorati dalle scarpe, intraprese la
strada di casa. Si era allontanato dal mare e dalla ferrovia, nell'ansia di trovare
un padrone e del pane, e adesso, stanco morto, andava avanti a piccoli passi – passi
da vecchio e non da bambino – protetto dai muri e dalle cose. Ovviamente
fece una parte di strada a piedi scalzi, ma ogni volta che passava davanti a
un negozio temeva sempre di essere sorpreso in quello stato deplorevole. Con
grande sacrificio si infilava nuovamente quelle dannate scarpacce, a volte tirava
addirittura fuori il pezzo di specchio e si riavviava i capelli con il pettine.
Per tirarsi su contava i passi, diceva, mettiamo, «venti fino a quel lampione» e
una volta raggiunto ne stabiliva altri venti per poter poi riposare un poco.
Dopo ne indicava altrettanti e ancora altri e così via.
Camminando in questo modo, si ritrovò in una strada coperta di tigli,
tutta ricamata di bei palazzi antichi. Strada fresca e calma, senza negozi né movimento:
solo fiori e cancellate, e cameriere in divisa. Si fermò. Si lasciò scivolare
lungo una parete, fino a sedersi sul marciapiede. Si tolse le scarpe: erano calde
come due fornaci. Si tastò i piedi: erano tutti una bolla, tagliati dal
sudore. Domandava a se stesso per quanti anni avrebbe dovuto usare quelle scarpe
prima che gli andassero giuste, o per lo meno divenissero docili, e ne potesse
andare fiero. Le guardava senza rancore, solo un po' triste perché sebbene
delle sette leghe o anche di più, possedevano la seduzione delle cose
nuove. Si domandava anche se, per caso, non era abitudine dei padroni dotare
i garzoni di scarpe e se il giorno seguente, e il seguente, e il seguente, avrebbe
dovuto cercare lavoro allo stesso modo, sempre con quelle scarpe.
Sul far della sera, quando se ne stava ancora seduto in compagnia delle scarpe
ad accogliere la pace e il venticello che si levavano dal mare, comparvero dei
ragazzini a giocare al Re-Comandato. Il Re correva davanti agli altri e, qualunque
cosa facesse, i ragazzini che venivano dietro dovevano ripeterla esattamente
allo stesso modo.
« Re-Comandato… Uno!»
« Re-Comandato… Due!»
« Re-Comandato…Tre!»
Re-Uno saltò ed anche gli altri saltarono. Re-Uno strappò un rametto
di edera e ciascuno degli altri staccò il suo rametto. Re-Uno passò accanto
al ragazzo seduto e gli diede una botta con la mano sul cestino del pranzo.
Janico si alzò subito in piedi, contro il muro. In men che non si dica
si era infilato le scarpe e si era messo in guardia. Sapeva che, secondo le regole
del Re-Comandato ognuno di loro avrebbe dovuto dare la sua botta sul cestino
del pranzo e per questo aspettava, deciso, pronto a rispondere all'attacco. «Provateci,» li
minacciava.
Gli altri giravano largo, fingendo di giocare fra loro, ma continuavano a guardare
Janico con la coda dell'occhio. A poco a poco si avvicinavano, facevano delle
finte per studiare le sue reazioni e il ragazzo capì che a poco a poco
non avevano di lui più alcun timore. A volte venivano a corsa e quasi
riusciva a toccarli con la mano, ma Janico capiva bene che volevano solo farlo
allontanare dalla parete per circondarlo a loro piacimento. Volevano, pensò allora,
chiamarlo in campo aperto dove avrebbero potuto attaccarlo da ogni lato.
«Provateci, su…»
Re-Uno teneva d'occhio tutta la situazione. Quand'ecco che arriva uno più audace
degli altri, curva come una rondine radente al muro, e scappa. Janico cominciò a
muovere convulsamente le braccia per difendersi, ma in tutto quel muoversi inciampò nelle
scarpe, perse l'equilibrio e dall'altra parte arrivò subito un ragazzino
che gli diede uno spintone e zac!, botta sul cestino. Zac!, passò quello
dopo di lui; e zac!, ancora un altro. Quando torno in sé João Janico
se ne stava sdraiato sul marciapiede a piangere.
Una volta compiuta la missione che il loro gioco aveva richiesto, i re-comandati
sparirono dietro l'angolo, con grida di trionfo. «Ecco arriva re-comandato,
Uno… Ecco arriva re-comandato, Due…» e la strada dei tigli
tornò alla tranquillità. Ma, come disse quello, la curiosità è amica
della cattiva coscienza, e questo vale per i piccoli come per gli adulti, ragion
per cui di lì a poco i tre diavoletti stavano già tornando sui
loro passi. Trovarono João Janico in un mare di lacrime, che metteva a
posto le cose dentro al suo cestino. Non li guardò, né ne ebbe
timore, appena si lamentava, da solo:
«Coglioni, figli di puttana.»
Re-Uno, che veniva davanti agli altri, si avvicinò con le buone maniere:
«Ti si è rotto qualcosa?»
Continuava a mettere a posto le sue cose. Non rispose, e nemmeno lo insultò,
perché c'era nel capo di quei re-comandati una tranquillità speciale,
molto propria dei giocatori che rispettano le regole, per quanto dure esse siano,
e che subito dopo tornano ad essere persone tranquille, senza offese né rancori.
Arrivarono anche gli altri, tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi. Rifiutò.
Era offeso e, più che offeso, stanco.
I re-comandati allora si sedettero accanto a lui, sul marciapiede. Gli offrirono
una sigaretta che il ragazzo, beninteso, non accettò, girandosi dall'altra
parte. Pazienza, se la fumavano loro. E poi uno dopo l’altro, fra gli sbuffi
di fumo, si spiegarono. Cominciarono col dichiarare che stavano giocando ai re-comandati
e, come giusto, avevano compiuto il loro dovere di dare un colpo al suo cestino
del pranzo, nient'altro.
«Quando regni al Re-Comandato, non fai anche tu lo stesso?»
Janico, sguardo a terra, annuì con la testa: lo faceva. Stando così le
cose, il colpevole, se un colpevole c'era, era il capo, Re-Uno, che aveva scelto
il cestino del pranzo come prova del suo potere. Ma non era giusto prendersela
con lui per questo, perché nel Re-Comandato i buoni capi si riconoscono
dalle cose nuove che inventano e soprattutto per le difficili sfide che lanciano
alla propria corte. Il cattivo capo, il vigliacco, ordina solo di gridare o cose
simili; a questo gli era venuto in mente il cestino, che ci si poteva fare?
« Giuro su mia madre che non credevo che saresti caduto,» disse uno
dei ragazzini.
«E io? L'ho toccato appena,» disse un altro.
E Janico, tristemente:
«Lo so bene, sono state le scarpe.»
Una parola tira l'altra, e dopo poco già andavano d’accordo, parlando
di combattimenti e ragazze. Soprattutto di ragazze nelle vacanze estive che è la
stagione in cui quelle lì impazziscono per il caldo. «In questa
stagione,» raccontò il Re-Uno, «il mio fratello più grande
dice che qui accadono cose che non succedono nel resto del mondo.»
Janico, tristemente, disse di sì con la testa.
«Quanti anni ha tuo fratello?, » domandò, sotto voce.
«Mio fratello? Ventuno.»
«Diciotto,» lo corresse un altro re-comandato. «Ventuno ne
ha mio cugino, che ha già fatto il militare.»
Accade che, chiacchierando e passandosi sigarette sotto i tigli non se ne sarebbero
più andati, se il ragazzo non si fosse ricordato della madre e del patrigno,
e del viaggio che doveva fare, fino a casa. Allora si alzò. Gli altri
lo accompagnarono fino al treno, che era molto più vicino di quanto pensasse,
facendo quella strada. La cosa peggiore era che, anche se vicino, i piedi di
Janico non ce la facevano più, gli bruciavano.
«Le scarpe,» spiegava. «Queste maledette scarpe.»
«Te ne devi liberare, amico. Uno che va in giro con delle barche così non
vale un bel niente.»
Il ragazzo scuoteva la testa, in silenzio. Dentro di sé era d'accordo
con quanto sentiva, ma non aveva abbastanza coraggio per rivelare le ragione
per la quale doveva continuare a farsi torturare così. Piano piano, con
grande sforzo, vinse traverse ombrose con lampioni che dondolavano fra i rami
degli alberi e all'improvviso sbucarono in un parco illuminato.
«Conosco questo giardino,» disse fra sé e sé, cosa
molto naturale del resto, visto che si trattava del posto dove era stato proprio
quella mattina. Intravedeva già la strada che correva lungo la costa,
e si sentiva circondato dalla gente e dai negozi importanti in una allegria di
luce. Solo che camminava a testa bassa. Attraversava l'estate e le notte profumata,
tra tre re-comandati e camminava a testa bassa, senza voce.
Quando salì sul treno si tolse subito le scarpe, ma il controllore non
lo permise. «Proibito,» disse. Obbedì e si girò verso
il finestrino, attraverso il quale cominciavano a sfilare marciapiedi e notte,
notte e case, notte e mare. Ma, girato verso il finestrino, non era questo che
vedeva, non era il mondo in viaggio che la sua vista incontrava . Vedeva solo,
specchiato nel vetro, il suo volto che lo guardava con grande serietà.
E lo guardava, e lo guardava.
«Janico, re-comandato,» disse sotto voce a quel volto. «João
Janico,» ripeté con voce dolce. E gli sorrise.
(Il
racconto I re-comandati [titolo originale Os reis-mandados],
scritto nel Gennaio 1960, è tratto dalla raccolta O
burro em-pé, 1º ed. Moraes Editores, Lisboa, 1979,
2º ed. Publicações Dom Quixote, Lisboa,
1999. È stato tradotto per Sagarana da Clélia
Bettini.)
José Cardoso
Pires
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