IL CANE RANDAGIO
Sadeg Hedaiat
La
piazza di Varamin era formata da alcune bottegucce tipo panificio,
macelleria, drogheria, due case del té e un salone da
barbiere. Tutte fatte solo per poter sfamare e per soddisfare
i primitivi bisogni della vita.
La piazza e i suoi abitanti, sotto il sole battente, mezzo
arrostiti e mezzo bruciati, erano in attesa delle prime brezze
serali e delle ombre della notte. Gli uomini, le botteghe,
gli alberi e gli animali, tutti avevano smesso di lavorare
e muoversi. Un'aria calda passava sopra le teste e sullo sfondo
azzurro del cielo la polvere ondeggiava addensandosi sempre
più per il via vai delle automobili. In un angolo della
piazza c'era un vecchio platano, che malgrado fosse svuotato
e marcito nel mezzo, aveva espanso con tenacia i suoi contorti
rami artritici, e all'ombra delle sue foglie polverose era
stato eretto un grande palco sul quale due ragazzini dalle
voci acute vendevano risolatte e semi di zucca. C'era poi un
denso e fangoso corso d'acqua che si trascinava con pesantezza
nel fosso che passava davanti alla casa del té. L'unico
palazzo che si notava era la famosa torre di Varamin, di cui
erano visibili la metà del tronco cilindrico striato
dalle crepe e la punta conica, e tra le fessure dei suoi mattoni
rotti avevano fatto il nido i passeri, anche loro silenziosi
e assopiti per il caldo. Il silenzio era rotto solo, a piccoli
tratti, dal gemito di un cane. Era un cane scozzese dal muso
color paglia, con delle macchie sulle zampe come se avesse
corso nel fango e gli fossero rimasti gli schizzi di melma.
Aveva le orecchie aguzze, la coda lucida, i peli ondulati e
sudici e due occhi intelligenti che brillavano nel muso peloso.
Al fondo di quegli occhi, celato dalla notte che veniva sommergendo
la vita, c'era qualcosa di umano, vi ondeggiava qualcosa di
infinito, un messaggio che non si poteva percepire, ma era
lì, impigliato dietro le pupille. Non si trattava di
una luce o di un colore, ma di qualcosa di indefinibile, come
quello che si coglie negli occhi di una gazzella ferita. Non
esisteva solo una certa somiglianza fra i suoi occhi e quelli
umani, ma una perfetta parità. Due occhi castani pieni
di un'attesa e di un dolore quali si possono vedere solo nello
sguardo di un cane randagio. Ma nessuno sembrava che notasse
o che capisse quell'espressione dolorosa e supplichevole. Davanti
al panificio il fattorino lo picchiava, davanti alla macelleria
il garzone gli tirava le pietre, se si rifugiava all'ombra
di una macchina lo accoglieva il calcio pesante dell'autista
dalle scarpe chiodate, e quando tutti si stancavano di maltrattarlo,
era la volta del ragazzo venditore di risolatte che godeva
particolarmente a torturarlo. Dopo ogni lamento, veniva colpito
da un sasso e da una risata interrotta da insulti: "Maledetto
cane di un infedele!". Anche gli altri sembravano complici
del ragazzo e lo incoraggiavano subdolamente, ridacchiando
sotto i baffi alla vista di quella scena. Ma tutti gli davano
addosso solo per "amor di Dio" e sembrava loro più che
normale torturare, per ottenere la grazia, quello schifo di
cane che era stato maledetto dalla religione e aveva settanta
vite.
Intanto, il ragazzo venditore era talmente determinato nell'infastidirlo,
che l'animale fu costretto a fuggire in un vicolo che portava
verso la torre, trascinandosi sfinito, con la pancia vuota,
e rifugiandosi in un fossato. Lasciò cadere la testa
sulle zampe tirando fuori la lingua e in uno stato di dormiveglia
fissò la verde campagna davanti a sé. Era stanco
e aveva tutti i muscoli indolenziti, ma con l'aria umida del
fossato si sentì penetrare in tutto il corpo un particolare
senso di rilassamento. I diversi odori, mescolati insieme,
gli risvegliavano nelle narici lontani e confusi ricordi: l'erba
moribonda, una vecchia scarpa inumidita, odore degli oggetti
morti e di quelli vivi. Ogni volta che osservava un prato una
voglia istintiva e ricordi del passato si risvegliavano in
lui, ma questa volta il richiamo era talmente forte che gli
sembrava di sentire davvero nell'orecchio una voce che lo invitasse
a correre saltellando. Era un desiderio ereditario, perché i
suoi antenati, in Scozia, nei prati erano cresciuti liberamente,
ma il suo corpo debole non gli permetteva di compiere neanche
il più piccolo sforzo. Provava un misto di dolore, debolezza,
languore. Una manciata di sensazioni dimenticate e perdute
si accendevano di nuovo in lui. In passato aveva avuto precisi
doveri, e diritti: presentarsi al richiamo del suo padrone,
difendere la casa dalle persone o dai cani estranei, giocare
con il figlio del padrone, aveva saputo come comportarsi con
le persone familiari come con gli estranei, mangiare a una
determinata ora o quando chiedere carezze. Ma ora ne era stato
distolto. Tutta la sua attenzione ora era dedicata a procurarsi,
con timore, qualcosa da mangiare in qualche pattumiera, ad
essere picchiato e a lamentarsi tutto il giorno. Questo era
il suo unico mezzo di difesa. In passato era stato coraggioso,
pulito e vivace. Ma ora diventato fifone e pigliasberle, tremava
ad ogni rumore che sentiva, ad ogni movimento, aveva paura
persino della propria voce. Era ormai abituato al sudiciume
e alla spazzatura. Gli prudeva il corpo ma non aveva nemmeno
voglia di levarsi le zecche o darsi una bella leccata. Si sentiva
di appartenere ormai all'immondizia. Qualcosa in lui era morto,
era spento. Da quando era caduto in quell'inferno sperduto
erano passati due inverni, e non aveva mangiato una sola volta
a sazietà. Non aveva mai avuto un sonno tranquillo.
Tutti gli istinti e i desideri sessuali gli si erano assopiti.
Nessuno gli aveva mai fatto una carezza, l'aveva guardato negli
occhi. Malgrado questi uomini sembrassero assomigliare tanto
al suo padrone, c'era un'enorme distanza fra i sentimenti,
il comportamento e il carattere di lui e quelli di questa gente.
Come se gli uomini del passato fossero molto più vicini
al suo mondo e capissero meglio il suo dolore e il suo sentire,
e lo proteggessero.
Fra gli odori che gli accarezzavano le narici più di
tutti lo inebriava quello del risolatte del ragazzo: quel fluido
bianco che somigliava così tanto al latte di sua madre
rinverdiva nella sua mente ricordi d'infanzia. D'improvviso
si sentì scivolare in un dolce torpore. Si immaginò un
cucciolo che succhiava dai capezzoli di sua madre quel flusso
caldo e nutriente mentre la lingua morbida e forte di lei gli
leccava e puliva tutto il corpo. Sentiva già l'intenso
odore dell'abbraccio della madre e del fratellino. Appena sazio,
avvertiva il proprio corpo acquietarsi, un tepore fluido gli
scorreva nelle vene, la testa appesantita si staccava dal cappezzolo
e poi scivolava in un sonno profondo, scosso a tratti da sussulti
di piacere. Quale voluttà superava quella che provava
quando, premendo le mammelle della madre con le sue piccole
zampe, il latte schizzava senza difficoltà o ostacoli.
Il corpo lanuginoso del fratellino, la voce della madre, tutto
era così piacevole, carezzevole. Si ricordò della
sua cassetta di legno e dei giochi che faceva col fratellino
in quel giardino verde: gli mordicchiava le orecchie aguzze,
si rotolavano per terra per poi alzarsi e rincorrersi. Più in
là aveva trovato nel figlio del suo padrone un altro
compagno di giochi, e in fondo al giardino lo rincorreva, gli
abbaiava e tirava con i denti il suo vestitino. Non che avesse
dimenticato le carezze del suo padrone e le zollette di zucchero
che aveva mangiato dalle sue mani, ma aveva voluto sempre più bene
al figlio perché era il suo compagno di giochi e non
lo puniva mai. Poi aveva perduto d'improvviso le tracce della
madre e del fratello. Gli erano rimasti solo il padrone, sua
moglie, il figlio e un vecchio maggiordomo. Come distingueva
bene l'odore di ciascuno di loro e come riconosceva il rumore
dei loro passi! All'ora dei pasti girava intorno alla tavola
e annusava i cibi. A volte la moglie del padrone, benché contrariasse
il marito, gli prendeva con tanto affetto un boccone, poi arrivava
il vecchio maggiordomo e lo chiamava: "Pat! Pat!",
e metteva il suo pasto in una ciotola accanto alla sua casetta
di legno. Fu la pubertà la causa della sua disgrazia,
perché il suo padrone non lo lasciava uscire e andare
dietro alle femmine. Finché un giorno d'autunno il suo
padrone e altre due persone, che erano spesso a casa loro e
dunque Pat conosceva bene, presero l'automobile e chiamarono
anche lui per una gita. Pat aveva già viaggiato altre
volte in auto col padrone, ma quel giorno era come inebriato,
subiva una particolare emozione. Dopo qualche ora scesero proprio
in quella piazza e passarono da quello stesso vicolo che portava
alla torre. Ma tutto d'un tratto Pat avvertì nell'aria
l'odore di una cagna, si sentì impazzire per quel vago
profumo, quel richiamo della sua specie che aveva sempre cercato.
Si mise a seguirne le tracce annusando a tratti e infine spuntò,
attraverso un fossato, in un giardino.
Era quasi il tramonto quando Pat avvertì la voce del
suo padrone chiamare: "Pat! Pat!". Ma era veramente
il padrone o soltanto un'eco che gli risuonava nell'orecchio?
Quella voce esercitava una strana influenza su di lui perché gli
ricordava tutti i suoi doveri, gli impegni e le gratitudini
verso il padrone, ma esisteva una forza ancora maggiore che
lo faceva restare con la cagna e lo rendeva sordo ai rumori
del mondo. Si erano destate in lui forti sensazioni e l'odore
della sua femmina era così intenso da fargli girare
la testa. I muscoli, il corpo, i sensi non gli ubbidivano più e
aveva perso completamente il controllo di sé. Era in
questo stato quando sussultò per l'improvviso piovergli
addosso di colpi di bastone e manico di vanga: fu scacciato
dal giardino attraverso lo stesso fossato.
Appena si riprese, Pat, stordito, confuso, stanco ma leggero
e soddisfatto, cominciò a cercare il padrone; ne era
rimasto soltanto un leggero odore nei vicoli. Cercò dappertutto
lasciandosi dietro tracce a distanze determinate. Arrivò fino
alle rovine fuori del paese ma ritornò indietro perché aveva
capito che il suo padrone era di nuovo in piazza; una volta
raggiunta la piazza quel leggero odore si perdeva negli altri.
Veramente il suo padrone era andato via e l'aveva dimenticato
là? Ebbe paura e provò una strana angoscia voluttuosa.
Come poteva vivere senza il suo padrone, senza il suo dio,
perché il padrone per lui era come un dio, ma allo stesso
tempo era certo che lui lo avrebbe cercato. Spinto dalla paura
riprese a correre per le vie ma tutto fu inutile, del padrone
nessuna traccia. La notte lo trovò, fiacco e sfinito,
di nuovo in piazza.
Ricominciò a gironzolare nei vicoli del paese e finì davanti
a quel fossato dal quale si era introdotto nel giardino, ma
era stato ostruito con i sassi. Si mise a scavare furiosamente
nella terra per aprirsi una via d'accesso al giardino ma presto
capì che era impossibile e deluso si mise a sonnecchiare.
Era mezzanotte quando si svegliò di soprassalto per
i suoi stessi lamenti. Balzò in piedi impaurito e riprese
il suo girovagare nei vicoli annusando i muri. Quando sentì la
fame farsi sempre più acuta fece ritorno alla piazza
dalla quale giungevano i diversi profumi dei cibi: l'odore
della carne avanzata, il profumo del pane fresco e dello yogurt,
tutti mescolati insieme. Ma Pat, intanto, si sentiva un intruso
nella proprietà altrui, doveva chiedere elemosine a
questa gente che somigliava tanto al suo padrone e forse, se
non fosse spuntato qualche rivale a cacciarlo via, piano piano
avrebbe potuto conquistarsi il diritto a quel territorio e
chissà, uno tra questi esseri che aveva il cibo per
le mani, lo avrebbe preso con sé. Timoroso e con tanta
cautela avanzò verso il panificio che era stato aperto
da poco: il profumo buono della farina cotta riempiva l'aria.
Pat si sentì chiamare da un uomo con un pane sotto il
braccio: "Vieni...vieni!". Com'era strana quella
voce! Ma l'uomo gli gettò un pezzo di pane caldo. Pat,
dopo un pò di esitazione, divorò il pane e cominciò a
scondinzolare. L'uomo posò il pane sul bancone del negozio
e fece, con delicatezza, una carezza sulla testa di Pat e si
mise a levargli il collare. Ma appena mosse di nuovo la coda
e si avvicinò al padrone del negozio, fu colpito bruscamente
da un calcio sul fianco e si ritirò con un lamento.
L'uomo andò verso il fossato e si sciacquò meticolosamente
le mani. Ancora Pat riconosceva il proprio collare appeso davanti
al panificio! Da quel giorno Pat da questa gente non aveva
ricevuto altro che calci, sassate, bastonate. Come se tutti
fossero suoi nemici giurati e godessero a torturarlo. Si era
reso conto di essere capitato in un mondo nuovo che non sentiva
come suo e non avrebbe mai potuto penetrargli dentro. I primi
giorni furono durissimi ma poi cominciò ad abituarsi.
Aveva scovato un posto, sulla destra svoltando da un vicolo,
dove buttavano la spazzatura e nel quale spesso si trovavano
pezzi deliziosi come ossa, lardo, pelle, teste di pesce e molte
altre cose che lui non sapeva identificare. Il resto della
giornata, poi, lo passava davanti al panificio e alla macelleria
a pigliarsi botte invece di cibo. Fu così che si adattò alla
sua nuova vita, mentre del passato non gli era rimasto altro
che il ricordo di alcuni odori e un pugno di sensazioni vaghe
e evanescenti. Ogni volta che se la passava male davvero trovava
in quel paradiso perduto una fuga, e si consolava lasciando
scorrere davanti agli occhi i ricordi di allora. Ma la cosa
che più di ogni altra lo faceva soffrire era il proprio
bisogno di essere accarezzato. Era come un bambino che avesse
preso solo scapellotti e insulti, ma in cui non si era spenta
la tenerezza dei sentimenti. In questa sua nuova vita, piena
di dolore e di sofferenza, sentiva più che mai il bisogno
di carezze, le elemosinava con gli occhi ed era pronto a dare
la vita in cambio di un pò di affetto e di una mano
carezzevole sulla testa. Lui stesso aveva bisogno di esprimere
il proprio amore e di dedicarsi a qualcuno, ma nessuno sembrava
volerlo capire. In tutti gli occhi non vedeva altro che odio
e cattiveria e qualunque cosa facesse per attirare l'attenzione
di queste persone sembrava invece incitare in loro ira e collera.
Nel fossato Pat, d'improvviso, si svegliò come da un
incubo. Aveva una fame nera, quella maledetta fame che fa dimenticare
tutto il resto. Nell'aria c'era profumo di carne allo spiedo.
Si alzò con difficoltà e si diresse prudentemente
verso la piazza. In quello stesso momento un'automobile rumorosa
avvolta da una nuvola di polvere entrò in piazza Varamin.
Ne scese un uomo che andrò dritto verso Pat e gli accarezzò la
testa. Ma non era il suo padrone, non poteva essere ingannato
perché conosceva bene il suo odore. Ma da dove era saltato
fuori qualcuno che lo accarezzasse? Mosse la coda e fissò l'uomo,
incerto. Forse volevano ingannarlo? Ma questa volta non aveva
nemmeno il collare. L'uomo si voltò e di nuovo gli fece
una carezza sulla testa. Pat cominciò a seguirlo, sempre
più sorpreso perché l'uomo entrò in una
casa che Pat conosceva bene e da dove veniva il profuno del
cibo. Si accucciò su una panchina accanto al muro. Gli
portarono pane caldo, yogurt, uova ed altre cose. L'uomo gli
gettava davanti pezzi di pane imbevuti di yogurt. Pat mangiava
frettolosamente e poi più lentamente quei bocconcini
e guardava grato l'uomo con i suoi occhi castani, languidi,
supplichevoli, e muoveva la coda. Era sogno o realtà?
Aveva mangiato a sazietà senza essere interrotto dalle
botte! Aveva trovato un nuovo padrone? L'uomo, malgrado il
caldo, si alzò e si diresse verso il vicolo che portava
alla torre e di là, dopo una sosta, continuò il
suo giro per i vicoli tortuosi insieme a Pat, che lo seguiva
dovunque. Finché giunsero fuori dal paese, ad un rudere
di cui era rimasto soltanto qualche brandello di muro, le stesse
rovine dove Pat una volta aveva rintracciato l'odore del suo
padrone. Forseanche gli uomini inseguono gli effluvi delle
loro femmine? Pat attese l'uomo all'ombra del muro e poi tornarono
in piazza attraverso un altro percorso. L'uomo fece ancora
una carezza a Pat e dopo un breve giro intorno alla piazza
andò a sedersi in una di quelle automobili che Pat conosceva
bene e su cui non si azzardava a salire. Vi si accucciò accanto
e guardò l'uomo. D'improvviso l'automobile si mise in
movimento in una nuvola di polvere. Pat, senza esitazione,
prese a corrergli dietro. Non poteva, no, non poteva perdere
quell'uomo. Ansimante e affannoso, e malgrado il dolore che
lo assaliva, correva con tutte le sue forze a grandi balzi.
L'automobile si era allontanata dal paese e attraversava l'aperta
campagna. Pat riuscì a raggiungerla due o tre volte
ma poi rimase di nuovo indietro. Aveva raccolto tutte le sue
forze per quella corsa disperata, ma l'automobile andava più forte
di lui. No, aveva sbagliato tutto! Oltre a non potere tenere
il passo con l'automobile, era esausto e avvertiva il languore
di stomaco. D'un trattò avvertì che i suoi muscoli
non gli ubbidivano più. Tutti i tentativi furono inutili.
Non sapeva più dove andava e perché avesse corso.
Non poteva proseguire né tornare indietro. Si fermò ansante,
con la lingua fuori, gli occhi annebbiati e la testa reclinata,
si ritirò con difficoltà dalla strada e distese
la pancia sulla sabbia calda e umida di un fossato che costeggiava
i campi. Il suo istinto impossibile da ingannare sentì che
di là non si sarebbe più mosso. Gli girava la
testa e pensieri e sensazioni si confondevano. Provava un forte
dolore alla pancia e il malore luccicava nei suoi occhi. Le
sue zampe, tra sussulti e convulsioni, si facevano mano a mano
più insensibili e si copriva di un sudore freddo: era
una frescura dolce e piacevole.
Era
quasi il tramonto e tre corvi affamati, che avevano sentito
l'odore di Pat, gli volavano sopra la testa. Uno di loro scese
con circospezione per guardarlo meglio: appena si fu accertato
che Pat non era ancora morto, volò via di nuovo. Quei
tre corvi erano lì per portargli via i due occhi castani.
(Traduzione
di Vida Bardyaz)
Sadeg
Hedaiat, vissuto
nella prima metà del 900 e morto suicida a Parigi, è considerato
il capostipite e il maggior esponente della moderna letteratura
contemporanea iraniana. Le sue opere costituiscono un punto
di svolta rispetto alla tradizione dei classici letterati
persiani, introducendo, sia nello stile che nelle tematiche
trattate, elementi rivoluzionari per la sua epoca. Fra le
sue opere, tradotte in parte anche in francese, sono da ricordare:
La civetta cieca, Tre gocce di sangue, Alavie Khanum.
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