LA RAGAZZA DEI MIEI SOGNI


Bernard Malamud

Dopo che Mitka ebbe bruciato in cortile il manoscritto del suo disgraziato romanzo sul fondo annerito della rugginosa pattumiera di Mrs Lutz, quantunque l’emotiva padrona di casa ricorresse a esche e piani d’ogni genere per costringerlo a farsi avanti, e lui potesse indovinare mentre se ne stava a letto, dai nuovi rumori sul pavimento e dal profumo penetrante, la presenza di una femmina senza legami in libertà nello stabile (mirabile possibilità d’un tempo), egli resisté a tutto e con un giro di chiave si chiuse prigioniero in camera sua, avventurandosi fuori solo dopo mezzanotte per rifornirsi di crackers, tè e, ogni tanto, un barattolo di frutta in conserva; e questo continuò per troppe sere perché si potesse contarle.
Nel tardo autunno, dopo un lungo anno e mezzo di andirivieni tra più di venti editori, il romanzo era tornato indietro definitivamente e lui l’aveva scaraventato dentro un bidone in cui ardevano le foglie d’autunno, rimestando il tutto con un lungo pezzo di tubo, per bruciare anche le pagine interne. Sopra di lui, dall’albero spoglio, pendevano alcune mele vizze simili a decorazioni natalizie dimenticate. Le faville, mentre attizzava il braciere, volarono verso le mele e quei frutti rinsecchiti rappresentarono non solo una creazione finita in niente (tre lunghi anni), ma tutte le sue speranze e le idee ambiziose che aveva trasferito nel libro e Mitka, pur non essendo un sentimentale, ebbe l’impressione d’aver scavato col fuoco (gli ci vollero due ore buone) un buco eterno dentro di sé.
Nel fuoco finì anche un fascio di svariati documenti (non avrebbe mai saputo spiegare perché li avesse conservati): copie di lettere ad agenti letterari con relative risposte; soprattutto, però, moduli di rifiuto stampati, con forse tre biglietti dattiloscritti da parte di direttrici editoriali, in cui si diceva che gli restituivano il manoscritto del romanzo per varie ragioni, ma soprattutto per via del suo simbolismo, dell’eccessiva oscurità. Solo una di queste signore gli aveva scritto di tornare a farsi vivo. Egli le maledisse e le stramaledisse, ma tutte le sue maledizioni non riuscirono a far accettare il suo libro. Tuttavia, per un anno, fino al giorno in cui gli fu restituito il vecchio manoscritto, Mitka lavorò a un nuovo libro. Ma rileggendo uno dopo l’altro i due lavori, egli vi scoprì lo stesso simbolismo, più oscuro che mai; e così buttò da parte anche il secondo libro. Certo, di quando in quando sgusciava dal letto per mettere alla prova della penna qualche nuova idea, ma le parole si rifiutavano di muoversi; per giunta aveva perso la fiducia che qualsiasi cosa lui dicesse potesse avere un significato, e se magari l’aveva, che lo si potesse trasmettere in tutta la sua verità e drammaticità al lettore di qualche casa editrice nel suo asettico ufficio agli ultimi piani di Madison Avenue; così per mesi non scrisse nulla – con grande dolore di Mrs Lutz – e giurò di non scrivere mai più, per quanto sentisse che il giuramento era senza valore, perché tanto non poteva scrivere, l’avesse giurato o no.

 

Così Mitka sedeva in solitudine, perfettamente immobile nella stanza sbiadita tappezzata di giallo, con le brutte riproduzioni a colori di Orozco che s’era comprate, e che mostravano contadini messicani curvi e sofferenti, attaccate con una puntina sopra la mensola scrostata del camino, e fissava con gli occhi arrossati le pantomime dei piccioni sul tetto della casa di fronte; oppure seguiva distrattamente il traffico – non la gente – nella via; bene o male dormiva moltissimo, faceva brutti sogni, certe volte orribili, e svegliandosi guardava a lungo il soffitto, che non rappresentava mai il cielo, neanche un cielo da neve quale lui poteva immaginare; porgeva l’orecchio alla musica se veniva da lontano, e ogni tanto cercava di leggere qualche opera storica o filosofica, ma chiudeva il libro con un colpo secco se gli accendeva la fantasia e gli faceva desiderare di scrivere. A volte si metteva in guardia: Mitka, questo deve finire, ma quelle ammonizioni non mutavano il suo modo di vivere. Divenne pallido e magro, e una volta, quando vertendosi si vide le cosce scarne, avrebbe pianto, se fosse stato uno che piangeva.
Ora, Mrs Lutz, scrittrice anche lei – pessima, ma sempre piena d’interesse per gli scrittori e pronta ad accoglierli in casa sua appena riusciva a pescarne uno (aveva un fiuto straordinario per questo: le bastava un interrogatorio preliminare) anche quando non se lo poteva permettere – Mrs Lutz sapeva tutto di Mitka e tentava quotidianamente qualche cura infruttuosa. Cercò di farlo scendere in cucina con vivaci descrizioni del pranzo: brodo fumante, Mitka, con pane bianco e fresco, gelatina di zampetto di vitello, riso al pomodoro, cuori di sedano, un delizioso petto di pollo – manzo se preferiva – e dolci appetitosissimi, a scelta; e anche con lunghi biglietti fatti scivolare sotto la sua porta in buste sigillate, che narravano di quando lei era bambina, e gli intimi particolari della sua vita infelice da quando aveva conosciuto Mr Lutz, e auspicavano per Mitka un destino migliore; oppure gli lasciava davanti alla porta libri d’ogni specie pescati nella sua vecchia biblioteca che lui non guardava mai, riviste con racconti contrassegnati da un “Tu puoi fare di meglio” e, quando arrivava, la sua copia, che dava prima a leggere a lui, del “Writer’s Journal”. Tutti questi tentativi essendo quel giorno falliti – la porta chiusa (Mitka muto), benché fosse rimasta un’ora nascosta in corridoio ad aspettare che si aprisse – Mrs Lutz cadde su un ginocchio cavallino e guardò dentro col suo occhio esperto in buchi della serratura: lui giaceva disteso sul letto.
– Mitka, – gemette lei, – come sei diventato magro... uno scheletro... da far paura. Vieni giù a mangiare.
Lui rimase immobile, e allora lei tentò con un’altra esca: – Ho qui le lenzuola pulite. lascia che ti cambi il letto e dia aria alla stanza.
Brontolando, lui le disse di levarsi dai piedi.
Mrs Lutz attese un momento. – C’è una nuova ospite nel tuo piano, una ragazza di nome Beatrice... una vera bellezza, Mitka, scrittrice anche lei.
Lui tacque ma, Mrs Lutz lo sapeva, aveva gli orecchi tesi.
– Direi che è una tenera ventunenne o ventiduenne, vitino di vespa, seni sodi, viso grazioso, e dovresti vedere le sue mutandine appese al filo... sembrano fiori.
– Che cosa scrive? chiese solennemente lui.
Mrs Lutz ebbe un po’ di tosse.
– Pubblicità, sembra, ma vorrebbe scrivere poesia.
Lui si girò dall’altra parte, senza una parola.
Lei si lasciò un vassoio in corridoio: una scodella di brodo caldo il cui odore lo fece quasi diventare matto, due lenzuola piegate, una federa, asciugamani di bucato, e una copia del “Globe” di quella mattina.

 

Quando ebbe vuotato la scodella e quasi masticato la biancheria, spalancò il “Globe” per avere la conferma che non si perdeva proprio nulla. I titoli gli dissero che aveva ragione. Stava per appallottolare il giornale e gettarlo fuori dalla finestra quando gli venne in mente “Il Globo Aperto” nella pagina degli editoriali, una rubrica che non guardava da anni. In passato aveva allungato la mano per prendere il giornale con cinque centesimi e dita tremanti, perché “Il Globo Aperto” era aperto al pubblico, a ogni scrittore in erba, e chiedeva la collaborazione dei lettori sotto forma di racconti a cinque dollari ogni mille parole. Benché ora ne odiasse anche il ricordo, era stata la sua ripetuta collaborazione alla rubrica – una dozzina di racconti in meno di sei mesi (s’era comprato un abito blu e un vaso di marmellata da un chilo) – a fargli iniziare il romanzo (requiescat); da quello era passato al secondo aborto, all’impotenza e all’odio feroce per se stesso. Bel Globo Aperto, davvero. Digrignò i denti, ma i buchi che aveva gli fecero male. Pure il non ingrato ricordo dei trionfi passati – i duecentocinquantamila potenziali lettori ogni volta che lo pubblicavano, tutti in una sola città, sì che ognuno sapeva quando c’era lui (gente che lo leggeva in autobus, ai tavoli dei ristoranti, sulle panchine del parco, mentre Mitka il Mago si celava qua e là, a osservare lacrime e sorrisi); e anche le lettere lusinghiere dei redattori delle case editrici, e le lettere degli ammiratori, da parte delle persone più inverosimili – lo riempì di nostalgia. Rievocando quei giorni, gettò un occhio momentaneamente inumidito sulla rubrica, e ciò fatto, lesse avidamente la colonna fino in fondo.
Il racconto fu un pugno allo stomaco. Questa ragazza, Madeleine Thorn, che scriveva il pezzo in prima persona – benché parlasse di sé soltanto qua e là, gli divenne subito viva, e la immaginò sui ventitré anni, snella ma ben fatta, il viso sferzato dall’intelligenza, non per nulla si chiamava Thorn1; – comunque, eccola là quel giorno, che correva su e giù per le scale in preda alla gioia e al terrore. Anche lei viveva in una pensione e lavorava al suo romanzo, brano a brano, la sera, dopo l’estenuante trantran del quotidiano lavoro di segretaria; pagina per pagina, ciascuna ordinatamente battuta a macchina e fatta scivolare nello scatolone sotto il letto. Proprio alla fine del libro, quando mancava l’ultimo capitolo alla prima stesura, una sera aveva tirato fuori lo scatolone e s’era sdraiata sul letto, per rileggerlo, per vedere se il libro era buono. Lo lasciò cadere sul pavimento, un foglio dopo l’altro, addormentandosi finalmente, col timore di non aver fatto centro, scoraggiata al pensiero di tutte le parti che avrebbe dovuto riscrivere (questo lo capì per gradi), quando la luce del sole risorto le fece aprire gli occhi e lei balzò su, accorgendosi d’aver dimenticato di caricare la sveglia. Con un movimento circolare della mano spinse il fogli dattiloscritti sotto il letto, si lavò, infilò un abito appena stirato, e si passò il pettine tra i capelli. Poi si precipitò giù per le scale e fuori di casa.
Al lavoro una giornata stranamente bella. Le tornò in mente il romanzo, tutto insieme, e lei prese mentalmente nota di ciò che avrebbe dovuto fare – non moltissimo, in verità – per renderlo quel libro decente che aveva sperato di scrivere. A casa, felice, con un mazzo di fiori in mano, per trovarsi davanti, al primo piano, la padrona di casa, impaziente e tutta un sorriso: indovina che cosa ti ho fatto oggi; descrivendo tendine nuove, intonate alla trapunta, nientemeno che un tappeto, per tenerti caldi i piedini, e sorpresa! la stanza pulita da cima a fondo e lucida come uno specchio. Oh mio Dio. La ragazza si lanciò per le scale. In camera, si buttò carponi e frugò sotto il letto: una scatola vuota. Di nuovo giù, come un razzo. Dove, o mia padrona, dove sono i fogli scritti a macchina che stavano sotto il mio letto? Parlando, si portò una mano alla gola. – Oh, quelli che ho trovato sul pavimento, tesoro? Credevo volessi disfartene e così li ho spazzati via –. Madeleine, dominando il tono della propria voce: – Sono forse nella spazzatura? Io... credo che non vengano a prenderla fino a giovedì. – No, amore, li ho bruciati stamattina nel barile. Il fumo mi ha fatto lacrimare gli occhi per un’ora intera –. Sipario. Con un gemito, Mitka crollò sul letto.

 

Era convinto che fosse tutto vero, per filo e per segno. Vedeva quella pazza gettare il manoscritto nel barile e attizzare il fuoco finché ogni pagina non fosse in fiamme. Gemette: anni di prezioso lavoro. Il racconto lo ossessionò. Voleva fuggire, lasciare la stanza e cancellare quel triste ricordo, ma dove sarebbe andato e che cosa avrebbe fatto senza un soldo in tasca? Così restò sul letto e, sveglio o addormentato che fosse, sognò il sogno ricorrente del barile che bruciava (in cui i loro libri si confondevano), soffrendo con la propria anche l’agonia della ragazza. Il barile, un simbolo che non aveva mai concepito prima, eruttava fiamme, sprizzava faville di parole, emetteva un fumo denso come l’olio. Diventava rosso e incandescente, giallo nauseante, nero – gonfio delle ceneri di ossa umane – facile indovinare di chi. Quando la sua immaginazione si acquietò, gli prese una gran pena per lei. L’ultimo capitolo: che ironia. Tutto il giorno desiderò lenire il suo dolore, esprimerle la sua simpatia con una parola o un gesto amorevole, rassicurarla che l’avrebbe scritto di nuovo, e meglio. Verso mezzanotte non poté più reggere ai propri pensieri, Infilò un foglio di carta nella portatile, girò il rullo e nello strano silenzio della casa batté a macchina un biglietto, indirizzato a lei presso il “Globe”, in cui esprimeva il proprio dolore – scrittore anche lui – ma non si dia per vinta, lo scriva un’altra volta. Sinceramente, Mitka. Trovò nel cassetto dello scrittoio una busta e un francobollo appiccicoso. Abbandonando ogni prudenza sgattaiolò fuori di casa e imbucò.
Se ne pentì subito. Aveva forse perso la testa? Va bene, le aveva scritto, ma se lei avesse risposto? Chi mai voleva, o cercava una relazione epistolare? A lui ne mancava la forza, ecco tutto. Per questo era stato contento che continuasse a non esserci posta, da quando aveva bruciato il suo libro, a novembre, e ormai s’era in febbraio. Pure, uscendo, mentre tutti dormivano, per procurarsi un po’ di cibo, con un fiammifero acceso in mano, e dicendosi che era ridicolo, sbirciò nella cassetta per le lettere. La sera dopo tastò con le dita nella fessura: vuota, ben gli stava. Che sciocchezza. Aveva quasi dimenticato la storia della ragazza; cioè, ci pensava ogni giorno di meno. Però se la ragazza per disgrazia avesse risposto, di solito la cassetta l’apriva Mrs Lutz, che portava su la posta personalmente: un’altra scusa per fargli perder tempo. L’indomani mattina udì il messo trasportare con leggerezza la propria mole massiccia su per le scale e capì che la ragazza aveva risposto. Calma, Mitka. Pur mettendosi in guardia contro il mondo di sogni in cui si trovava, il suo cuore prese a battere a precipizio mentre la vecchia scocciatrice bussava timidamente all’uscio. Non rispose. Gorgogliando: - Per te, Mitka, caro, – finalmente l’infilò sotto la porta: il suo passatempo preferito. Dopo aver atteso che se ne fosse andata per non darle la soddisfazione di sentirlo muoversi, balzò dal letto e lacerò la busta. Caro Mr Mitka (una calligrafia molto femminile), Grazie per i sensi della sua gentile simpatia, cordiali saluti, M. T.”. Tutto lì, niente indirizzo del mittente, niente di niente. Con un nitrito lasciò cadere la lettera nel cestino. Lanciò un nitrito più alto il giorno dopo: c’era un’altra epistola, la storia non era vera, aveva inventato tutto, parola per parola; ma la verità era che si sentiva sola: le avrebbe scritto ancora?

 

A Mitka nulla riusciva facile, ma alla fine le scrisse di nuovo. Aveva un sacco di tempo e null’altro da fare. Si giustificò dicendo che aveva risposto alla lettera perché lei si sentiva sola: va bene, perché si sentivano soli tutti e due. In ultima analisi, dovette riconoscere che scriveva una lettera perché non riusciva a scrivere altro e questo, benché lui non fosse un escapista, lo consolò un po’. Mitka sentiva che, pur avendo fatto voto di non cascarci mai più, lo animava la speranza che questa corrispondenza lo facesse tornare al suo libro abbandonato. (Sterile scrittore cerca la fine della sterilità tramite soddisfacenti rapporti epistolari con scrittrice). Era chiaro, dunque,, che con queste lettere stava cercando di porre fine all’odio che provava per se stesso perché non lavorava, perché non aveva idee, perché si vietava di averne. Ah, Mitka. Sospirò al pensiero di questa debolezza, di dover dipendere dagli altri. Eppure, anche se le sue lettere erano spesso aspre, provocatorie, persino sgarbate, le strappavano risposte calorose, ricettive, dolci, invitanti; e così non occorse molto tempo (chi può resistervi? si investì con amarezza) prima che Mitka portasse il colloquio sul tema del loro incontro. Vi accennò lui, e poi lei (con riluttanza) cedette, perché non era meglio, aveva chiesto, non mescolarvi la persona fisica?
L’incontro fu fissato per un lunedì sera nella biblioteca del quartiere vicino a dove lavorava lei: queste le sue preferenze di studiosa; se fosse dipeso da lui, avrebbe scelto la libertà d’un angolo di strada. Lei disse che si sarebbe messa una specie di foulard rosso. Ora Mitka cominciò a domandarsi intensamente che aspetto avesse. Le sue lettere la mostravano giudiziosa, modesta, sincera, ma il corpo umano? Pur gradendo che le proprie donne, tra le altre cose, fossero bellissime, pensò che lei non lo fosse. In parte per certi accenni fatti da lei, in parte per ciò che gli suggeriva l’intuito, L’immaginò abbastanza avvenente, sì, ma anche imponente. Ma che importava, purché fosse femminile, intelligente, coraggiosa? Al giorno d’oggi un uomo come lui aveva bisogno di qualcosa di speciale.
Fuori la sera marzolina era frizzante, ma racchiudeva il soffio della primavera. Mitka aprì le due finestre e si lasciò investire dall’aria fresca. Stava per uscire quando udì dei rapidi colpi all’uscio. – Telefono, – canterellò una voce femminile. Probabilmente Beatrice la pubblicitaria. Attese che se ne fosse andata, poi aprì la porta e andò nel corridoio per la sua prima telefonata dell’anno. Quando prese il ricevitore una riga luminosa si disegnò nell’angolo. La fissò, ma la porta si chiuse. Colpa della padrona di casa, era lei che l’aveva trasformato in una specie di fenomeno agli occhi dei pensionanti. “Il mio scrittore di sopra...”
– Mitka? – Era Madeleine.
– Sono io.
– Mitka, sai perché telefono?
– Come faccio a saperlo?
– Sono mezza ubriaca di vino.
– Serbalo per dopo.
– Perché ho paura.
– Paura di che?
– Mi piacciono tanto le tue lettere e non vorrei perderle. Dobbiamo proprio vederci?
– Sì, – sibilò lui.
– E se io non fossi come ti aspetti?
– Questo è affar mio.
Lei sospirò. – D’accordo allora...
– Ci sarai?
– Nessuna risposta.
– Per amor di Dio, non darmi questa delusione.
– Sì, Mitka –. E riagganciò.

 

Ragazza sensibile. Prese dal cassetto fino all’ultimo dollaro e lasciò in fretta la stanza, per correre in biblioteca prima che lei potesse cambiare idea e andarsene. Ma Mrs Lutz, in vestaglia di flanella, lo sorprese in fondo alle scale. I grigi capelli scarmigliati, la voce rotta. – Mitka, perché mi hai evitato per tanto tempo? Da mesi attendo una sola parola. Come puoi essere così crudele?
– Per favore –. La spinse da parte e si precipitò fuori. Quella pazza. L’aria balsamica spazzò via ogni amarezza, empiendogli la gola d’un singhiozzo. Camminava a passo svelto, vivo come non era più da molto tempo.
La biblioteca era un vecchio palazzo di pietra. Cercò nella circolante tra file di libri su pavimenti infossati, ma trovò solo la bibliotecaria che sbadigliava. La sala dei bambini era al buio. Nella sala di consultazione, una donna di mezza età sedeva tutta sola a un lungo tavolo, leggendo; sul tavolo c’era la sua voluminosa borsa della spesa. Mitka perlustrò la sala e stava girandosi per guardare altrove quando un’intuizione mostruosa gli fece aggricciare la pelle del cranio: quella era lei. La fissò incredulo, col cuore ridotto a uno strofinaccio. Lo prese la rabbia. Imponente lo era, sì, ma anche occhialuta, e meravigliosamente brutta; Cristo, non sapeva nemmeno distinguere i colori: il fazzoletto era d’un nauseante arancione sbiadito. Ah, terribile inganno: era mai stato un uomo così crudelmente gabbato?
Il suo primo impulso fu di scappare dove l’aria era più respirabile, ma lei lo tenne là inchiodato leggendo serenamente la pagina stampata (furba, lei, sapeva che la tigre era nella stanza). Se per una frazione di secondo avesse alzato lo sguardo con ciglia palpitanti lui se la sarebbe certo svignata come un razzo; invece teneva gli occhi incollati al libro e lo lasciava libero di nascondersi, se voleva. Questo lo rese ancora più furioso. Chi cercava la carità della vecchia? A lunghi passi Mitka (in preda allo scoramento più nero) si diresse verso il suo tavolo.
– Madeleine? – disse motteggiando il suo nome. (Scrittore mutila uccello in volo. Non basta ancora).
Lei alzò gli occhi con un sorriso timido e afflitto. – Mitka?
– In persona... – Cinicamente, s’inchinò.
– Madeleine è il nome di mia figlia, che ho preso a prestito per il mio racconto. Il realtà io mi chiamo Olga.
Al diavolo le sue bugie... Eppure domandò, pieno di speranza: – Ti ha mandata lei?
Lei sorrise tristemente. – No, sono proprio io. Siedi, Mitka.
Lui sedette, cupo in viso, nutrendo pensieri omicidi: farla a pezzi e incenerire i resti nel barile di Mrs Lutz.
– Presto chiuderanno – disse lei. Dove andiamo?
Lui rimase immobile, annichilito.
– Conosco una birreria dietro l’angolo dove possiamo rinfrescarci, – propose Olga.
Si abbottonò un cappotto beige sopra una giacca di lana grigia. Alla fine lui si alzò. Si alzò anche lei e lo seguì, tirandosi dietro la borsa della spesa giù per i gradini di pietra.
Quando furono in strada lui prese la borsa – sembrava piena di sassi – e si lasciò guidare, oltre l’angolo, nella birreria.
Lungo la parete opposta al logoro bancone correva una fila di bui separé. Olga ne cercò uno in fondo.
– Per avere un po’ di pace e di intimità.
Lui posò la borsa sul tavolo. – Che puzza, qua dentro.
Sedettero l’uno di fronte all’altra. Lui era sempre più depresso al pensiero di dover passare la serata con lei. Che ironia: murato per mesi in una tana di topi, e uscirne per questo. Adesso sarebbe tornato indietro e vi sarebbe seppellito per sempre.

 

Lei si tolse il cappotto. – Ti sarei piaciuta quand’ero giovane, Mitka. Avevo la figura di una silfide e una splendida capigliatura. Gli uomini non mi lasciavano mai in pace. Non ero quel che diresti un tipo sexy, ma avevo quel certo non so che.
Mitka distolse lo sguardo.
– Ero piena di brio e di entusiasmo. Amavo la vita. Sotto molti aspetti ero troppo ricca per il mio marito. Non poteva capire la mia natura e ciò l’indusse a lasciarmi: bada, con due bambini piccoli.
Vide che lui non le dava ascolto. Olga sospirò e scoppiò in lacrime.
Arrivò il cameriere.
– Una birra. Alla signora porti un whisky.
Usava due fazzoletti, uno per soffiarsi il naso, l’altro per asciugarsi gli occhi.
– Vedi, Mitka, te l’avevo detto.
La sua umiltà lo commosse. – Vedo –. Perché, stupido, non le aveva dato retta?
Lo fissò con occhi tristi e sorridenti. Senza occhiali era un po’ meglio.
– Sei esattamente come avevo immaginato, a parte la magrezza che mi sorprende.
Olga infilò una mano nella borsa della spesa e ne trasse diversi pacchetti. Li scartò, e vennero fuori pane, salsicce, aringhe, formaggio italiano, salame dolce, sottaceti e una grossa coscia di tacchino.
– A volte mi concedo questi piccoli lussi. Mangia, Mitka.
Un’altra padrona di casa. Mandate Mitka alla deriva e sedurrò subito la mamma di qualcuno. Mangiò, comunque, grato che lei gli avesse offerto un diversivo.
Il cameriere portò da bere. – Che cos’è questo, un picnic?
– Siamo scrittori, – spiegò Olga.
– Il principale sarà lusingato.
– Non badargli, Mitka. Mangia.
Mangiò, svogliatamente. Un uomo doveva pur vivere. Ma era proprio vivo, lui? Quando s’era sentito così giù? Probabilmente mai.
Olga centellinò il suo whisky. – Mangia, anche questo è un modo di esprimersi.
Lui si espresse facendo fuori il salame, oltre a mezza pagnotta, formaggio e un’aringa. Il suo appetito crebbe. Frugando nella borsa Olga portò alla luce un pacchetto di manzo sotto sale, affettato, e una pera matura. Lui si fece un panino con la carne. E dopo, la birra ghiacciata gli sembrò ottima.
– Come vanno i tuoi romanzi, Mitka?
Lui abbassò il bicchiere, ma poi cambiò idea e trangugiò il resto.
– Non ne parliamo.
– Devi cercare di stare allegro, non lasciarti demoralizzare. Lavora tutti i giorni.
Lui affondò i denti nella coscia di tacchino.
– È così che faccio io. Sono più di vent’anni che scrivo e certe volte, per una ragione o l’altra, mi va così male che mi passa la voglia di continuare. Ma allora non faccio altro che riposarmi un po’ e poi passo a un’altra storia. Quando la mia linfa si rimette a fluire torno alla prima e di solito la riprendo tranquillamente. Oppure, cetre volte, scopro che non merita tanta fatica. Quando avrai scritto quanto me troverai il sistema per tenerti allenato. Dipende della tua visione della vita. Se sei maturo scoprirai un tuo metodo di lavoro.
– Tutto quello che ho scritto è uno schifo, – sospirò lui, – scarabocchi, uno sgorbio.
– Troverai la tua strada, – disse Olga, – se solo continui a provare.

 

Rimasero là seduti un altro po’. Olga gli disse della sua infanzia e di quand’era ragazza. Avrebbe voluto parlare ancora, ma Mitka era irrequieto. Si chiedeva: e ora? Dove avrebbe trascinato quel gatto morto della propria anima?
Olga ripose gli avanzi nella borsa della spesa.
Quando furono in strada le chiese dove andava.
– A prendere l’autobus, immagino. Abito di là dal fiume con mio figlio, la sua acida moglie e la loro bambina.
Le prese la borsa – un carico alleggerito – e s’incamminò con quella in una mano e una sigaretta nell’altra, verso il capolinea dell’autobus.
– Vorrei che tu avessi conosciuto mia figlia, Mitka.
– E perché no? – chiese lui, pieno di speranza, meravigliandosi di non averla nominata prima, dato che l’aveva avuta per tutto quel tempo nel fondo della mente.
– Aveva una capigliatura fluente e la figura elegante d’una clessidra. La sua natura era senza confronti. L’avresti amata.
– Perché, è sposata?
– È morta a vent’anni... alla fonte della vita. In pratica tutti i miei racconti sono su di lei. Un giorno raccoglierò i migliori e vedrò se riesco a farli pubblicare.
Per poco lui non s’accasciò sul marciapiede, poi riprese il cammino con lasso vacillante. Per Madeleine quella sera era uscito dalla sua tana, per stringerla al suo cuore solitario, ma lei era andata in frantumi, una meteora all’incontrario, e s’era sparpagliata nel cielo lontano, mentre lui stava sotto a piangerne la morte.
Finalmente giunsero al capolinea e Mitka mise Olga sull’autobus.
– Ci vedremo ancora, Mitka?
– Meglio di no, – disse lui.
– Perché no?
– Mi rattrista.
Non scriverai nemmeno? Non saprai mai che cos’hanno voluto dire per me le tue lettere. Ero come una ragazza in attesa del postino.
– Chissà –. E Mitka scese dall’autobus.
Lei lo chiamò al finestrino. – Non preoccuparti per il tuo lavoro e prendi un po’ più d’aria. Irrobustisci il tuo corpo. La buona salute ti aiuterà a scrivere.
Il viso di Mitka non mostrava altro che pietà per lei, sua figlia, il mondo. Per tutti.
– Nei momenti difficili è il carattere quello che conta, naturalmente mischiato in giuste proporzioni col talento. Quando mi hai visto in biblioteca e sei rimasto ho pensato: ecco un uomo di carattere.
– Buonanotte, – disse Mitka.
– Buonanotte, mio caro. Scrivi presto.
S’appoggiò allo schienale mentre l’autobus abbandonava rombando il capolinea. Quando svoltò l’angolo lo salutò con la mano dal finestrino.
Mitka s’incamminò nella direzione opposta. Per qualche istante provò un senso di disagio, finché si rese conto di non sentire i morsi della fame. Con quello che aveva mangiato quella sera avrebbe potuto vivere una settimana. Mitka, il cammello.

 

Primavera. L’afferrò e lo strinse nel suo abbraccio. Pur lottando contro quell’intimità, era prigioniero della notte mentre si dirigeva verso la pensione di Mrs Lutz.
Pensò alla vecchia. Adesso sarebbe andato a casa e l’avrebbe drappeggiata da capo a piedi di veli bianchi. Sarebbero andati insieme su per le scale, saltellando, poi (da rigido monogamo) l’avrebbe presa in braccio per varcare la soglia, tenendola nel punto dove il grasso traboccava dal busto mentre ballavano il valzer nella sua stanza di scrittore.

 

1 Spino, rovo (N d. T).


(Tratto dalla raccolta Tutti i racconti, 1940 - 1962, Einaudi, Torino, 2001, traduzione di Vincenzo Mantovani. Il racconto La ragazza dei miei sogni è stato scritto nel 1953.)

Bernard Malamud nacque a Brooklyn nel 1914 da una famiglia di ebrei russi emigrati. Nel 1942 si laureò presso la Columbia University e di lì a poco, parallelamente al lavoro di insegnante che svolse per tutta la vita, cominciò a pubblicare le sue short stories dapprima su piccole riviste, poi su periodici più famosi. Ha pubblicato, tra altre, le raccolte di racconti Il barile magico (1964), Prima gli idioti (1966), La Venere di Urbino (1973), e i romanzi Il commesso, Una nuova vita, L’uomo di Kiev, Gli inquilini, Le vite di Dublin e Dio mio, grazie. Malamud morì nel 1986 lasciando Il popolo, il suo ultimo romanzo, incompiuto.

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