"IL
PADRE" DI HEINER MÜLLER
Frank
Hörnigk
Una
precoce immagine nel ricordo - una precoce esperienza della
colpa - cosí comincia il teatro di Heiner Müller.
Raccontava spesso quella storia, era una delle ossessioni
della sua vita, la catastrofe dovuta al proprio precoce
fallimento era esprimibile solo nella lingua della
letteratura, in quel
modo poteva almeno essere denominata, non superata, ma
in sé consentiva
di continuare a vivere.
Nel 1958 annotava la storia (secondo le sue stesse dichiarazioni)
per la prima volta. Il testo in prosa porta il titolo "Il
padre"; ecco il primo paragrafo:
"Il
15 gennaio del 1933 alle 4 del mattino, mio padre, funzionario
del Partito Socialdemocratico Tedesco, venne arrestato a letto.
Io mi svegliai, fuori dalla finestra il cielo nero, rumore
di voci e di passi. Nella stanza accanto venivano gettati per
terra dei libri. Udii la voce di mio padre, piú chiara
di quella degli estranei. Scesi dal letto e mi avvicinai alla
porta. Dal buco della serratura vidi un uomo che colpiva mio
padre sul viso. Quando la porta della mia stanza si aprí,
io giacevo sul letto e gelavo, con la coperta fino al ginocchio.
Sulla porta stava mio padre, dietro a lui gli estranei, alti,
con le uniformi brune. Erano in tre. Uno teneva la porta aperta
con la mano. Mio padre aveva la luce alle spalle, non potevo
vedere il suo viso. Lo sentii chiamare il mio nome a bassa
voce. Non risposi e continuai a giacere in silenzio. Quindi
mio padre disse: dorme. La porta venne chiusa. Sentii che lo
portavano via, e poi il passo breve di mia madre che tornava
sola."
Lo
shock tra il momento del risveglio e l'attimo del rinnego:
per il bambino quell'episodio resta traumatico, occupato dal
sentimento di paura per il padre, ma anche allo stesso tempo
con una sensazione di felicità assolutamente fuori luogo
ed eppure presente, quella di non venir prelevato lui stesso
e - dopo aver sentito i passi della madre che ritornava - di
non essere lasciato solo.
Nel suo testo della fine degli anni Cinquanta, Müller tenta
di scaricare da sé l'incubo del proprio fallimento, del
tradimento al padre, attraverso un'allegoria del tradimento compiuto
dal padre verso il figlio: la colpa del padre al momento del
suo arresto - quella di essere stato cosí debole, cosí piccolo
- di non essere un eroe della resistenza.
Il bambino soffre - senza che piú tardi l'adulto riesca
anche solo ad ammetterlo - la perdita di autorità come "trama
d'infanzia", una rivelazione che si riflette nella nostalgia
costante per una figura di autorità funzionante, sempre
promessa e in apparenza durevolmente presente: dapprima nel ruolo
di educatore forte, di capofamiglia - una posizione indubbiamente
patriarcale e paternale che si dissolve nel momento dell'umiliazione
da parte degli uomini - piú grossi, soverchianti - delle
SA che "lo arrestano a letto" e lo colpiscono: è la
percezione di un'impotenza, ma anche un'esperienza di potere
che va oltre la disgrazia privata nel segno della sconfitta politica
generale che si comincia a intravedere. In questo senso l'accentuazione
sulla carica pubblica del padre quale "funzionario del
Partito Socialdemocratico Tedesco" è ambivalente: da una
parte giustifica l'arresto ed esprime una posizione di coraggiosa
avversità al regime nazista, dall'altra si collega al
ricordo di questo episodio la consapevolezza della superiorità del
partito nazista su tutti gli altri: loro sono i piú forti.
L'immagine del padre nella sua inferiorità fisica come
un'allegoria della debolezza della Socialdemocrazia nel suo complesso;
il suo successivo "cambio di fronte" personale diventa
la conseguenza logica della sua resa nel momento della persecuzione
e dell'incipiente confronto aperto con il nazionalsocialismo.
Il tradimento personale degli ideali prosegue nella sua dimensione
storica piú generale anche dopo la guerra, tramutando
quasi in tal modo l'infantile paura e pusillanimità in
una precoce preveggenza:
"Nel
1951, per tenersi fuori dalla guerra delle classi, mio padre
se ne andò nel settore americano, passando per Potsdamer
Platz a Berlino... (...) trovò la sua pace, a distanza
di anni, in una cittadina del Baden, pagando pensioni ad assassini
di operai e a vedove di assassini di operai."
Il
non-detto tra le due frasi della citazione viene riempito da
una fantasmagoria sessual-vendicativa: nella camera da letto
dei genitori il figlio assume durante l'atto sessuale la posizione
dominante del padre: "Ci mettemmo in cammino in silenzio.
Sul viso della donna un sorriso rigido, mentre si spogliava
senza complicazioni accanto al letto matrimoniale dei miei
genitori. Dopo il coito le regalai sigarette o cioccolata.
Alla mia domanda piuttosto di circostanza: ci si vede di nuovo?,
lei rispose, se ve ne sarà desiderio, e poi fece quasi
un inchino davanti a me, ovvero nella posizione in cui riteneva
ancora mio padre."
Il padre di Heiner Müller, sindaco in carica, era appena
scappato a Berlino-Ovest: la sua posizione era rimasta vacante
e il figlio ora poteva assumerla. L'ostentativa separazione dal
padre e la sua destituzione come uomo riesce tuttavia solo in
apparenza: nella passività e sottomissione della donna
il protagonista compare nuovamente come Superpadre. Il figlio
vuole essere padre, ma è ancora solo un vicario.
Heiner Müller pubblicò la prosa "Il padre" solamente
nel 1977, in una versione ampliata da due intermezzi che - si
può dare per certo - furono aggiunti dopo il 1958. Le
due aggiunte compaiono in corsivo e non rientrano nella suddivisione
del testo in dieci segmenti. La conseguenza che se ne può trarre
dal punto di vista interpretativo non si deve sottovalutare.
Ai miei occhi le aggiunte segnano il passaggio da una notizia
autobiografica di facile interpretazione psicologica ad un testo
letterario e poetico, fittizio e artisticamente complesso. L'intermezzo
che apre il testo è il seguente:
"Un
padre morto sarebbe stato
forse un padre migliore. L'ideale
è un padre nato morto.
Sul confine cresce sempre nuova erba.
L'erba deve essere sempre strappata
di nuovo appena cresce sul confine."
Tra
il terzo e il quarto capitoletto compare invece il seguente
interludio:
"Avrei
voluto che mio padre fosse uno squalo
Che avesse sbranato quaranta balenieri
(E io avrei imparato a nuotare nel loro sangue)
Mia madre una balena azzurra il mio nome Lautréamont
Morto a Parigi nel 1871 sconosciuto"
Entrambi
i testi sono da intendersi come ritmi lirici liberi, o almeno
cosí possono essere letti. Sono cariche esplosive; solo
con essi il testo di Müller può essere consegnato
alla poesia, caricato da un anelito a un'esistenza alternativa
- una nostalgia di un'altra esistenza che nella tortura dell'esperienza
storica racchiude il ritorno all'esistenza, incluso l'anelito
a una propria non-esistenza. Dall'accusa al padre si passa
alla protesta contro il padre che affida al figlio un'eredità da
cui egli stesso ha preso congedo. Questo fardello della storia
appare sopportabile solo nella rigorosità di una posizione
che si profila possibile solo nella separazione, nell'atto
violento dello strappo. In questo senso non viene ripreso per
caso un passo da "Mauser" citato di continuo: "l'erba
ancora/ dobbiamo strapparla perché resti verde?",
come il prezzo e a un tempo l'unica/impossibile speranza della
rivoluzione. Colui che narra viene coinvolto con coerenza.
Lui stesso, il colpevole, emette il verdetto capitale. Quello
che resta è il sogno di un'esistenza completamente diversa,
tracciata ed ammirata nell'esistenza poetica di un Lautréamont
che va incontro alla propria autodissoluzione, suo fratello.
E schizzata anche nel desiderio di altri genitori, i quali
- in quanto predatori - avrebbero concepito un predatore, quel
che il figlio avrebbe voluto essere.
Appena qualche anno dopo, nel 1981, a colloquio con Sylvère
Lotringer, Heiner Müller richiama nuovamente il suo testo,
ampliandone il significato. Alla domanda, perché avesse
adottato il teatro come genere piú adatto alle proprie
esigenze, risponde: "... ciò avvenne per una serie
di situazioni e contraddizioni, nelle quali non si può sentire
né esprimere il fatto di essere un soggetto autonomo.
Se si è un oggetto della storia, occorrono altre figure
per discutere di questi problemi".
Una considerazione degna di nota, che subito dopo acquista concretezza
con la citazione dell'episodio dell'infanzia e la sua caratterizzazione
legata al processo teatrale - l'esplosione di un ricordo: "Ho
fatto finta di dormire. Si tratta in verità della prima
scena del mio teatro".
Il testo sul padre come metafora fondante del suo teatro, un
testo alla base di tutta una drammaturgia, niente di meno di
questo. L'ossessione di un ruolo sociale che diventa premessa
dell'attività letteraria, è immagine iniziale e
a un tempo temporanea immagine finale delle concezioni drammatiche
piú azzardate che Müller ci ha lasciato.
Nel 1992, nella sua autobiografia "Krieg ohne Schlacht" (Guerra
senza battaglia), l'autore afferma come il ricordo del padre
e specialmente la sua decisione dopo il 1945 sia stata per lui
una "macchia segreta", un'esperienza diventata ai suoi
occhi col passare del tempo sempre piú sospetta. Una revisione
di vecchie certezze? Alcuni particolari depongono verso quest'ipotesi
- e non a sfavore di Heiner Müller. È una tarda autoesperienza
(e anche un'"AUTOCRITICA") al di là del "POSSESSO
DELLA VERITÀ", forse anche un'apertura verso un altro
testo riscoperto da poco e pubblicato qui per la prima volta
- una testimonianza in cui il nome del bambino che era Heiner
Müller non ricorre esplicitamente, ma resta tuttavia nell'aria
perché cosí volle il padre. Il documento: Kurt
Müller, 16 Gennaio 1948. Oggetto: Resoconto dell'epoca del "rinnovamento
nazionale" - IL PADRE.
traduzione
di Antonello Piana
Frank
Hörnigk ha curato per l’editore
Suhrkamp un’edizione delle opere di Heiner Müller
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