L’ORTO DI UN PERDIGIORNO
Pia Pera
Non
so da dove mi venga l’impulso ostinato che mi porta all’orto
e al giardino, o meglio, all’orto/giardino, visto che
per me fanno tutt’uno. È cominciato tutto assai
prima che mi innamorassi di Fukuoka, radioso nel suo angolo
di paradiso terrestre. Ero ancora una bambina confinata in
un appartamento di città e provavo intenso il desiderio
di possedere quattro metri quadrati di terra tutti miei per
crescerci le mie piante, delimitare un confine inviolabile.
Finché i miei – nonni, genitori, zii, l’intera
famiglia allargata – non hanno deciso di trasferirsi
in una grande casa di campagna, circondata da un boschetto
di lecci e di tigli e affiancata da due poderi. I quattro metri
quadrati si sono dilatati in altrettanti ettari. Spaesata da
tanto spazio, mi aggiravo tra gli alberi, li visitavo uno per
uno. Lì è avvenuto anche il primo impatto con
l’orto, a dire il vero non dei più felici: mio
padre aveva deciso di coltivare degli ortaggi. Non resse a
lungo. Per alcuni mesi, tuttavia, sì intestardì su
un pezzo di terra situato dietro casa, accanto a una vecchia
cisterna delimitata da un basso muro ricoperto da quadroni
di cotto, non lontano da quello che era stato il pollaio. Ne
ricavò un campo intero di lattughe che non riuscimmo
a finire. Una volta, prima del trasloco, lo accompagnai. E
caddi in trappola: un pacchetto di sigarette ancora avvolto
nel cellophan che io, fumatrice undicenne alle prime armi,
aprii per un furto. Accesi la prima sigaretta dal lato del
filtro, rovinandola; mi toccò rubarne una seconda. Andai
a fumare nascosta tra i filari dell’uva. Poche boccate,
e odo una voce tonante simile a quella di Dio Padre quando,
nel giardino dell’Eden, chiamava Adamo che gli si nascondeva. “Pia!
Piiiaaaa! Dove sei!” Ero stata scoperta. Ricordo la mia
testa stretta nella morsa paterna. Dopo avermi così imprigionata,
mi guardò beffardo negli occhi. “Hai rubato le
sigarette! Hai fumato!” Inutile negare. Non dirò nulla
alla mamma a patto che mi aiuti nell’orto per sette anni
di seguito”. Questo il patto. Accettai. Non ricordo bene
cosa mi toccò poi fare – conservo un’immagine
di me con la falce frullana. A questo ricordo segue quello
del momento in cui, stanca della schiavitù, mi ribellai
e dissi a mio padre che poteva anche denunciarmi alla mamma,
non me ne importava niente, comunque io nell’orto non
avrei più lavorato. Così ebbe fine ogni mio interesse
per la vita nei campi. Per molti anni. Poi una delle due case
coloniche restò abbandonata. Il tetto cominciava a perdere,
sui muri si notavano le prime crepe provocate dalle infiltrazioni,
i campi inselvatichivano. Non era poi così bella, la
casa, nello stato in cui si trovava, eppure mi sgomentava l’idea
di lasciarla morire. Cominciai a occuparmene come di una via
di scampo alla città. A poco a poco, ha preso il sopravvento.
Avevo scoperto che i campi erano per me una grande tela su
cui dipingere, un quadro che avrei terminato solo al momento
della mia morte. Mi era impossibile giustificare questo cocciuto
desiderio di dipingere su quella tela a scapito di qualsiasi
altra attività, ma così era. Il podere esercitava
su di me un’attrazione che non sapevo spiegare.
Coi
lavori di ristrutturazione della casa quasi finiti, ho cominciato
a pensare alla terra. Ho chiesto a un amico, Massimo, di passare
per un consiglio. Massimo fa e sa un po’ di tutto: giudice
di pace, dopo avere chiuso per noia lo studio d’avvocato,
si è rifugiato con Giovanna nel remoto paese di Tereglio,
nella Valfegana. Ha un orto, una falegnameria, e una segreteria
telefonica che registra le proposte di chi vorrebbe affidargli
ristrutturazioni di case, mura mobili tinteggiature e tutto.
Avevo anch’io un consiglio da chiedergli, per la cucina.
Dopo andammo fuori. “Che ci fai, qui?” “Ma,
il giardino” avevo risposto indicando le macerie del
cantiere. la terra addirittura lucida nei punti dove era stata
maggiormente pestata. “Ne avrai di lavoro”. Preso
in mano un pugno di terra, lo aveva stretto per poi allentare
la presa. La terra era rimasta compatta, ma a premerla col
dito si era sbriciolata. “Questo è segno che è buona” mi
aveva spiegato, “ha tenuta ma poi si sgretola. Se non
formasse il grumo, sarebbe segno che è povera, sabbiosa,
priva di nutrimento. Se una volta stretta nel pugno rifiutasse
di sciogliersi, vorrebbe dire che c’è eccesso
d’argilla, che è troppo compatta e non lascerà respirare
le piante: quel tipo di terra che, quando è umida, si
attacca alle scarpe. Così com’è ha il giusto
equilibrio, è un terreno franco, di medio impasto, nutriente
e friabile. Ma dovrai lavorarci lo stesso” aveva aggiunto. “Il
letame. La composta. La pollina. Qualche sacco di torba per
alleggerirlo. Fa’ attenzione alle erbe che dicono la
qualità del terreno: il romice spia del calcio, l’equiseto
segno di drenaggio cattivo e ristagno d’acqua”.
Sono tanti i nomi, da perdercisi, da non contarsi le erbe sconosciute,
una folla.
(Brano
tratto dal libro L’orto di un perdigiorno – Confessioni
di un apprendista ortolano, Ponte Alle Grazie editrice, Milano,
2003)
Pia
Pera vive in un podere nella campagna lucchese.
Tra i suoi libri: La bellezza dell’asino; Diario
di Lo, uscito in numerose traduzioni straniere; L’arcipelago
do Longo maï, ha tradotto la Vita dell’Arciprete
Avvakum e Evgenij Onegin di Puškin.
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