BERLUSCONI

Paul Ginsborg

 

Da più parti dell’opinione pubblica europea liberale e radicale, particolarmente in Francia e in Germania, si è levato un coro di turbati interrogativi sulla valenza della vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche del 2001. I metodi che lo hanno portato al successo e la natura del suo progetto sono forse araldi di un nuovo e limitato modello di democrazia europea, la più ambiziosa delle tante risposte populiste ai malesseri del continente? E ancora, domanda ricorrente che può tuttavia suonare un po’ ingenua dal punto di vista storico: esistono paralleli tra il ruolo precursore dell’Italia degli anni ’20 e gli avvenimenti di oggi? Nel lontano 1974 Primo Levi scriveva che “Ogni tempo ha il suo fascismo”. E ammoniva: “A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine”.
Un’interpretazione simile contrasta con il pensiero della gran maggioranza dell’opinione istituzionale del paese, inclusa una parte significativa dell’opposizione parlamentare, secondo cui il rischio di trovarsi al cospetto di un regime in nuce sarebbe limitato. “Il manifesto” è ancora in edicola, nessuno mette in discussione il diritto di assemblea, pur nel sistema televisivo meno libero d’Europa si continua a fare satira anti-Berlusconi, e Rai 3 almeno trasmette telegiornali equilibrati. L’Italia, secondo questa prospettiva, si sta invece muovendo a fatica e con qualche accento melodrammatico in una precisa direzione: passare dal sistema rappresentativo proporzionale e da un governo debole a un indispensabile rafforzamento dell’esecutivo e all’alternanza di governo tra sinistra e destra. Se un rischio esiste, va individuato nell’incompetenza del governo attuale piuttosto che nella concentrazione di potere in mano sua. Un anno e mezzo fa Michele Salvati scriveva sulla “Repubblica”: “Non ho mai pensato (e non penso tuttora) che questo centrodestra costituisca “una minaccia per la democrazia”, se a questo termine si dà il significato che gli è proprio”. Vale la pena di chiedersi se abbia ragione.

Sfogliando i due volumi dei discorsi di Silvio Berlusconi del periodo 1994/2000 pubblicati prima delle ultime elezioni, colpiscono l’ampio spazio riservato al concetto di libertà, e l’esiguità dei riferimenti a quello di democrazia. La libertà che Berlusconi ha in mente è una libertà prevalentemente ‘negativa’, il classico affrancarsi dalle interferenze e dagli ostacoli. Gli individui devono essere posti in una condizione di libertà che consenta loro, per usare un’espressione mutuata dal Risorgimento, di “fare da sé”, di esprimere pienamente la propria individualità. L’economia e la società devono essere a loro volte liberate “da vincoli opprimenti, dal peso di burocrazie e procedure asfissianti, da una pressione fiscale cresciuta troppo e troppo in fretta”. La concorrenza aumenta tale libertà. “Ognuno deve essere libero di offrire i propri beni, i propri servizi, le proprie idee ai propri simili, i quali possono decidere liberamente se accettarli o rifiutarli. Ogni limitazione della concorrenza equivale quindi alla violazione della libertà e dei diritti di ciascuno”. Tutto ciò suonerà familiare a un pubblico angloamericano.
Alla libertà ‘positiva’, al contrario, interpretata qui come realizzazione individuale nel contesto di forme di controllo collettivo sulla vita quotidiana, viene dedicata scarsa attenzione. Secondo Berlusconi, il mercato, per funzionare, crea spontaneamente un’etica di operosità, analogamente ai principî morali di fedeltà e onestà. Di questi valori la sfera pubblica è inevitabilmente priva. Lo Stato, per quanto si sforzi, non riesce a inculcare valori attraverso le sue leggi. Anzi, ogni tentativo in questa direzione, o decisione tesa a limitare la libera concorrenza in nome della collettività, va guardato con sospetto. Dietro interventi di questo genere si cela sempre “l’interesse di certi ceti e gruppi particolari, dai quali chi ha il potere prende i voti”. Tutto ciò che per il leader di centrodestra esuli da uno “Stato ai minimi termini” rappresenta una potenziale minaccia alla persona dei cittadini: Non possiamo accettare che vogliano invadere la nostra vita, che pretendano di regolamentare tutte le nostre attività”.
Quanto alla democrazia, se Berlusconi le dedica una qualche attenzione, lo fa limitandosi a perorare elezioni regolari, e il diritto dei votanti a poter eleggere direttamente alcune cariche: il presidente del Consiglio dei ministri, i presidenti delle Regioni, e, idealmente, il presidente della Repubblica. La sua è una visione che si impernia sulla regolarità e sulla personalità. Circa la necessità di consultare l’elettorato il centrodestra insistette in particolare nel 1995, sentendosi defraudato dell’opportunità di verificare il consenso di un’opinione pubblica che sembrava dalla sua parte. Nessuna considerazione, e non c’è da sorprendersene, viene riservata al più ampio contesto culturale e di comunicazione in cui le elezioni hanno luogo, né al peso che può avere sui risultati il divario tra le risorse a disposizione dei singoli candidati. Analoga scarsa attenzione è prestata alle conseguenze positive dell’equilibrio dei poteri all’interno dello Stato democratico. L’autonomia del sistema giudiziario è oggetto di anatema.
La visione che Berlusconi ha della politica si basa quindi su un miscuglio erosivo di libertà negativa e di democrazia formale, personalizzata. La combinazione è erosiva perché la libertà negativa, non affrancata dalla sua controparte positiva, mette fatalmente a repentaglio lo sforzo di imporre il rispetto degli interessi collettivi. Essa nega a una determinata società la possibilità di intervenire in nome del bene comune e di stabilire dei limiti che costituiscano una base obbligata ai fini della realizzazione individuale. La libertà negativa, se non bilanciata, incoraggia piuttosto la nascita all’interno della società civile di individui dal potere sconfinato, restii a sottomettersi a uno stato di diritto notevolmente indebolito. Individui liberi, troppo liberi vien voglia di dire, di “fare da sé”.
Al contempo le regole della democrazia, limitate a questioni di regolarità e personalità, non contribuiscono affatto a garantire un terreno uniforme e imparziale su cui possano svolgersi le elezioni. Poche, se mai esistono, sono le restrizioni mirate a impedire che nuovi attori, emergenti dal terziario, e in particolare dal settore delle comunicazioni, usino le loro imponenti risorse economiche e mediatiche per influenzare pesantemente e, in qualche caso, minare la sfera pubblica democratica. La strada è aperta alla nascita di moderne figure patrimoniali e carismatiche.
Le realtà storiche che sottendono ad un processo simile sono, almeno fin qui, complesse e tutt’altro che lineari. Alcuni magnati dei media, incluso il più potente di tutti, Rupert Murdoch, hanno scelto di esercitare un’influenza politica indiretta. Sono chiaramente figure patrimoniali (Murdoch estende le sue ambizioni di proprietà e controllo a tutti i cinque i continenti) ma poco carismatiche. Bernard Tapie a Marsiglia e Michael Bloomberg a New York hanno entrambi usato la politica locale come base di potere. In Turchia Cem Uzan, fondatore della prima Tv via satellite del paese, la Star TV, ha tentato recentemente di affermarsi politicamente a livello nazionale, ottenendo il 7 per cento. Le traiettorie variano, al pari dell’efficacia dei limiti politici legali imposti alla libertà d’azione di questi soggetti. È più probabile che abbiano successo in contesti, quali l’Europa meridionale e il Sud America, in cui sulla società e la politica, persino nelle loro forme democratiche, pesa il retaggio di un sistema radicato di clientelismo. Ma la loro ascesa al potere e il loro influsso non si limitano a questi ambiti. (...)


(...) L. Diamond e M. Plattner, in The Global Divergence of Democracies suggeriscono un’immediata differenziazione tra democrazie elettorali e democrazie liberali. Per rientrare nel primo gruppo è sufficiente soddisfare a un criterio di minima: lo svolgimento di elezioni regolari, libere e corrette tra partiti antagonisti. La seconda categoria, quella liberale, prevede criteri più severi di appartenenza. I requisiti da soddisfare sono infatti cinque, oltre a quello citato. Il primo riguarda le libertà civili. Una democrazia può essere considerata liberale solo se vi risultano adeguatamente salvaguardate la libertà di fede, di espressione, di organizzazione, di protesta e di assemblea. In secondo luogo devono essere garantiti a tutti i cittadini parità di trattamento di fronte alla legge e certezza del diritto. Terzo, la magistratura deve essere indipendente e neutrale, non subordinata all’esecutivo né ad alcuna parte politica; allo stesso tempo istituzioni di ‘responsabilità orizzontale’, come le banche centrali o le autorità di controllo dei mezzi di comunicazione, devono essere autonome e dotate di effettivi poteri. Quarto, una democrazia liberale deve dar prova dell’esistenza al suo interno di una società civile aperta e pluralista, di cui è parte essenziale la libertà dei media. Infine, le forze armate devono essere poste inequivocabilmente sotto il controllo del governo democraticamente eletto.
Naturalmente le categorie distintive suggerite da Diamond e Plattner, per quanto utili, non possono essere considerati compartimenti stagni. Cosa va inteso esattamente per elezioni ‘corrette’? Le competizioni elettorali in cui vengono fissati effettivi limiti alle spese per la campagna o quelle, come nel caso dell’ultima elezione per il sindaco di New York, in cui un candidato, a detta di tutti i commentatori, si è comprato la vittoria? Cosa intendere per ‘libertà dei media’ in una struttura economica dei mercati mediatici che conduce forzatamente a ristretti oligopoli e in cui la televisione pubblica è sempre più minacciata? Cosa significa poteri ‘effettivi’ delle autorità di controllo? E così via.
Ciò nonostante tali categorie mantengono la validità di punto di partenza. Applicandole alle democrazie attualmente esistenti, Diamond e Plattner nel 2000 conclusero che 75 democrazie su 120 si qualificavano come liberali. Tra esse figurava l’Italia. Nel 2003, tuttavia, esistono motivi molto validi per affermare che non è più così. L’Italia di Berlusconi non riesce a soddisfare, in varia misura, il secondo, terzo e quarto criterio necessari per qualificarsi come democrazia liberale. Per quanto concerne il secondo, la legge in Italia non è uguale per tutti, non solo perché chi dispone di mezzi economici ingenti ha migliori opportunità di difesa di fronte ai tribunali, ma perché l’esecutivo e la maggioranza parlamentare stanno apertamente promuovendo e approvando misure che corrispondono agli interessi del presidente del Consiglio e dei suoi amici. Con riferimento al terzo criterio, la magistratura è sempre meno autonoma e molte autorità e garanti italiani dispongono di poteri intenzionalmente limitati. Passando al quarto, il sistema mediatico italiano è semplicemente il meno libero d’Europa. La conclusione appare inevitabile: se esistesse un Moody’s per la politica, l’Italia oggi sarebbe retrocessa tra le democrazie di ‘serie B’.
(...)


(Il Preambolo e un brano della conclusione del libro Berlusconi – Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino, 2003, traduzione di Emilia Benghi)


 

Paul Ginsborg, già professore all'università di Cambridge, insegna Storia dell'Europa contemporanea nella facoltà di Lettere di Firenze. È stato tra i fondatori del movimento fiorentino "Laboratorio per la democrazia".



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