La
superpotenza sostenibile
Jeremy Rifkin Negli
anni Sessanta ero un giovane attivista politico e, come molti miei contemporanei,
mi trovai coinvolto nella "grande sollevazione sociale". A Montgomery,
Alabama, gli afroamericani reclamavano il proprio diritto di sedersi nelle prime
file degli autobus e a Chicago marciavano per le strade con il braccio teso e
il pugno chiuso, gridando "Black Power". I ragazzi americani tornavano
dal Vietnam nelle bare, dapprima pochi alla volta, poi a grandi ondate. Gli studenti
chiedevano la fine di una guerra ingiusta che gli Stati Uniti stavano combattendo
nel Sudest asiatico e si barricavano negli uffici amministrativi degli atenei
per protestare contro un sistema antidemocratico che negava loro il diritto di
parola e di voto nelle decisioni accademiche che li riguardavano direttamente. La
liberazione era nell'aria, la si poteva annusare. Stanchi di voci allarmiste su
attacchi nucleari, guerre fredde, uomini in abito grigio, e dell'ottundente uniformità
della vita nei sobborghi, i giovani erano ovunque in rivolta: la libertà
di parola, il sesso libero, il rock and roll, la droga e il movimento hippy si
diffusero in America e raggiunsero ogni città e ogni paese. La ribellione
era in continua evoluzione, tanto che a volte era difficile tenere il passo o
anche semplicemente fermarsi. Alla lotta di classe subentrarono la politica culturale,
poi la politica sessuale, quindi la politica ambientale. Alle pareti erano appesi
i poster di Che Guevara e Huey Newton, poi sostituiti dai manifesti dei concerti
dei Beatles e dei Rolling Stones, che a loro volta furono rimpiazzati dalle foto
della terra vista dallo spazio. La vecchia sinistra dovette cedere il passo
alla nuova: la coscienza storica e i discorsi astratti su dialettica, materialismo
e imperialismo cominciarono a perdere forza, a vantaggio della "coscienza
terapeutica". Invece di citare il Manifesto del Partito comunista
di Karl Marx o il Libretto rosso del presidente Mao, i giovani cominciarono
a condividere i sentimenti più intimi e a parlare di dinamica delle relazioni
interpersonali, trasformando la politica in terapia di gruppo. I discorsi sulla
rivoluzione lasciarono progressivamente spazio alla ricerca di una trasformazione
spirituale più personale, cosicché all'inizio degli anni Settanta
questo processo aveva quasi del tutto eclissato l'ideologia. Ma ai margini c'erano
già nuovi movimenti che avrebbero lasciato il segno: il movimento femminista,
il movimento ambientalista, i movimenti per i diritti umani e per i diritti degli
animali, il movimento gay conquistarono via via la ribalta, imponendosi all'attenzione
del pubblico. Sembrava che tutti stessero reclamando il diritto di essere riconosciuti:
la gente usciva dalle case, apriva le porte, abbatteva reticolati e barriere,
si lanciava su microfoni e telecamere, in una concitazione di massa il cui unico
scopo apparente era l'eliminazione di ogni tipo di frontiere e confini. Fu una
follia di un genere particolare. Nell'occhio del ciclone si incrociavano due correnti:
la prima era una tensione irrefrenabile verso l'acquisizione di un ruolo personale
più importante in un mondo percepito come sempre più dominato dal
materialismo; la seconda era l'affannosa ricerca di un senso di comunità
condivisa in una società diventata estranea e indifferente. Allora tutti
sognammo una nuova era in cui i diritti delle persone fossero rispettati, nessuno
venisse lasciato indietro, le differenze culturali fossero bene accette e tutti
potessero godere di una buona qualità della vita, vivendo in armonia con
la natura e in pace con gli altri. Molti di noi manifestavano contro l'impero
americano, considerato unico responsabile dei mali di una società malata.
Alcuni, nella vana speranza di abbattere il sistema, presero perfino la strada
del terrorismo. Contemporaneamente, un'analoga sollevazione sociale aveva luogo
in Europa e in altre parti del mondo. Comunque sia, quasi tutti i giovani attivisti
americani che conoscevo erano sicuri che, qualora ci fossero stati dei cambiamenti
radicali, essi sarebbero cominciati in America, da dove poi si sarebbero diffusi
nel resto del mondo. Questo perché, anche nei giorni più neri della
nostra rivolta, continuavamo a credere nello "spirito americano", mantenevano
cioè l'incrollabile convinzione che l'America fosse un posto speciale con
un destino speciale. Anche se allora nessuno dei miei amici del "movimento"
avrebbe osato ammetterlo, tutti avevamo la sensazione, tipicamente americana,
che qui, in questo paese, tutto fosse possibile, tutto potesse essere raggiunto
e conquistato: bastava solo volerlo con la forza necessaria ed essere sufficientemente
determinati a ottenerlo. I giovani europei erano molto meno sicuri della reale
efficacia delle proprie azioni: la loro politica era motivata più dal piacere
della sfida che dalla volontà di cambiare. Ora, a oltre trent'anni di
distanza, la situazione si è rovesciata: quell'intuizione che nel mondo
ci fosse qualcosa di sbagliato, e che si dovesse fare qualcosa per porvi rimedio,
non si è radicata e non si è sviluppata in America. Certo, abbiamo
gruppi di attivisti che promuovono le numerose idee germogliate dal caotico movimento
nato una generazione fa nelle strade dei ghetti neri e nei campus universitari,
ma - curiosamente - è in Europa che le intuizioni della generazione degli
anni Sessanta hanno dato vita a un nuovo audace esperimento, i cui indistinti
contorni erano impossibili da delineare allora, al tempo della nostra giovinezza. Si
potrebbero dare diverse spiegazioni del fatto che, a quanto pare, sono gli europei
a indicare la strada verso la nuova era, ma ce n'è una che si impone su
tutte: è stato il caro Sogno americano, un tempo idealizzato e invidiato
dal mondo intero, a portare l'America all'attuale situazione di impasse, quel
sogno che pone l'accento sull'illimitata opportunità concessa a ogni individuo
di cercare il successo, che nell'interpretazione corrente significa soprattutto,
se non esclusivamente, successo economico. Il Sogno americano è troppo
centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere
generale dell'umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un
mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall'interdipendenza:
è diventato un sogno vecchio, intriso di una mentalità legata a
una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa. E mentre lo "spirito
americano" guarda stancamente al passato, nasce un Sogno europeo, più
adatto ad accompagnare l'umanità nella prossima tappa del suo percorso:
un sogno che promette di portare l'uomo verso una consapevolezza globale, all'altezza
di una società sempre più interconnessa e globalizzata. Il Sogno
europeo pone l'accento sulle relazioni comunitarie più che sull'autonomia
individuale, sulla diversità culturale più che sull'assimilazione,
sulla qualità della vita più che sull'accumulazione di ricchezza,
sullo sviluppo sostenibile più che sull'illimitata crescita materiale,
sul "gioco profondo" più che sull'incessante fatica, sui diritti
umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà,
sulla cooperazione globale più che sull'esercizio unilaterale del potere. Il
Sogno europeo è germogliato al crocevia fra la postmodernità e l'emergente
era globale, e rappresenta il ponte che può colmare la distanza fra due
epoche. La postmodernità non è mai stata intesa come un'era a sé
stante, quanto piuttosto come una fase crepuscolare della modernità: un
tempo per formulare un giudizio sui molti peccati dell'era moderna. Le proteste
e gli esperimenti della generazione degli anni Sessanta miravano ad abbattere
i vecchi confini che vincolavano lo spirito umano e a sondare nuove realtà,
e sono nati insieme al loro compagno intellettuale: il pensiero postmoderno. I
postmodernisti si domandano in che modo il mondo sia arrivato a infilarsi in un
vicolo cieco. Quali sono le ragioni che hanno portato a sganciare le bombe atomiche
su Hiroshima e Nagasaki, a costruire i lager nazisti in Europa, il Gulag in Unione
Sovietica e i campi di rieducazione maoisti nelle campagne cinesi? Come siamo
giunti a un mondo diviso più che mai fra ricchi e poveri? Perché
le donne, i neri, le minoranze etniche di ogni parte del pianeta vengono discriminati
o, peggio ancora, tenuti in condizioni di schiavitù? Perché distruggiamo
l'ambiente e avveleniamo la biosfera? Perché alcune nazioni ne vessano
continuamente altre e cercano l'egemonia attraverso la guerra, la conquista, il
dominio? In che modo la specie umana ha perso il proprio innato senso del "gioco
profondo" e si è trasformata in una massa di automi, al punto che
il lavoro senza sosta è diventato ciò che definisce l'esistenza
degli individui? Quando e come il materialismo ha sostituito l'idealismo, e il
consumo si è trasformato da concetto negativo in positivo? I postmodernisti
hanno attribuito la responsabilità di tutto ciò alla modernità
e individuato i colpevoli dei mali del mondo in quelli che considerano i rigidi
assunti del pensiero moderno: l'Illuminismo europeo, con la sua visione di un
illimitato progresso materiale, è fra i maggiori accusati, insieme al capitalismo
di mercato, al socialismo di Stato e all'ideologia dello Stato-nazione. La modernità,
secondo i teorici postmodernisti, è viziata fin nei suoi presupposti: le
stesse idee di realtà oggettivamente conoscibile, di progresso lineare
irreversibile e di perfettibilità dell'uomo sono state interpretate in
maniera troppo rigida e storicamente distorte, e non tengono conto di altre prospettive
sulla condizione umana e i fini della storia. La nuova generazione di pensatori
accademici era sospettosa verso le metanarrazioni e le teorie utopistiche unilaterali,
che tentano di creare una visione unitaria del comportamento: costringendo l'umanità
a un "unico modo giusto" di pensare il mondo, il pensiero moderno ha
dimenticato ogni altro punto di vista, diventando, in ultima istanza, intollerante
verso qualsiasi idea alternativa. Chi era al potere, capitalisti o socialisti,
conservatori o liberali, ha fatto continuamente uso di queste metanarrazioni per
tenere a freno e controllare il popolo. Il pensiero moderno, secondo questi critici,
è stato usato per giustificare in tutto il mondo avventure coloniali, per
dividere le persone e mantenerle in una condizione di asservimento al potere costituito. E
stata proprio la modalità oppressiva con cui queste grandi visioni onnicomprensive
e queste utopie unilaterali imponevano alla gente di comportarsi e di agire che
ha scatenato la ribellione della generazione degli anni Sessanta: i postmodernisti
offrirono una razionalizzazione della rivolta, affermando che non c'è un'unica
prospettiva, ma tante quante sono le storie individuali da raccontare. La sociologia
postmodernista esalta il pluralismo e la tolleranza dei diversi punti di vista
che costituiscono l'esperienza umana: non esiste un regime ideale a cui aspirare,
ma piuttosto una miscela di esperimenti culturali, ciascuno dotato di valore proprio. I
postmodernisti si sono impegnati in una battaglia a tutto campo contro i fondamenti
ideologici della modernità, giungendo perfino a negare l'idea di storia
come percorso di redenzione. Alla fine del processo postmoderno di decostruzione
ci sono rimasti una modernità ridotta a un cumulo di macerie intellettuali
e un mondo anarchico in cui la storia di ciascuno è ugualmente valida,
importante e degna di riconoscimento.
Se i postmodernisti hanno raso al suolo l'edificio ideologico della modernità,
liberando chi ne era prigioniero, non hanno offérto all'uomo una dimora
alternativa: siamo diventati nomadi esistenziali che vagano in un mondo senza
frontiere di desideri insoddisfatti, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi
e in cui credere. Lo spirito umano, liberato dalle vecchie categorie concettuali,
ha spinto ciascuno di noi a trovare una strada propria in un mondo caotico e frammentato,
ancora più pericoloso di quello "totalizzante" che ci siamo lasciati
alle spalle. Il pensiero postmoderno non ha trovato terreno fertile in quella
che viene chiamata la "middle America", ma ha sempre avuto maggiore
influenza in Europa. Oltre la metà degli americani sono religiosi - più
che in qualsiasi altro paese industrializzato - e non sono disposti a sottoscrivere
l'idea di un mondo in cui tutto è relativo, ma credono ancora in un grande
ordine delle cose e vivono la propria fede intimamente, giorno dopo giorno. Gli
americani più laici, benché non dispongano di un riferimento religioso
onnicomprensivo, sono in genere devoti a un'altra visione sociale: l'idea illuminista
di storia come continuo e inarrestabile avanzamento del progresso materiale. C'è,
poi, un terzo gruppo di americani, numericamente inferiore, composto in larga
parte da attivisti e membri della generazione della contro-cultura degli anni
Sessanta, e dai loro figli, ormai cresciuti, che hanno maggiore dimestichezza
con il concetto di postmodernità. Costoro tendono a vedere il mondo meno
in termini di valori assoluti e verità incrollabili e più in termini
di verità relative e di inclinazioni diverse, e sono perciò più
tolleranti rispetto ad altri punti di vista e prospettive multiculturali. Gli
analisti politici dividono gli americani in due campi culturali: i rossi e i blu.
I primi professano i valori del conservatorismo religioso profondamente radicato
in America, i secondi hanno un orientamento molto più cosmopolita e liberal.
Secondo i sondaggi, i rossi sono geograficamente concentrati nel Sudest, nel Midwest,
negli Stati delle grandi pianure e delle Montagne Rocciose, e nel Sudovest; i
blu nel Nordest, nella parte settentrionale del Midwest e sulla West Coast. Tale
semplificazione, benché possa essere utile per l'analisi delle tendenze
di voto, non riesce a cogliere che la maggioranza degli statunitensi, rossi o
blu che siano, aderisce a uno stile di vita americano che è intriso di
ideologia modernista. Perfino i blu, con la loro maggiore tolleranza per il punto
di vista altrui, sono propensi a credere che l'avventura umana abbia uno scopo
superiore, e che esista un "modo giusto" di vivere nel mondo. Gli
europei, invece, sono stati più disposti ad accettare le critiche agli
assunti fondamentali della modernità e ad abbracciare un orientamento postmoderno;
questa loro disponibilità ha molto a che vedere con le devastazioni e le
carneficine delle due guerre mondiali e con lo spettro di un continente che, a
causa della cieca obbedienza a visioni utopistiche e a ideologie, nel 1945 si
trovò sull'orlo del baratro. Sono stati gli intellettuali europei a
suonare la carica contro il progetto della modernità, ansiosi di scongiurare
il pericolo che i vecchi dogmi potessero di nuovo condurre l'umanità lungo
la strada della distruzione. Il loro attacco frontale alle metanarrazioni li ha
portati a difendere il multiculturalismo, i diritti umani universali e i diritti
della natura. I postmodernisti considerano il multiculturalismo una sorta di antidoto
al pensiero moderno, un modo per bilanciare l'unicità dottrinaria con la
molteplicità delle prospettive. La questione dei diritti ha ulteriormente
allargato la critica all'unicità del punto di vista: i diritti umani universali
e i diritti della natura sono un modo per riconoscere che la storia di ciascuno
ha uguale valore e che anche il nostro pianeta è, in sé, importante.
Ma qui la logica postmodernista ha cominciato a scontrarsi con le proprie contraddizioni
interne. Universale significa fondamentale e indivisibile, qualcosa che tutti
riconoscono e accettano come tale; dunque, involontariamente, i postmodernisti
si sono scavati la fossa da soli, riconoscendo che esiste almeno un'idea universale
su cui tutti potrebbero potenzialmente concordare: ogni vita umana ha uguale valore
e la natura è degna di rispetto e considerazione. Il Sogno europeo comincia
là dove i postmodernisti hanno rinunciato. Ridotto all'essenziale, è
un impegno per la creazione di un nuovo schema storico di riferimento, che liberi
l'individuo dal vecchio giogo dell'ideologia occidentale e, nello stesso tempo,
leghi l'umanità a una nuova storia condivisa, fatta di diritti umani universali
e di diritti intrinseci della natura: ciò che chiameremo "consapevolezza
globale". Il Sogno europeo, insomma, è il tentativo di creare una
nuova storia. Ultimamente, nei circoli intellettuali conservatori americani,
è di moda discutere della fine della storia: alcuni, come Francis Fukuyama,
affermano che con la caduta del comunismo sovietico le democrazie capitalistiche
occidentali hanno trionfato e con ogni probabilità non saranno sostituite
in futuro da un nuovo modello alternativo. Per quanto inutilmente erudito e fine
a se stesso, il dibattito sulla fine della storia descrive l'atteggiamento distorto
di molti storici contemporanei, che danno per scontato che la storia non sia altro
che il continuo scontro fra sistemi economici e ideologie politiche rivali per
l'appropriazione e l'uso delle risorse a fini produttivi, per il controllo e la
distribuzione della proprietà e del capitale, per il governo dei popoli.
Per alcuni il Sogno americano, con l'accento che pone sull'illimitata accumulazione
individuale di ricchezza in una società governata democraticamente, rappresenta
l'espressione più alta della fine della storia. Il nuovo Sogno europeo
è potente perché osa suggerire una nuova storia, che riserva attenzione
ad aspetti come la qualità della vita, la sostenibilità, la pace
e l'armonia. In una civiltà sostenibile, basata sulla qualità della
vita piuttosto che sull'illimitata accumulazione individuale di ricchezza, la
stessa base materiale del progresso moderno sarebbe una cosa del passato. Un'economia
globale stazionaria è una proposta radicale non solo perché mette
in discussione il modo convenzionale di utilizzare le risorse della natura, ma
anche perché si libera dell'idea che la storia sia una curva ascendente
descritta dal progresso materiale. L'obiettivo di un'economia globale sostenibile
è la continua riproduzione di un'elevata qualità della vita, ottenuta
adeguando la produzione e il consumo alla capacità della natura di riciclare
le scorie e rigenerare le risorse. Un'economia sostenibile stazionaria sarebbe
davvero la fine della storia intesa come crescita illimitata del benessere materiale. Nel
momento stesso in cui rappresenta la fine di una storia, il Sogno europeo suggerisce
l'inizio di una storia diversa. Nella nuova visione del futuro, l'evoluzione personale
diventa più importante dell'accumulazione individuale di ricchezza. L'accento
si sposta così sull'elevazione dello spirito umano, non sull'aumento della
ricchezza; sulla crescita dell'empatia dell'uomo, non sull'estensione dei territori
soggetti al suo dominio. L'umanità è liberata dalla prigione del
materialismo, in cui è stata rinchiusa all'inizio del Settecento dall'Illuminismo,
e portata verso un nuovo futuro animato dall'idealismo. (...) Per quanto io
sia visceralmente legato al Sogno americano, e soprattutto alla sua incrollabile
fede nella preminenza dell'individuo e della responsabilità personale,
la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno europeo, che esalta la responsabilità
collettiva e la consapevolezza globale. C'è una cosa, però, di
cui sono relativamente sicuro. Il nascente Sogno europeo rappresenta le più
alte aspirazioni dell'umanità a un futuro migliore. Una nuova generazione
di europei porta su di sé le speranze del mondo e ciò conferisce
ai popoli d'Europa una responsabilità molto speciale, come quella che i
nostri padri fondatori devono aver avvertito duecento anni fa, quando da ogni
angolo del pianeta si guardava all'America come a un faro di speranza. Mi auguro
che la nostra fiducia non vada delusa.
(Testo
introduttivo al saggio Il sogno europeo, Oscar Mondadori edizioni, Milano,
2004. Traduzione di Paolo Canton.)
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