Tutta la vita

- Racconto tratto dalla nuova antologia della narrativa portoghese contemporanea Lusitania Express -

 

Miguel Esteves Cardoso



Non è facile essere un'anima.
Ha dei vantaggi. Posso entrare nella persona che voglio e farla parlare e muovere come se fosse una marionetta. Grandioso. Per vendicarmi, a volte chiamo Burattini le persone.
Al momento sono l'anima di un ragazzo che ha avuto un incidente con la moto ed è in coma da due anni. Il corpo è collegato a una macchina. Non è molto interessante. L'aspetto è gentile, ma la postura è immobile. Troppo per i miei gusti.
La sua anima, che sono io, è generosa e buona, nonostante il rancore e la paura che mi minano da cima a fondo. Adesso è sospesa. Libera di vagare e non so cos'altro. Ne ho l'autorizzazione. La cosa peggiore è che è limitata fin dall'inizio. E perché? Perché questa persona è innamorata. Innamorata di una ragazza di diciannove anni. Che non è innamorata di lui. Per giunta. È questa l'eredità che il ragazzo mi ha lasciato. La ragazza viene a fargli visita tutte le settimane. Si chiama Eva. Si crede una santa. Una santa verrebbe, per lo meno, tutti i giorni. Rimane mezz'ora, con la faccia di chi è già alla veglia funebre. Si sente in obbligo. Caddero dalla moto perché lei voleva passare col rosso, tanta era la voglia di arrivare a casa per liberarsi di lui.
Si chiama Eva, a tutti gli effetti, che non si immagina quali siano. È bionda come il grano. Ma questa è una scusa? Penso di no. Tecnicamente la amo, sono costretta ad amarla con tutti i mezzi di cui dispongo. Per i miei peccati, che sono molti. In quanto anima, posso entrare nella persona che voglio. La mia missione è inseguirla e far sì che s'innamori di me, fino a quando il ragazzo non recuperi o non muoia e io possa iniziare una nuova vita, preferibilmente regolare. La cosa peggiore è che, ogni volta che cambio corpo, ne resto un po' contaminata. Il primato genetico non esiste - ma influisce. Non posso entrare in un Burattino delle baracche, giocoliere di professione, senza uscirne con una certa nozione di ingiustizia e di equilibrio.
I cromosomi sono come gocce d'acqua del mare. Fanno ruggine in un'anima. Che m'interessa di essere buona se abito in un individuo così stupido che non sa mettere in pratica questa bontà? John Steinbeck è un pessimo scrittore ma mi piace la storia, presuntuosamente intitolata Of Mice and Men, del bruto che, senza volerlo, soffoca un topo con le carezze.
La mia missione nella vita è trovare un Burattino che piaccia ad Eva. Il mondo è la mia ostrica, come diceva qualcuno. Posso scegliere chi voglio. La cosa brutta è che non conosco nessuno. Questo e una certa mancanza di pazienza.
Io sono eterna, non lo dimentichiamo. Non sono come gli altri uomini e neanche come le altre donne che vengono e se ne vanno, durando in media settantacinque anni, e che si perdono solitamente in sciocchezze. Sono un'anima. È di me che parlano i pensatori. Anche se non hanno la minima idea di cosa dicano, sanno che sono io quella che importa. Nietzsche o parroco di paese che sia.
Odio i medici. Anticamente un'anima passava facilmente da persona a persona, senza impiegarci troppo. Non c'erano le "macchine". Non c'erano dibattiti sull'etica e sul "timing" per staccarle. Oggi la vita si prolunga oltre il sopportabile. Un'anima si stanca. Nel mio caso, che è moderno, è massacrante, perché il mio portatore è tecnicamente vivo.
Ho un compito spinoso. Eva. È chiaro che ho il diritto di riposare - di mollare tutti e di rifugiarmi in una sostanza inerte, come una parete o uno sportello di un taxi - ma non posso mai dormire. Sono sempre sveglia. Eva dorme nove ore a notte e io, fattami testiera del letto o interruttore della luce, devo rimanere a guardarla.
L'accompagno ventiquattr'ore al giorno. Sia sotto forma di persona che di oggetti. Ha una vita interessante, ma non esiste interesse che regga ventiquattro ore di vigilanza. È monotono. Impiega molto tempo a lavarsi i denti. Ci mette un'ora a fare il bagno. Quando sono in me - cioè quando sono soltanto un'anima, eterea e femminile, incorporata in una tenda della doccia - mi è indifferente vederla nuda. Le anime non sono lesbiche. Quando sono dentro un uomo, cioè quando potrei avere qualche piacere nel vederla nuda, anche se molto vago, lei mi chiude sempre la porta in faccia. È così.
La mia storia è facile da raccontare, ma triste. Allo stesso tempo, però, è curiosa, visto il peccato in cui sono caduta e il modo di essere della ragazza che, diciamocelo, amo dal profondo.
A Eva piace conoscere nuove persone, ma non le piacciono le persone conosciute. Le interessa solamente l'atto di conoscere. Parla con i camerieri, con i pazzi che passeggiano in riva al fiume - insomma, con tutti. Ma non ha amici. Né un fidanzato. Non ha rapporti con la famiglia. Non ha progetti né abitudini. Non fa né riceve telefonate, a meno che non sia sotto pressione.
E questo rende le cose più difficili. Come posso agganciarla? E soprattutto stabilire una relazione profonda. Chiedo io. Come se qualcuno potesse rispondere.

Inizio da me. Sono un'anima buona. Limitata, ma sicura di me. Cosa voglia dire, non lo so. Ho degli attacchi di lirismo. Si capisce. Sono solidamente spirituale. Non ci si potrebbe aspettare altro. I versi, per me, sono fiocchi d'avena.
Quando entro in un Burattino, mi nausea la materialità delle persone - le milze, le pulsioni, i movimenti intestinali. Il corpo è una casa temporanea perché è caduco - se Dio avesse fatto il mondo con più cura, avrebbe plasmato esseri perfetti, meritevoli di eternità, cioè capaci di accompagnare l'andamento dell'anima. Ma le persone sono elementari. In fondo, meritano perfino i piaceri e le sofferenze che provano nella breve vita che è loro concessa.
Prima di entrare in un Burattino, entro in un crocifisso che ha al collo. In quanto anima, so che Gesù fu lapidato e non crocifisso ma, come ha già detto un prete inglese, chi pagherebbe le alterazioni architettoniche nelle chiese, per non parlare poi della gioielleria? A chi piacerebbe camminare con dei sassi al collo? A Eva. Solo che non ho modo di farglielo sapere.
Lei non si toglie mai il crocifisso. Cioè, non mi toglie mai. Quando mi arrabbio, passo nella sua t-shirt. Mi fanno male le braccia. Anche se un'anima non ha braccia, ha immaginazione. E solo Dio sa quanto fa male l'immaginazione.
Ed è così, dolorosamente, che inizia la mia storia.

È necessario capire che loro vivono in un mondo addormentato. È da molto che sono spariti i segnali di vita. Le persone si sono talmente assuefatti alle abitudini da dimenticare che c'erano modi diversi di fare le cose. Nessuno disobbedisce. Nessuno osa. È il ventunesimo secolo. È l'Occidente. Tutto è realmente risolto. Ma non resta nessuno che si arrabbi per questo.
Il mio primo compito, quindi, è svegliarla. Solo lei. Perché la possibilità dell'amore esista. In questo senso, scelgo un ragazzo di tredici anni, uguale a quello che le piaceva quando era più piccola. Per non danneggiarmi troppo. Non so neanche come si chiama. Quello che so è che, quanto più vecchia e completa è la persona in cui mi trasformo, tanto più mi logoro. Cioè più mi allontano dal mio portatore, steso all'ospedale, attaccato alla macchina, che si chiama... non so neanche questo. So che è innamorato di lei. Come vedete, mi sto già perdendo. Non è che sia una cattiva sensazione. Ma è, come minimo, sleale.
Situiamoci. Siccome ci sono ancora i gabbiani e dati i miei poteri di osservazione, mi trasformo in uno di essi. Puzzano, ma hanno un buon punto di vista e sono amati da tutti.
Entro nella loro città. Nel paese morto. Volare è come dormire - non è niente di che, passati i primi cinque minuti.

*

Sboccino i fiori. È finito il tempo. Contate i bambini che non sono ancora morti.
C'è una donna che attraversa la strada. Fate in modo che si fermi. A casa sua, se ce l'ha.
Ecco i giorni che non finiscono. Le persone sono nascoste nell'inchiostro dei fogli scritti e dipinti. Non hanno un nome. Neanche un viso. Ma può darsi che abbiano una salvezza. Un giorno.
La fine impiega più tempo di quanto pensassi. Anzi, non finisce mai. La speranza è una distrazione. Non si lascia distruggere. Per quanto si preghi.
Le vecchie vivono vicino alle statue degli eroi. Leggono la sorte dei morti, una volta dopo l'altra, infinite volte.
Senza una fine non si può fare niente. Il principio è troppo facile per le cose vive. Non si riesce a resistere alla nascita di qualcosa. Fra le pietre che parlano di ciò che nessuno capisce, crescono le erbacce che servono a benedire gli alberi scomparsi, che si cuociono nei barattoli di lubrificante per fare minestre verdi e stantie, che sono sacre in mancanza di meglio, per la morte che non riesce ad essere completa, neanche così.
Il terremoto è più forte per non esserci stato. Le persone immaginano di sopravvivere nelle rovine. Condividono parole ormai senza pazienza o senza dolore. Non ci sono notizie. Non resta memoria. Le frasi che sono rimaste, prese dai quaderni di bambini che le vecchie avevano trovato per strada, sono considerate divine. "In Inverno si accendono i caminetti in tutto il paese". "I miei genitori vivono nel centro della città".
"C'era una volta un pastore molto triste".

Nella stanza di Maria, che aveva due finestre sul secolo passato, c'è un uomo che dorme. Sogna che la madre è sdraiata per terra al suo fianco, sveglia, a vegliarlo, come se lui o lei fossero vicini alla morte. Non è vero, ma non fa niente. È da molto che le persone hanno perso la virtù. Il fine si prolunga così tanto che è diventato impossibile smettere di vivere.
Questo mondo è un mondo che continuerà per sempre, che lo si voglia o no. I bambini nascono ma nessuno sa di chi sono. Le ragazze fuggono. Si vedono svoltare l'angolo, con le gambe nude e i capelli raccolti, corrono per la città, come se stessero aspettando che un'altra città nascesse all'improvviso sotto i loro piedi.
"Non può essere tutto qui" - è in questo che sembrano credere, mentre vanno da una parte all'altra, calme, prive delle ansie antiche di scoprire.
I ragazzi non le vedono. Sono immobili nelle case. Fra le pareti nere di fumo, senza finestre, senza crepe, senza alcun particolare. Credono che l'oscurità gli sia caduta addosso. Hanno perso la speranza che sia un castigo. Si sono dimenticati rapidamente che poteva esistere il perdono. E non si muovono, con la paura di vivere ancora di più.
E, nel frattempo, niente è cambiato. I mezzi pubblici continuano ad essere pieni. In Parlamento si prendono grandi decisioni. La televisione trasmette i film. Dietro un'unica nuvola, brilla il sole. Suonano orchestre nelle sale dello Stato. Ma è una musica che nessuno ascolta.
Il terremoto ha distrutto tutto. Questo è l'atteggiamento della popolazione. Ma il paese è diventato una potenza mondiale. La vita non è mai stata così facile. Questa è la posizione ufficiale.
Non c'è stato nessun terremoto. Ma le persone l'hanno desiderato molto e poi ci hanno rinunciato, come se ci fosse stato. Questa, per lo meno, è l'idea che è trapelata. Senza inizio e senza fine, il mondo ha fatto l'unica cosa, la peggior cosa che potesse fare, ed è andato avanti.

Probabilmente avrebbe potuto finire tutto così, se non ci fosse stata un'eccezione.
Un ragazzo di tredici anni che si è svegliato con una ragazza di diciannove. Fra le braccia. In una casa nei dintorni.
All'improvviso, il ragazzo si accorge. Si accorge della ragazza. Attraverso di lei, si accorge di sé. Sono su un letto.
Non che non ci siano molte persone a letto. Nello stesso momento. Con gli orologi che misurano il tempo. In tutta la città, a scopare. Senza sapere quello che fanno. A corrispondere a quello che si aspetta da loro. Con gli orologi che dicono l'ora. E loro ad ascoltare l'ora che gli orologi dicono. Come ci si dovrebbe aspettare.
Ma il ragazzo si accorge di sé con la ragazza fra le braccia e la ragazza si accorge di lui. C'è una sensazione di pelle. Hanno voglia di fermarsi. Per capire. Non sanno che cosa stia succedendo. Ma è bello.
Scopare è un'abitudine. Ma sapere non lo è. La ragazza si siede sul letto. Dove mi trovo? Sembra dire. Il ragazzo rimane sdraiato. Dove ti trovi? Sembra chiedere. Lei è più vecchia. Entrambi lo notano nello stesso momento. E lei dice... qualcosa.
Dire non è un'abitudine. I sarti non dicono niente. Gli ingegneri non dicono niente. Le donne non ascoltano quello che i mariti non dicono. Il mondo è muto. Deve esserlo.
La ragazza ha diciannove anni, come tutte le ragazze della sua età. Studia. È all'università. Non dovrebbe piangere. Dovrebbe sapere che piangendo non risolve niente. Le lacrime non portano da nessuna parte. Questo è risaputo. Però piange. Quando si accorge di sé. Fra le braccia di quel ragazzo. Che dovrebbe essere a casa, a casa dei genitori, di quelli che si occupano di lui. Ha tredici anni. Non ha l'età per queste cose. Ma si chiede: quali?
"Come si chiama questa tempesta?" chiede lei. Dovrebbe saperlo. È una cosa che ha studiato a scuola, come tutte le ragazze della sua età. La tempesta ha un nome concreto, che tutti sanno. Ma il nome in quel momento le sfugge. E si volta verso di lui.
"Non l'ho ancora studiato", risponde il ragazzo. Ma non sa neanche quello che ha studiato.
La ragazza ha la pelle tiepida. Lo distrae. Lui che non si era mai lasciato distrarre. Si dimentica di tutta la vita. Lui che non è mai stato dimenticato. Che a scuola era uno dei migliori. Non il migliore - ma comunque uno dei migliori. Come tutti, d'altronde.
La ragazza guarda una finestra. Non ci aveva mai fatto caso prima. Si alza dal letto e va ad aprirla. Sa istintivamente come si fa. Istintivamente, come non aveva mai fatto niente prima. Apre la finestra e guarda la città. È giorno.
Sorride un po'. E dice che non è tardi.
La città non sa quello che sa la ragazza. Non si sa orientare. Poteva benissimo essere notte. È indifferente.
Anche il ragazzo si alza. Mette le braccia intorno alla ragazza. Si rende conto che sono entrambi nudi. A quell'ora del giorno o della notte. Della notte, secondo lui. Perché quando guarda dalla finestra vede solo buio. Luci accese. Ma poche. Non abbastanza per vedere la città. Che non ha mai visto. D'altronde.
Ci sono altre finestre aperte, altri ragazzi, stanze uguali a quella. Ma chi le ha aperte non sapeva ciò che stava facendo. Dormono, forse.
"Le persone dormono sempre", dice la ragazza. E dopo chiede: "Perché?"
È una domanda proibita, pensa il ragazzo. Ma com'è che lui sa? Il mondo è come è. È questo che si insegna a scuola. I pianeti. Le stagioni dell'anno. Le temperature nelle ore del giorno. Tante cose. Ma niente di più.
Sentendosi in colpa, risponde che ci devono essere molte persone sveglie. A lavorare. A guardare la televisione. Alla finestra.
La ragazza si arrabbia. Qualcosa si è rotto. Si sottrae dalle sue braccia e si mette una maglietta. Poi si volta verso di lui e chiede: "Di che colore è questa maglietta?"
Il ragazzo fa per dire che non lo sa, ma all'improvviso si accorge che dice, in modo molto chiaro: "Lilla".
Lei guarda la maglietta. È sorpresa. È contenta. La toglie di nuovo e la tiene fra le mani.
Dice: "Hai ragione. È lilla". Perché non lo sapeva.
Ora sta al ragazzo sorridere. E si accorge di dire: "Se volessimo, potremmo essere padroni del mondo".
Lei ci mette del tempo a reagire. Ha paura di questo tipo di conversazioni. Anzi, di ogni cosa.
"Non fare lo scemo", risponde.
Il ragazzo si pente. Vuole stringerla un'altra volta fra le braccia. Sentire la pelle tiepida che ha sentito. Che non riesce a dimenticare subito. "Scusa", dice lui, "era tanto per dire".
È strano, perché il mondo si muove sotto di lui. Cos'è successo? "Cos'è successo?" chiede lei.
"È il mondo..."
"Non dire..."
"Va bene. Non lo dico". Il ragazzo è rassegnato. Come sempre, nella sua vita.
"Lascia che sia io a dirlo", dice la ragazza. Gli si avvicina e lo abbraccia. Vede la città. Ora il giorno. Ora il buio.
E dice: "È il mondo che si è mosso".
Il ragazzo si spaventa. Lei si lascia spaventare. Per un attimo, rimangono abbracciati alla finestra. Lui fa per parlare, ma lei lo zittisce.
"Ssh... resta così. Rimaniamo così per un po'. Insieme". Insieme. È la prima volta che sente qualcuno parlare in quel modo. Non sa neanche che cosa dire. Questa cosa dello stare "insieme".
"Devo andarmene", dice la ragazza.
Vengo con te", dice lui.
"Con me? Perché?"
Non lo sa. Cerca una parola che non trova. C'è un momento in cui perde tutte le speranze. Ma alla fine riesce a trovare le parole. E dice: "Perché lo voglio".
E attraversano la città. Insieme, con gli occhi spalancati. Come se si trattasse di un'altra città. Una città piena. Prendono un taxi senza suoni e senza odori. Improvvisamente sentono il rombo del motore. E annusano la plastica dei sedili. E vedono la nuca raggrinzita dell'autista. Attraversano insieme la città dove hanno sempre vissuto. Ma non è la stessa. È piena di qualcosa che non può più scappare. Di vita.
La lascia sotto casa sua.
Dice: "Hai una bella casa".
Lei alza lo sguardo verso la finestra della camera. Vede il balcone. Il colore delle pareti. Il tetto.
E risponde: "Hai ragione", baciandolo sulla bocca, come non aveva mai baciato prima.
Lei fugge in casa, lasciando il ragazzo sulla porta. Inizia a piovere. Cioè, se non pioveva già prima. Le luci dei negozi e dei lampioni sembrano nuove di zecca. Come se brillassero. Come se fossero stelle o altre cose che non ci sono.
Il ragazzo torna a casa propria a piedi, rallentando il passo. Continua a ricordare la ragazza, per tutta la strada. Ormai è inutile continuare a negare. C'è una notte bellissima e il mondo si muove sotto di lui.

Il labirinto è un corridoio. Fa parte dei festeggiamenti.
I genitori spingono dentro i bambini. Non è buio. Il buio è di un tempo che è passato. Oggi è tutto illuminato. La paura è scomparsa. Dalla porta da cui si entra si vede la porta da cui si esce.
Se qualcuno grida, arriva una guardia.
È sempre Natale. Le persone hanno i soldi per comprare doni.
Le teste sono occupate dai giorni in cui si fanno regali. Il lavoro soddisfa e ricompensa.
Eva non riesce a godersi la vita. Solo dietro le cose, dove vivono le vestigia che non è stato possibile sradicare, come i nomi dipinti degli uomini che hanno fatto la fiera, che davano denominazioni fantastiche alle loro povere invenzioni meccaniche - "Il Mondo della Morte", "La Selva del Riso" - trova sollievo e divertimento. Non per nostalgia. Non sa neanche che cosa sia. Ma per curiosità. Pensa che le cose fossero più vicine alle persone prima che si raggiungesse la perfezione.
È una guastafeste, in un mondo dove ci sono sempre più feste da guastare.
Il ragazzo di tredici anni si chiama Manuel. Non dorme. Il giorno successivo accende un sigaro. In mezzo alla strada. Apre una scatola. L'ha rubata. Ma ormai non fuma più nessuno. Le tabaccherie continuano a restare aperte. Sono piene di sigarette. Sono pagate per questo. Nel caso in cui qualcuno decidesse di riprendere a fumare. Non si sa mai. Basta una piccola catastrofe. Basta un nonnulla per ricominciare. Le condizioni ci sono. Ma le persone si sono dimenticate queste cose.
Manuel se ne ricorda. Non sta per niente bene. Ha paura di essere sopravvissuto al terremoto e di ritornare alle vecchie abitudini. A quelle che hanno portato il Portogallo alla disgrazia. Ha paura di trascinare altri con sé, anche se nessuno gli presta attenzione. Solo la ragazza. Eva. Eva gli ha dato attenzione. Un po'.
Il cielo si è riempito del fumo del suo sigaro. Addio, mio azzurro, cielo sempre chiaro, che riempie lo schermo dei televisori alla fine delle trasmissioni. Buon pomeriggio alle vecchiette che passano tossendo. Manuel soffia verso di loro delle zaffate forti. Immergo-no le mani nelle borse e prendono caramelle efficaci, che calmano la laringe. Si difendono come possono e sorridono.
Sono prevenute. Chi non lo è oggigiorno? Solo lui. E forse la ragazza.
All'improvviso, si sente male. Si siede sul ciglio della strada, tenendosi lo stomaco.
"Se vomitassi, sarei felice". Ma non vomita ed è felice comunque. I cani dei dintorni si avvicinano a lui, offrendo i loro musi, le zampe e altri piccoli conforti che solo gli animali sanno dare. Sono affamati, ma non hanno perso il buonumore. È la fame che li mantiene vivi. Sono abituati a non mangiare. A volte entrano in una macelleria ed escono con un po' di roast-beef tra i denti. Solo che non se lo ricordano.
Lo fanno per giorni, con i pezzi che ciondolano fra le mandibole, fino a che la carne non inizia a puzzare. La lasciano dove capita, senza alcun rimorso. Muoiono alcuni giorni dopo. Il Comune li seppellisce nel recinto "Mondego", aperto a tutte le razze, ventiquattro ore al giorno, dove potrebbero ricevere le visite degli interessati, se ce ne fossero, ma non ce ne sono.
Lisbona oggi è una città pulita. Dimenticati i tempi della disorganizzazione e della spazzatura, non rimane indietro alle sue consimili europee. Finalmente.





(Racconto tratto dall'antologia Lusitania Express - 20 storie per un film portoghese, organizzata da António Fournier, Scritturapura editrice, Villa San Sacondo [Asti], 2006. Traduzione di Martina Pierini.)


 

Miguel Esteves Cardoso, nato a Lisbona nel 1955, critico musicale, sociologo, giornalista, scrittore. Noto anche nella scena culturale portoghese come MEC, si fece conoscere e apprezzare dal grande pubblico con i suoi testi giornalistici dallo stile umoristico-satirico sul settimanale £Expresso" e riuniti successivamente su A Causa Das Coisas (1986). Il suo romanzo più famoso è O Amor É Fodido (1994).



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