La lingua del nemico
- Brano tratto dal romanzo Il sangue del cielo -
Piotr Rawicz
Il dodici luglio 194
ci ordinarono di prendere i nostri bagagli - venti
chili a testa -, di lasciare aperte le porte di casa e di radunarci nella grande
piazza sul fiume. Su un portacenere di bronzo migliaia di mozziconi ardevano in
attesa: passa una mano che regge lo spegnitoio a forma di pestello. Una città
dove hai vissuto, dove sono morti i tuoi e che davanti ai tuoi occhi si trasforma
in Storia è un dolore piacevole. Nel massacro che si annunciava, solo io
sarei sopravvissuto. Certo, un essere che non avesse raggiunto la Conoscenza Suprema
non potrebbe comprendere la propria morte. Via via che le loro speranze si rivelavano
fallaci, io affinavo la mia cattiveria. Un tempo, quando erano vivi li avevo amati
ma non era stato un amore facile. Era troppo grande? Per anni, secoli, si erano
sforzati di offuscare l'immagine del mio amore. Non ci sono riusciti. E il profondo
amore che nutrivo per loro già intuiva che stava cominciando per lui un'epoca
unica, straordinariamente facile. Morivano tutti e io sentivo che l'amore di quei
morti mi avrebbe ormai inghiottito come il paesaggio crepuscolare inghiotte l'ombra
lontana di un bambino. Sapevo che il momento successivo mi avrebbe offerto insieme
alla vita amara un alibi perenne. E sono troppo debole, lo sono sempre stato -
continuava il mio cliente - per vivere senz'alibi. Ebbene, tutta quella bella
gente intorno a me aveva in mano dei documenti. Niente più uomini o donne:
mani, mani come grida, una foresta di mani. Niente più mani: carte, documenti.
I documenti più meravigliosi che un Impero potesse offrire a degli esseri
umani. Ognuno di quei lasciapassare provava chiaramente che il Reich millenario
non poteva vincere la guerra, né resistere un giorno, se un solo capello
cadeva dalla testa del suo possessore. La bella moglie del farmacista, parvenue
a cui una volta facevo gli occhi dolci, forgiava cannoni per alimentare la guerra.
Era importante, vitale per la potenza che ci aveva radunati lì che non
fosse disturbata neanche in caso di estrema urgenza. Una ragazzina bionda di tredici
anni raccoglieva ferraglia. Non la toccate - proclamava il suo lasciapassare -,
è sotto la protezione personale del Capo Supremo della Guardia. E il vecchio
senatore Gordon, lui che - si diceva in città - non era mai stato con una
donna in vita sua, lui che, ignorato dalla bellezza, cercava solo bruttezza e
miseria per soccorrerle e perpetuarle, lui che - lo sapevano tutti i poveri della
città - mangiava pane secco, forse persino erbe e radici, per distribuire
i soldi della sua pensione a veri e falsi mendicanti
La sua nobile missione
era riconosciuta, persino incoraggiata dall'occupante che l'aveva nominato responsabile
del Mutuo Soccorso della nostra provincia. Il vecchio senatore - un gran titolo
e un sacco di miseria ingiallita chiusi in uno scheletro d'impiegato, lungo e
ingobbito -, il vecchio senatore eletto trent'anni prima per sbaglio, al seguito
di una lista nazionale e messianica, a cosa pensava? I cadaveri hanno un "mutuo
soccorso"? Si può marcire in maniera educata e maleducata? Marcire
è un processo o un personaggio che distribuirà una generosa elemosina
ai miei fratelli? E se fosse un personaggio, come descriverlo, con che colori
dipingerlo nel racconto che dovrò fare un giorno? La composizione su una
decomposizione? Questo triste gioco di parole si difende da sé o dovrò
difenderlo a spada tratta? Mi sono reso conto che stavo proiettando le mie
preoccupazioni sulla testa rinsecchita del senatore. C'erano delle fanciulline
con fianchi e seni che cominciavano ad arrotondarsi. Mele verdi pronte da cogliere.
La gelosia della loro fine, della fiamma che al posto mio avrebbe lambito a morte
quei seni e quei fianchi mi ha invaso. Una gelosia più forte di quella
che provavo per le loro vite
Forgiare una sola di quelle ragazze, togliere
uno a uno i veli e gli strati, berne il succo aspro; berlo fino all'ultima goccia
Il pensiero era senz'altro più inebriante della "Deflorazione di Astarte",
poesia che scrivevo o piuttosto che non scrivevo più da anni
Era
questa, dunque, la trovata: le fanciulle della mia giovinezza sarebbero diventate
subito vecchie come Astarte e come lei divine. Il Grande Abisso che stava per
inghiottirle non sarebbe rimasto nascosto ai mortali come la dimora della dea?
Distribuivo sorrisi. Non sventolavo documenti. Le mie mani vuote erano un
tradimento, il tradimento della speranza altrui
C'era lo zio di Sulamith,
il gobbo con quattromila anni di storia sul viso ossuto. Non parlava la lingua
dei signori né quella dei contadini locali. I suoi capelli erano neri e
grigi. Due colori che richiamavano la fine, così come la mia chioma bionda,
anche senza salvarmi, costituiva un gradino sulla ripida scala della sopravvivenza.
Quel rabbino gobbo non avrebbe potuto nascondere chi era sotto nessun cielo. Mi
lanciò uno sguardo più denso di una parola. Non voleva il consiglio
postumo che gli diedi per pura crudeltà: "Bisogna prendere dei documenti
falsi, farsi passare per uno di loro
". Oh, sapevo bene che non poteva
seguire quel consiglio. Sapevo che più tardi, partita la nave, mi sarei
ricordato della mia perfidia, di quell'aria di superiorità arrogante che
mi concedevano la mia chioma bionda e la mia ineccepibile pronuncia della lingua
del nemico. Fischiò un treno. O era la sirena di una fabbrica lontana?
"Mettete i vostri bagagli ai bordi della piazza. Consegnate l'oro, i gioielli,
il denaro. Gli uomini a sinistra, in fila per cinque
". Attesa, ancora
attesa. Come gli angeli del Signore, i soldati bardati di elmetto e irreali circondavano
la piazza che tremava sommessa. Una volta mollati gli ormeggi, la nave cominciò
a scivolare lenta e pacata.
(Tratto da Il sangue del cielo, Saggio introduttivo e traduzione di Guia
Risari, Schulim Vogelmann n. 131, Giuntina, Firenze, 2006. La foto dell'autore
è di André Bonin.)
Piotr Rawicz (Leopoli 1919 - Parigi 1982), nato in Ucraina e sopravvissuto
all'occupazione tedesca, si stabilì a Parigi nel 1947. Dopo gli studi di orientalistica,
fu giornalista, critico, scrittore, poeta. Poliglotta, scrisse Il sangue del cielo
(1961) direttamente in francese. Il suo romanzo, insignito del Prix Rivarol, fu
immediatamente riconosciuto come il primo romanzo della letteratura della Shoà
e, da alcuni anni, come un capolavoro della letteratura ebraica e mondiale.
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