Il vento è sano Federica
Merani
"Those
are pearls that were his eyes: Nothing of him that doth fade, But doth
suffer a sea-change Into something rich and strange." (W. Shakespeare,
The Tempest, act I, scene 2) |
Fumava
le Gitanes. Prima delle Marlboro rosse. Pacchetto azzurro rettangolare.
Largo. Due zingari che ballano un tango. Senza filtro. Una trentina al giorno
dall'alba al tramonto. Mai dopo le otto di sera. Ce n'è un pacchetto per
terra, sull'asfalto del molo. La luce dei falò, gonne nere e tango.
Saint Marie de la Mer. I gitani. I violini. Zigani. Quindici anni, vent'anni.
Che importa. Tanto tempo. Tanto tempo e basta. Su una barca c'è un
cane che vuole scendere a terra. Trema sulla passerella. Indugia, avanza lento.
Una zampa davanti all'altra. Poi salta. È salvo. Guarda indietro la padrona
che legge, la pianta di basilico legata a una draglia. Mi guarda. Annusa il pacchetto.
Gitanes azzurre. Di nuovo mi guarda. Sorride. Mi sembra. Sa dei miei ricordi.
Delle mie crociere sul Comet. Sa del tango. Dei violini zigani. Gitani. Mi
lesse la mano. Una donna vecchia di soli trent'anni. Mi disse che sarei morta.
Incidente stradale. Non voleva dirmelo. Fa niente, dissi. Fa niente.
Sbagliò persona. Fu lui a morire, non io. Cinque anni dopo in un fosso
a misura di macchina. Uno sbaglio. Ero io che dovevo morire. Non svenire. Morire.
Ci trovarono all'alba. Mi svegliai con le sirene dei pompieri e per primo vidi
il muso di un cane. Da caccia. Un segugio italiano. Sporca di fango. Tanto. Fango
ovunque. Le mani, la maglia, la faccia. Tanto fango. Tanto da morirne affogati.
Non io. Per sbaglio. Era a me che toccava, gitana, l'ultimo tango nel fango. Le
sirene i violini. Inganno zigano. A quel tempo lui fumava le Gitanes.
In barca le fumava a poppa. Dritto in piedi, accanto alla barra del timone alzata.
Un occhio alle cime d'ormeggio. Non voglio vederlo, il pacchetto. Con un calcio
lo butto in mare. Galleggia. Il cane ha uno scatto. Si volta. Mi guarda. Gli dispiace
che soffra. Mi sembra. Comet 910 '73. Farymann 18 hp rev. '89, spi, 2 rande,
2 genoa, 2 ancore, pronto a navigare, visibile Lavagna. Faticai a venderla.
Un supplizio. Salire a bordo mi dava la nausea. Mal di mare, dicevo. Il motivo
per cui la vendevo. Non io. Mai sofferto il mare, io. Adesso non so. Il cane
risale. Barcolla. Gli scivola una zampa. È in bilico. Mi lancio e lo afferro.
È salvo. Si volta e ringrazia. La padrona mi parla in tedesco. Non la capisco.
Indovino. Sorrido, saluto. Proseguo. C'è un Comet come il nostro, più
avanti. Mi affretto. È identico. Mi si stringe la gola, la sento. Respiro.
Altro nome. Whisky. Respiro. Non può essere lei. Non si cambia nome
a una barca. Quasi identica, ma non è la Rosemary. Anche il colore
è lo stesso: blu cobalto le fiancate e rossa la chiglia. Ma non è
lei. Non è la Rosemary. Che cosa c'è in un nome? Mario e
Rosalba. Due vite. I rami legnosi intrecciati di un vecchio rosmarino. Lo
odiavo. Regatare con i suoi amici. Lo odiavo. Giorni e giorni a bordo, senza scendere
mai. A rigovernare. Come se scendere preannunciasse la resa. Non ce n'era motivo,
diceva. E invece c'era, il motivo. Amavo camminare. Quant'era lunga la spiaggia.
Fino in fondo e ritorno. E poi oltre, verso l'interno. Tra i pini storti. Le tamerici,
i ligustri, i mirti e i rosmarini. Senza scarpe. Per ribellione. A bordo non si
poteva stare scalzi. C'erano regole. Non sulla spiaggia, però. Lì
ero sola. Incontravo i gabbiani. Se ne stavano fermi a guardare il mare. Come
statue. Con l'azzurro negli occhi. Gabbiani reali. Se mi avvicinavo troppo prendevano
il volo. Lasciavano soltanto le loro impronte larghe. Tre righe sottili disposte
a raggiera. Nel mezzo, due triangoli di sabbia spianata. Lo odiavo. Gli ordini,
gli urli, le male parole. Non in banchina, però. In porto non si doveva
fiatare. Si doveva attraccare ordinati, ogni cosa al suo posto. Senza fretta.
Il fiocco ben piegato. La randa già coperta. Il copriranda era blu. Rosemary
di bianco. Rosemary. Senza accorgermene mi sono tolta le scarpe. Adesso
cammino più lenta. Per via delle briciole d'asfalto. Si conficcano nei
piedi come le bacche spinose di quelle piante di mare. Non ne ho mai saputo il
nome. Avanzo lungo la banchina. Accanto alle colonnine dell'acqua e della luce.
Ogni tanto evito un cavo, una sistola arrotolata, una bitta. Ho i bermuda beige.
Comodi ma eleganti. Compro le cose in serie. Di questo modello ne ho tre paia.
Uno blu e uno bianco oltre a questo. I pantaloni bianchi non dovrei comprarli.
Sono trasparenti e io non ho più l'età. Le ragazze col bianco portano
il tanga, le vedo. Ma io non l'ho mai avuta l'età per il tanga. Figuriamoci
adesso. Il beige però va bene. Non è trasparente. La maglia è
blu. Un filato di lino pregiato. Di queste ne ho quattro. Morbide. Manica a tre
quarti. Come piace a me. Un'occasione tre estati fa a Ponza. Le lavo a mano con
lo shampoo alla mandorla. Anche i maglioni li lavo così. Per il profumo.
Rimane a lungo ed è buono. Ho sempre avuto un olfatto finissimo. Dalla
spiaggia, secondo come tirava il vento, sapevo esattamente quando a bordo si facevano
il caffè. Arrivavamo almeno due giorni prima della regata. Per ambientarci.
Gli uomini non scendevano mai. Lo facevano per me di ancorarsi il più possibile
vicino alla riva. Perché dovessi nuotare meno per raggiungere la spiaggia.
Mi facevano un favore. Le regate erano in autunno o in primavera, e l'acqua era
gelata. Mi facevano un favore. Ero io che volevo scendere. E scendevo. Non
mi importava se l'acqua era fredda. Mi tuffavo di testa. Ogni volta era come una
sfida. Facevano finta di non guardare, ma guardavano. Poi commentavano a voce
bassa, quando io già nuotavo verso riva. Non risalivo più. Ci stavo
delle ore. Certe spiagge alle spalle avevano uno stagno, con mucche e tori al
pascolo. Mi tuffavo vestita. Pantaloni lunghi e maglietta. Poi facevo asciugare
i vestiti al sole e me li rimettevo. Caldi come la sabbia. Mi facevano pensare
al sesso. I piedi no, quelli restavano scalzi. Andavo fino agli stagni. I tori
mi guardavano fissa. Di tanto in tanto si avvicinavano all'acqua. Bevevano, ma
mi tenevano d'occhio. Per vedere dove andassi, che cosa facessi. I vestiti mi
servivano per i tafani. Le loro punture mi lasciavano la pelle dura e gonfia.
Facevano male. Adoravo il profumo della macchia. La macchia mediterranea.
La mescolanza degli aromi era inebriante. Certe spiagge erano sporche. Non di
rifiuti, però. Le mucche si sdraiavano con i loro vitelli sui tappeti di
posidonie e se ne stavano lì buone, a godersi il sole. A ruminare. Dello
stesso colore delle alghe e della sabbia. L'odore delle posidonie e degli escrementi
diventava troppo forte per il profumo della macchia. O per l'aroma del caffè
che veniva dalla barca. Fu su una di quelle spiagge che un sabato d'aprile trovai
il cadavere di un uomo. Un nero. Era scomparso da giorni. Un povero cristo che
aveva cercato la morte in mare. Non si rassegnava all'idea di vivere lontano dai
figli. La moglie glieli aveva strappati. L'aveva trovata, la morte. Eccome. Nelle
reti di un pescatore. Morte per acqua. Il miracolo della rigenerazione. La metamorfosi.
Those are pearls that were his eyes. Dai suoi occhi uscivano vermi bianchi.
E il loro colore era l'unica cosa che potesse ricordare le perle. Forse. Non
gridai. Non vomitai. Non subito, almeno. Avevo confuso il fetore con tutti gli
altri odori. Ero distratta. Dai colori, dal sole, dalle ginestre in fiore. Percorsi
lenta tutta la spiaggia. Fino alla parte opposta a quella in cui giaceva il corpo,
e mi tuffai. Dimenticai i vestiti ad asciugare. Salii in barca e l'odore del caffè
mi arrivò dritto al cervello. Soltanto allora vomitai. Sporgendomi ordinata
dal pozzetto. Un getto lungo e netto. Poi un respiro. Deglutii. Passò.
Mi guardavano in silenzio. Erano preoccupati, si vedeva. Ogni bracciata uno degli
accenti di quel verso. Those are pearls that were his eyes. Dalla riva
alla barca. Those are pearls that were his eyes. Mario non parlava. Mario.
Mi afferrò appena in tempo. Prima che cadessi, sotto un vortice di soli
e alberi di metallo. In una rete di sartie lucenti. Non svenni. Appena in tempo.
Allora me lo potevo permettere, e non sarebbe successo niente. Ma non svenni.
Rimasi cosciente. A raccontare. Che non c'erano perle, né coralli, né
altro. Erano tutte balle. Si è alzato il vento. Maestrale. Diciotto,
venti nodi. Anche trenta, sotto raffica. Lo vedi arrivare, il vento. Cammina sull'acqua
e la schiaccia, cambiandole il colore. Le bandiere sono già tese. Le drizze
hanno cominciato a battere contro il metallo degli alberi. Tra poco, manovrare
in porto diventerà più impegnativo. Le barche che rientrano dovranno
fare tutto più velocemente. Gli equipaggi staranno pronti a gettare cime,
ad afferrare trappe. Il vento. Il vento è sano. Pescano dalla banchina.
Due uomini. Padre e figlio. Sono italiani. Non penso possano prendere qualcosa
per cui valga la pena di pescare. Finora ho visto solo cefali. Cefali e meduse.
Mi avvicino. Il secchio è pieno d'acqua. C'è un pesce piccolo che
nuota in cerchio. Un'esca. In un sacchetto si muove qualcosa. Esce la testa: una
spigola. Tre etti, forse quattro. Ci sanno fare, i tipi. Prendono spigole. I cefali
li ributtano senz'altro in mare. Ma freschi non sono cattivi. Il pesce fresco
è tutto buono. È quello che mi ripeteva sempre. Quando vedeva la
mia faccia schifata mentre pulivo i muggini. Pulire i muggini mi faceva schifo.
Con quelle loro teste larghe. Gli occhi vitrei, opachi. La bocca piatta. Ci trovavo
di tutto dentro. Preferivo i pesci presi alla traina. Tonni, ricciole. Pesci puliti,
forti, veloci. Bisognava aprirli subito, però. Togliergli le interiora.
Schizzava il sangue dappertutto. Colava via sul fondo del pozzetto. In mare. Quando
erano troppo grossi gli si doveva tagliar via la testa. Non c'era altro modo di
farli entrare nel frigo della barca. Troppo piccolo. Un peccato. Un pesce senza
testa non è più un trofeo. Non è più niente. Cucinavo
per tutti. Gli altri non si lamentavano. Ma lui non era mai contento. Meglio in
compagnia che da soli. Da soli litigavamo. Con gli amici no. Con gli amici era
più facile. Una volta uno di loro ci aveva provato. Il primo di maggio,
dopo una regata di fronte alla Capraia. Eravamo tutti stanchi. Brutto tempo, pioggia,
tanto vento. Si era ferito a una mano nonostante il guanto. Lo stavo medicando
sotto coperta, in porto. Gli altri erano scesi a cercare del vino che li scaldasse
un po'. Non avevamo vinto. Non c'era niente da festeggiare. La barca era lenta,
non vincevamo mai. Gareggiavano per divertirsi, dicevano. Era l'adrenalina. Cercavano
quello, l'eccitazione, la sfida. Durante una virata la scotta della randa gli
aveva bruciato la pelle alla base del mignolo. Un brutto solco. Amuchina, forbici,
garza. Mi aveva respirato nell'orecchio. Due respiri profondi, nient'altro. Mi
erano arrivati all'inguine passando per lo stomaco. Avevo avuto un capogiro. Colpa
della barca. Oscillava. Avevano dimenticato i portafogli. Senza soldi. Erano tornati
a prenderli. Appena in tempo. Non è che volessi tradirlo. No. Era quello
che cercavano loro, del resto. L'eccitazione, la sfida. Stessa cosa. O forse no.
Forse c'era dell'altro. Forse. Non l'amavo abbastanza. Rosemary. Una truffa.
Un inganno. L'avevo amato da morto. Tanto. Capii di amarlo quando lo vidi
coperto di fango. Troppo tardi. Avrei voluto vedere le perle, i coralli. Erano
sotto il fango, mi dicevo. Anche se non era il mare ma un putrido fosso. Non ebbi
il coraggio di sollevarlo, di lavare via il fango. Vomitai tutto il mio amore
in quella macchina chiusa nel fosso. Testimone il cane. È da allora che
parlo agli animali. E loro a me. Sulla banchina c'è una bambina che
corre. I capelli le giocano al vento. Disubbidienti. Con la mano li schiaccia.
Saltella. Raccoglie briciole d'asfalto. Le butta nell'acqua. Spaventano i pesci.
Sorride. Non c'erano stati bambini. Nessuno dei due si era chiesto il perché.
Non c'erano state domande. All'inizio. Erano bastati i nipoti. I due maschi e
la piccola Alice. Li portavamo in barca. Si divertivano un mondo. Giocavano ai
pirati. Gli arrembaggi, i tesori. E noi agli zii. Poi andavano a casa. Il vantaggio
dei figli degli altri. Quando cominci a stancartene li rimandi al mittente. All'inizio
non ci facevo caso. Poi sì. Al silenzio. Quello che restava quando se ne
andavano. Quando i bambini tornavano a casa. Il silenzio. Quel silenzio lo odiavo.
Quando cominciai a sentirlo era già troppo tardi. Troppo tardi per dirlo.
A lui, a me stessa. Avvertii la sconfitta. Non seppi reagire. Non volli. Mi spensi.
Come si sgonfia una vela quando l'ultima brezza la lascia. Poi più niente.
Bonaccia. La bambina si volta. Una voce la chiama. Lontana. Si perde nel
vento. Ritorna. La bambina si ferma. Aspetta. La mamma. I capelli le giocano al
vento. Con la mano li schiaccia. Sorride alla figlia. Se ne vanno. Il silenzio
è quello che resta. Per fortuna c'è il vento. Una drizza che
sbatte. Vicina. Un uomo in ciabatte avanza lungo la banchina. Ha un asciugamano
in vita. Non gli tiene la pancia. Straborda. Non è tipo da vela. Un motoscafista.
Farebbe meglio a portare la maglia. Nel porto ci vuole decenza. Decenza. E poi
puzza. Il suo odore mi arriva col vento. Di sudore e di crema. Di grasso. Disgusta.
Lo incrocio. È passato. Il vento ritorna pulito. Il vento è sano. Lo
convinsi a comprare un gommone. Come tender. Perché fosse più facile
scendere a terra. Dovunque. Dalla baia alla spiaggia. Dalla rada al molo. Con
il motore. Ce l'aveva coi motoscafi, lui. Passavano sempre troppo vicini. Facevano
onda. La prima volta che lo usammo gli cadde in mare il motore. Gli scivolò
dalle mani per via di quell'onda. Mentre dalla barca lo fissava al gommone. Non
mollò la presa. Andò a fondo anche lui, abbracciato al motore. Non
lo volle mollare. Si tuffarono a prenderli con una cima. Lui e il motore. Gli
diedero del matto. Poi risero. Una storia da raccontare. Ridevo anch'io. Senza
metterci il cuore, però. Avevo avuto paura. Ero arrabbiata. Colpa mia,
mi aveva detto. Io e il mio gommone. Lo odiavo. Il modo in cui riusciva a farmi
sentire in colpa per tutto. Eravamo andati a ballare la notte del salto nel fango.
Ero io che volevo ballare. Il tango. Colpa mia se era andata così. Mia
l'idea, mio il destino, la colpa. Mi curo con l'omeopatia. Fiore di loto, la
mia panacea. Mi toglie i mali e mi asciuga la colpa. Due o tre gocce sulla lingua
e respiro. Fa effetto in un lampo. I mali dello spirito. L'ansia. Ma adesso
c'è il vento. Mi basta. In aumento. Mi arrivano gli aromi della macchia.
Insieme al profumo di schiuma da bagno. Muschio bianco. Più in là
qualcuno prepara la cena. Carne in padella. Salvia, aglio e rosmarino. Entrecôte.
Carne corsa. Ho visto la macelleria su in paese. Solo carne locale di prima scelta.
Nella strada che porta alla piazza con la fontana. L'acqua zampilla dalle bocche
di quattro rane di bronzo. La Cittadelle. Saint Florent dall'alto. Più
tardi ci andrò. A guardare il vento. Rinforza. La cima di un albero
percorre il profilo del frangiflutto. Una barca dirige in porto. Sta scendendo
il sole. Ho un brivido. È il vento. Sun Odissey 43. È all'ingresso,
adesso. Verde a destra, rosso a sinistra. Una raffica le punge il fianco. Avanza.
Viene verso di me. Dove finisce il molo. C'è posto. È sola. La prua
vira. Manovra. Attraccherà di poppa. Motore indietro. Elica sinistrorsa.
Vorrei aiutare. Forse. Ancora non ho deciso, vedrò. Adesso indietro. Piano.
Sono in quattro. Si bastano. Però c'è il vento. Due sono donne.
Ragazze. Devo decidere adesso se aiutare o no. La barca si sta già intraversando.
Ho deciso. Mi chino. Afferro la catena del corpo morto e recupero. La poppa è
vicina. Porgo la trappa. L'uncino di un mezzo marinaio la aggancia. Presa. Un
giovane biondo corre veloce a prua. Il timoniere mi lancia una delle cime di poppa.
A doppino. Io so come fare. Me lo ricordo. Mi ricordo tutto. Avvolgo la cima alla
bitta. Bandiera inglese. Rilancio. È ferma. Gadabout. Il motore
continua a girare. Girerà ancora per un po'. Poi qualcuno lo spegnerà.
C'è rimasta l'altra cima di poppa da assicurare all'anello della catena.
Adesso è a posto. Sono stati bravi. Non hanno gridato. Sicuri. Ordinati.
Tutti vestiti. Le vele a riposo. La randa coperta, il fiocco ben avvolto. Le cime
rifatte. Hanno le facce serie. Le ragazze sono sorelle. Il giovane è il
fidanzato di una delle due. Sono tutti biondi tranne il timoniere. Il padre delle
ragazze. Ha la barba. Sulla sessantina. È più disteso adesso. Ringrazia.
Verifica le cime d'ormeggio. Sono tutti scalzi. Una delle ragazze porta un anello
d'argento a un dito del piede. Dita lunghe. Sono magre tutte e due. Portano dei
top colorati. Dei prendisole. Hanno i capelli legati. Anche il ragazzo ha i capelli
lunghi. Coda di cavallo e accento stretto. Mi allontano. La banchina è
finita. Non si può andare avanti. Torno indietro. I capelli mi giocano
al vento. Con la mano li schiaccio. Sospiro. Sorrido. Il faro è in funzione.
I due pescatori. La canna si piega. Ha abboccato. È grosso. Tira forte.
Non molla. Si avvicina l'ora migliore. Non ho cenato. Non ho fame. Non ancora.
Più tardi mangerò una crêpe. Zucchero e limone. Alla Crêperie
du Port. Insegna luminosa gialla. Mi fanno male i piedi. Le scarpe. Le ho lasciate
sulla banchina davanti alla barca. Le avevo posate a terra, per aiutare. Le ho
dimenticate. Non mi importa. Anche scalza andrà bene. Non tornerò
indietro. Sono costretta a voltarmi, però. Qualcuno chiama. Me. Forse. -
Madam! Your shoes! Ha in mano le mie scarpe. Sorride. Ringrazio. Gli guardo
la barba. È folta. Gadabout. Non so che vuol dire. È scalzo.
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