Nessuna
isola è un'isola
- Un'intervista con Carlo Ginzburg -
Carlo Ginzburg
Ai suoi occhi la storia è tutt'altro che una disciplina chiusa.
Bisogna saper indagare ai margini, saper cogliere gli incontri imprevisti (un
aneddoto, un rituale, un manifesto di propaganda
), essere attenti al dettaglio,
alla traccia, o quasi niente. La pupilla del suo occhi (nero intenso, scintillante
sotto delle sopraciglia spesse e ribelli) assomiglia ad una lente di microscopio.
Quando la punta su un minuscolo evento, questo, per miracolo, diventa parlante.
È così che ha "inventato" la "microstoria".
"È successo nel 1970, con un gruppo di compagni. La nostra idea
era quella di esaminare minuziosamente qualche realtà e di porre il problema
della generalizzazione attraverso dei casi." Questi "microstorici"
praticano il "metodo dell'indice", invocando sia Freud che Sherlock
Holmes. Ciò non può non suscitare qualche agitazione tra i seguaci
dell'ortodossia! "I miei soggetti sembravano dubbi. Queste storie
di streghe, il mio tentativo di riconciliare i processi e le credenze delle persone
accusate di stregoneria, tutto ciò apparteneva piuttosto al dominio degli
antropologi. Il problema è che quest'ultimi non lavorano sugli archivi
dell'inquisizione". Da qui l'idea che bisognava inventare dei percorsi
nomadi, avvicinarsi a delle discipline connesse: l'antropologia, il diritto, l'economia
e,
perché no, la letteratura. Per l'appunto, con Nessuna isola è
un'isola, Carlo Ginzburg indaga sul territorio degli scrittori. È un
campo a lui familiare. L'anno della sua nascita, il 1939, suo padre fonda ( con
Giulio Einaudi e Cesare Pavese) le edizioni Einaudi. "Insegnava letteratura
russa. Ma, dal momento che aveva rifiutato di prestare giuramento al regime fascista,
perse il suo posto." Quando, nel 1944, muore in prigione a Roma il piccolo
Carlo ha 5 anni. Sua madre, la scrittrice Natalia Ginzburg, si rifà una
vita con uno studioso di letteratura inglese. Durante la guerra, il bambino si
diletta con i racconti e le leggende degli Abruzzi, dove lui e sua madre sono
rifugiati. "Posso dire di essere cresciuto in un luogo in cui la letteratura
faceva parte dell'ambiente, intellettuale e anche fisico.", sottolinea
con nostalgia. È per tornare alle sue radici che oggi si concentra sulla
letteratura inglese? In Nessuna isola è un'isola, Carlo Ginzburg
propone "quattro sguardi" sugli scrittori d'oltre Manica, attraverso
delle figure così diverse tra loro: Tommaso Moro, il vecchio e il nuovo
Mondo visti da "Utopia"; Sir Philip Sydney, autore di Difesa della
poesia all'epoca elisabettiana; Laurence Sterne, di cui il Celebre Tristam
Shandy si presenta, per lui, come una risposta al dizionario di Bayle; e di
Robert Louis Stevenson, cita Tusitala (" il narratore",
in lingua samoa), di cui lo storico mostra l'influenza che ha potuto avere sulle
ricerche etnografiche in Polinesia. Ogni "sguardo", estremamente
denso e erudito, meriterebbe ( oltre ad un omaggio al traduttore) una critica
a parte. Ma la riunione dei quattro mostra come l'isolamento insulare è
un illusione; come i libri attraversano gli oceani e le frontiere, come nel caso
de L'Utopia, i cui principi comunitari sono stati messi in pratica perfino
nel più profondo Messico. Ancora più importante: Ginzburg ci
guida verso una questione che, da tanto tempo, tiene a cuore: i rapporti tra "letteratura
di finzione e letteratura storica". " Sono sempre stato appassionato
di questo soggetto, spiega. Io vedo il rapporto tra queste due forme di
narrazione come una competizione permanente. Un combattimento che ci riporta all'Antichità
(Erodoto secondo Omero) che si insegue attraverso i secoli; è Balzac che
esclama: "Io sono il più grande storico del XIX secolo", e che
trova un punto d'incontro nel XX secolo con Proust o anche con Joyce. Mi sembra
che ci sia una sfida implicita lanciata dai romanzieri agli storici. Pensate alla
maniera in cui "La Ricerca del Tempo perduto" lega i destini individuali
ai grandi eventi storici proprio come l'affare Dreyfus. In generale, gli storici
non si sono accorti di questa sfida. Tuttavia, mi sembra che sia importante rispondere.
Forse rapidamente, ma è un punto sul quale bisogna riflettere."
Colloquio
Carlo Ginzburg: "Preferisco
avere fiducia nel reale." A Milano il 17 maggio del 1972 un uomo
viene ucciso a bruciapelo. Il suo nome: Luigi Calabresi, capo della divisione
politica della polizia milanese. Identikit-robot dell'assassino: uomo giovane,
capelli castani, 1 metro e 80 centimetri di altezza. Falsamente assorto nella
lettura di un giornale, l'assassino attendeva la sua vittima all'uscita della
sua casa. È fuggito a bordo di una Fiat 125 blu. Ancora vivo nella memoria
collettiva italiana, questo omicidio è uno dei più sconcertanti
degli "anni di piombo". Anche uno dei più imbarazzanti. Il processo
che l'ha seguito, costruito interamente sulla parola "contraddittoria
e vacillante" di uno pseudo-pentito, ha portato alla condanna a venti
anni di prigione di Adriano Sofri, uno dei leaders del Maggio del'68 italiano.
Un Dreyfus transalpino? È quello che ha sempre sostenuto lo storico
Carlo Ginzburg, il cui nome viene subito alla mente quando rammentiamo questo
caso. Come Voltaire per Calas, come Zola per Dreyfus, Ginzburg persuaso dell'innocenza
del suo amico Sofri, si è buttato a corpo morto nella battaglia per il
diritto della verità. "Com'è possibile che, alla fine
del XX° secolo, in un paese democratico la cui Costituzione è una delle
più chiare d'Europa, sia tranquillamente enunciato una condanna giuridicamente
irrevocabile e sistematicamente reiterata che vale a dire una condanna a morte?",
s'indignava Ginzburg qualche anno fa, nelle colonne del quotidiano Le Monde.
Nel Il Giudice e lo Storico, proclama il suo "furore" davanti
un processo senza prove: "La pallottola trovata nel cadavere del commissario
come anche i vestiti sono stati distrutti dalla stessa polizia, con il pretesto
che non aveva posto per conservarli! Stessa cosa per la Fiat, con la scusa che
il
bollo non era stato più pagato da cinque anni!" Nel dicembre
2005, l'affare Sofri ha preso nuovo campo. Il ministro italiano della giustizia
ha reso noto che si opponeva alla grazia accettata dal presidente Ciampi. Ma Ginzburg,
questa volta, non desidera dire più niente. Prudenza? Tristezza? All'ultimo
piano di un immobile medievale di Bologna, a due passi dalle celebri torri pendenti,
Carlo Ginzburg riceve i visitatori nella sua cucina. Per semplicità oltre
che
per necessità. I muri, i pavimenti, i tavoli di tutte le altre
stanze sono invasi da libri, giornali, dossiers, articoli, documenti
Solamente
la cucina fugge da questa baraonda. Un alt benefico per intellettuali iperattivi
, improvvisamente assomiglia a tutte le cucine, lontana dai concetti, ma con strofinacci
a quadri e con foto di bambini sul frigorifero. Carlo Ginzburg ha posato i suoi
grandi occhiali e i suoi gomiti sul tavolo. La sua voce grave e profonda,
la sua eloquenza e la sua erudizione da far venire il mal di testa: tutto si impone
in un uomo dalla statura da imperatore. Ma all'improvviso, esita. "Voi
sapete, dice, visibilmente provato. Sofri è molto malato in questo
momento. È in un reparto di rianimazione, non possiamo neppure vederlo
"(1). Una
pausa. L'uomo passa la mano tra questa grossa zazzera sale e pepe che gli dona
talvolta un aspetto bacchico. Poi riprende, in un francese impeccabile. Racconta
la similitudine che l'ha sempre colpito tra questo processo e quelli dell'inquisizione,
sui quali ha lavorato per lungo tempo. Logica pervertita, "sotterfugi,
pressioni indotte, volontà ostinata di punire": ciò che
lo appassiona, è il modo in cui si può, partendo da presupposti
comparabili, affermare il vero e scrivere la storia. "Ogni processo,
dice, è una sorta di esperimento storiografico in vivo." Carlo
Ginzburg è tutto qui. Un intellettuale impegnato nei dibattiti attuali
alla stessa maniera di un cercatore capace di consacrare degli anni interi a spulciare
i minuti di processo per stregoneria. Uno storico assorto nel libretto dei
risparmi di un mugnaio del Friuli nel XVI° secolo; un anticonformista della
storia dell'arte, passando al setaccio (molto personale) le opere di Giotto o
di Piero della Francesca. Un agitatore dalle folgoranze geniali, interessato a
Berlusconi (che non frequenta) come ai marginati e ai senza voce. "Ho
sempre avuto l'intuizione che 'gli altri', i bambini, gli idioti, gli animali
stessi, colgono qualcosa di molto profondo che non vedono quelli che vivono nel
pieno degli avvenimenti." Come? Secondo il metodo Ginzburg: io non
so niente e mi servo di questo niente come di una leva di comando. Ginzburg dice
che è diventato storico "perché non sapeva niente"
e che è "molto utile avere questa impressione d'ignoranza, di porsi
delle domande là dove gli altri non vedono." Partendo da questa
opacità, tira un riga. "Vi ricordate, nel Le luci della città,
c'è questa scena dove Chaplin è lì con la sua maglia scucita.
All'improvviso arriva la ragazza cieca che, senza saperlo, comincia a disfarla
totalmente. Amo molto questo passaggio. Il ridere corretto dalla crudeltà.
La metafora del tutto che nasce con un semplice punta di filo. Nel mio mestiere,
c'è questo momento, uno dei più belli per me, dove si creano delle
ipotesi al buio. Si dice: 'Si potrebbe vedere questo e quello.' Si costruisce
qualcosa che può risultare completamente falso che allora si potrà
disfare totalmente." Malgrado la coerenza nascosta della sua opera,
Ginzburg ammette che la sua mania di "attaccarsi continuamente a dei soggetti
diversi è forse proprio legata a ciò: al piacere di questo riconoscimento."All'ebbrezza
delle intuizioni. Alla fragilità dei castelli di carta. Quanto alla letteratura,
non è ancora pronto a lasciarla. Attualmente lavora su Dante ma rifiuta
di dirci di più. E la sua raccolta sull'Inghilterra sarà presto
prolungata da delle ricerche su Stendhal, Voltaire e Montaigne. Avrà
la voglia incosciente di passare dall'altra parte dello specchio? Ride. "Scrivevo
dei romanzi quando ero giovane, ma no, no
preferisco attenermi alla realtà.
La sua immaginazione è molto più potente della mia. Lei m'interessa
molto di più. E poi, che cosa è la storia se non una finzione
che
cosa può essere provato?" Nota 1)
Adriano Sofri ha lasciato l'ospedale martedì 17 gennaio. Ha raggiunto la
sua casa. La sua pena è stata sospesa per sei mesi alla fine del mese di
novembre 2005.
(Articolo apparso
nell'edizione del 20/01/06 di Le Monde, traduzione di Samanta Catastini)
Carlo Ginzburg è nato a Torino nel
1939, insegna al dipartimento di Storia dell'Università di California-Los Angeles
(UCLA). Figlio della scrittrice Natalia Ginzburg, si è formato con la lettura
di Freud, Adorno, Auerbach…è profondamente marcato dai lavori di March Bloch (I
tre Taumaturghi. La società feudale.) In Francia, ha pubblicato con successo
Le Battaglie notturne (Verdier 1980), Inchiesta su Piero della Francesca
(Flammarion, 1983), Miti, Emblemi e tracce (Flammarion, 1989), Il Sabato
delle streghe (Gallimard 1992)e I Formaggi e i versi (Aubier, 1993).La
sue considerazioni sul processo Sofri, Il Giudice e lo Storico (Verdier
1997), hanno dato luogo, per Arte, ad un appassionato documentario di Jean Louis
Comolli. Con lo stesso cineasta, Carlo Ginzburg prepara un nuovo film, di cui
un estratto- su Giotto e Dante a Padova- è stato proiettato in dicembre a Firenze.
Questo autunno, Carlo Ginzburg insegnerà per un mese all'Università Parigi VII
.
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