Imperfette solitudini

- Un capitolo del romanzo -

 

Liliana di Ponte



5 agosto, notte

Seduti ad una tavola apparecchiata, una cena tra amici. Lui ha un'aria distesa e sorridente. Lei stranamente triste, come assente, guarda un punto indefinito, verso il basso. Persa dietro un suo pensiero, indifferente agli altri. È dimagrita, il viso un po' sciupato, il rosso dei capelli spento nel grigio. Gli occhi chiari sempre belli, nonostante la tristezza. Forse già malata, ma non ancora entrata nella spirale delle diagnosi, delle operazioni, delle terapie. Della disperazione. Non la sua, che se c'era non lo dava a vedere. Coerente fino in fondo con la sua immagine (che era sostanza) di donna forte, che la vita l'affrontava senza subirla.
Abbiamo saputo da lei, fatte tutte le analisi, dell'intervento necessario. La parola cancro, con lei e da lei, non è mai stata pronunciata. Così che, alla fine, mi è rimasto l'assurdo dubbio che non sapesse. In realtà sapevi che le parole a volte piombano sulle spalle come macigni. E che ci si può salvare non pronunciandole mai. Ignorare l'evidenza, pur vedendola riflessa ogni giorno nello specchio, a memoria implacabile. Noi siamo stati al tuo gioco, attori secondari come sempre.
Ho ricordi vaghi e confusi di quel periodo. Il tempo di iscrivermi all'università e in capo a poco più di un anno era tutto finito. Non ho mai perso un esame, ho continuato ad avere la mia casa di studente, gli amici, fino agli ultimi mesi. Ma eri il mio pensiero fisso. Vivevo la disperazione del presente ignobile e dell'assenza futura. Non c'era scampo e non lo cercavo nemmeno. Forte come te, o come pensavo tu mi volessi, ho tenuto duro. Ho fatto tutto quello che c'era da fare. i medici, gli ospedali, le terapie, anche i guaritori da ultimo. Ho coltivato la speranza dell'impossibile e la certezza dell'inutile con la stessa forza rabbiosa. Ho guardato il tuo corpo devastato e mi sono sorpresa a preoccuparmi dei segni che sarebbero rimasti, a deturparne la bellezza. Sono arrivata alla fine un passo dopo l'altro, concentrata come un alpinista che guarda solo alla vetta.
Ho ricordi vaghi e confusi di quel periodo. Ma nitidi degli ultimi giorni. Finalmente l'incoscienza a smorzare il dolore. Le bombole di ossigeno. Le veglie ininterrotte accanto al letto. Per tenermi occupata lavoravo all'uncinetto, come mi avevi insegnato. Compulsivamente, in pochi giorni e tante ore, ho fatto un vestitino rosso e blu per la bimba di Piero, che aveva un anno. A zia Mema quell'occupazione sembrava superflua e disdicevole, come un segno di disinteresse. Quel vestito è stato l'àncora che mi ha tenuta a terra. Il compito da portare a termine quando non ce n'erano più altri. Non hai potuto vederlo, per dirmi se era fatto bene. Ma addosso alla bambina era bellissimo. Perché non ho chiesto che me lo restituissero, quando non le andava più? (Di certo ora non sarebbe caduto vittima dello space clearing).
L'ultima notte, e non sapevo che era l'ultima, il vestito era finito. Ho lasciato la poltrona e mi sono sdraiata accanto a te, che non sentivi nulla. Ho urlato senza voce. Ti ho chiamata, ti ho scossa, ho sentito lo schianto sterile dell'ultimo abbraccio. Ti ho ordinato di svegliarti e di non andartene. Naturalmente non mi hai ascoltata. È stato il mio modo di congedarmi da te. Rabbiosa e disperata, vinta ma non rassegnata. Davvero non mi sentivi? O eri troppo stanca e avevi ormai deciso di andare? Cosa pensavi, prima che arrivasse il buio? Sapevi tutto o ti raccontavi un'ultima bugia?
Col tempo, ho vuotato gli armadi. Incredibile come un odore o un profumo rimangano così a lungo, ostinati, quando non ce n'è più motivo. Per anni mi è capitato di sognarti. Ritornavi, all'improvviso, a farmi impazzire di gioia incredula. Per poi ripiombare giù, perché non era vero.
Da tanto non ti sogno più. Ho elaborato il lutto? come si usa dire. O più semplicemente ho dimenticato, perché tutto passa e si consuma e non è vero che il tempo guarisce le ferite, le copre soltanto.

Un album di finta pelle con stemmi colorati in rilievo. Ci sono solo le tue foto, raccolte in ordine cronologico. Da ragazza, con una donna che abbracci in modo protettivo. Con gli amici, mascherati per un carnevale. Con le colleghe di lavoro, col camice nero e il colletto bianco che usava allora. E poi con noi. Al mare, in qualche città dove eravamo andati in viaggio, in varie feste familiari. Ci sono battesimi di bambini che non so più chi sono. Matrimoni di cugine lontane. Compleanni di piccole amiche mai più riviste. Gite in campagna. La mia prima comunione, il matrimonio di Piero. Nelle cerimonie sei elegante, hai un cappello sempre diverso (li ho dati via tutti, ma a chi?). Con la corta veletta, a tamburello, a falda, a forma di strana mezzaluna sulla fronte. In tutte sembri avere un posto centrale. È così che ti ricordo. Discreta ma mai in disparte, come se in ogni circostanza fossi esperta di qualcosa. Ti chiedevano consigli, ti facevano confidenze, intervenivi in problemi e dissidi familiari (come se non bastassero i nostri). Ero esclusa da questa rete di rapporti, anche da grande. C'era sempre qualcosa di misterioso che non dovevo sapere. Ero tenuta all'oscuro delle vicende della nostra famiglia, forse perché mi toccasse solo la parte di dispiaceri strettamente inevitabile. Anche per questo sentivo che mi sfuggivi sempre. Mi mancavi, anche quando c'eri.
Quest'album l'ho messo insieme nei giorni più disperati. Eri andata via da poco e la casa era ancora troppo piena di te. Dei mobili che avevi scelto, delle tende che avevi fatto cucire, dei vestiti che avevi indossato. Della malattia, che aveva dato alla tua stanza da letto un odore da ospedale. Erano i giorni degli armadi aperti per catturare il tuo odore, prima che scomparisse. Dell'illogica speranza dietro i vetri della finestra, nell'ora in cui rincasavi dal lavoro, casomai fossi tornata. Del dolore solitario e senza voce. Dei pensieri rabbiosi "perché proprio a te".
L'album ha scandito quelle ore buie. Rivedere tutta la tua vita fino alla sua conclusione le ha dato un senso. Alcune foto, dove eri con lui, le avevo tagliate. È stata un'inutile cattiveria. Quei tagli non sono serviti a legarmi di più a te (non ce n'era bisogno). Mi hanno invece ricondotta, negli anni, a lui.
Quella metà strappata via è stata il segno tangibile della sua esclusione. Il rimorso duraturo della sua solitudine. La prova irrimediabile della mia responsabilità.

Questa è una delle poche foto in cui sono sola con mia zia. Sedute su una panca di legno accanto alla porta d'ingresso. Nell'aia davanti alla casa passeggiano alcune galline. Parcheggiata sotto il grande noce, la cinquecento blu che avevo allora. Una vecchia casa di campagna in pietra, col fascino delle cascine di una volta. Il pavimento in cotto sconnesso, la cucina grande col camino, le stanze da letto con i mobili austeri, una cantina esterna che serviva da legnaia e da ricovero per le galline. L'avevi ereditata da una tua parente ma, finché eri stata con noi, non ci avevi mai abitato. Zia Mema l'ereditiera, ti prendevamo in giro. Ci andavamo tutti insieme, le domeniche d'estate soprattutto, per mangiare e stare all'aperto. Altre volte ti accompagnavo da sola. per
arieggiare le stanze, quasi sempre chiuse, e togliere un po' di polvere. In quelle occasioni mi raccontavi dei tuoi parenti, episodi della giovinezza, ma sempre con una certa reticenza, conte se ricordare ti costasse fatica.
Quando lei non c'era più hai deciso di lasciare la nostra casa, dove eri stata per vent'anni. Il sodalizio era spezzato per sempre. Non c'era più motivo di restare. Piero era ormai sposato. Io ero quasi sempre via per l'università. Con lui i rapporti erano sempre stati burrascosi e, anzi, ti rimproverava di alimentare la discordia. Ormai passava lunghi periodi da Piero, anche se non imparò mai a fare il nonno. Scontava il suo passato di esule in famiglia e la separatezza era diventata la sua condizione naturale. Io, di ritorno dall'università, stavo un po' da te, in campagna, un po' a casa nostra.
La famiglia che ti era capitata in sorte era ormai dispersa. Non hai mai avuto una vita tua, ti sei dovuta accontentare di vivere le vite degli altri. E quando queste hanno preso direzioni che ti escludevano, anche il corso della tua è stato bruscamente deviato. Ti sentivi sola? Vivevi il senso del fallimento, oltre che della disgregazione? Forse aspettavi che avessi anch'io una casa, per riportare indietro l'orologio e tornare a fare la zia con nuovi bambini. Non ce n'è stato il tempo. Quando è nata Camilla le tue abitudini erano troppo radicate per cambiare. Venivi per periodi anche abbastanza lunghi ma poi volevi tornare nella tua casa di pietra, alle galline, all'orto, ai vicini con cui eri in buona compagnia.
Ora penso che avrei dovuto fare di per farti restare. Ma ero giovane ed egoista. Scomparsa in un amen quella di prima, volevo una vita tutta nuova. Stanze senza echi del passato, mura senza alcuna storia da raccontare, passi di persone sconosciute.
Non ho saputo farti posto. Non me l'hai mai fatto pesare. Hai accettato, senza dirlo, che chiudessi la porta su quei vent'anni che erano stati la nostra vita. Hai indovinato, da lontano, qualcosa dell'ansia disordinata che riempiva i miei nuovi giorni. Forse non approvavi ma avevi rinunciato a fare "la suocera". Quel ruolo era scomparso insieme a lei. Sapevi che non potevi prendere il suo posto.
Ancora una volta, e definitivamente, un passo indietro.




(Tratto dal romanzo "Imperfette solitudini", Jaca Book, Milano, 2005))


 

Liliana di Ponte, pugliese di origine, vive da 15 anni nella campagna lucchese e lavora al Comune di Lucca. In passato ha insegnato nella scuola media ed è stata a lungo bibliotecaria nella Biblioteca Provinciale di Foggia, dove curava in particolare progetti di promozione della lettura in età scolastica. In quest'ambito ha pubblicato su varie riviste di pedagogia e biblioteconomia. È coautrice del libro "Facciamo fotografia", dell'editrice Paravia di Torino. Gionalista pubblicista, collabora con il quotidiano Il Tirreno e con diversi periodici.



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