I
Nel
mondo contemporaneo la richiesta di multiculturalismo è forte. Il multiculturalismo
è invocato a gran voce nella pratica sociale, culturale e politica, soprattutto
nell'Europa Occidentale e in America. Questo non sorprende affatto, dato che gli
accresciuti contatti e interazioni a livello mondiale, e soprattutto le diffuse
migrazioni, hanno posto culture diverse l'una accanto all'altra. L'ampia accettazione
del precetto di "amare il prossimo" aveva probabilmente avuto origine
dal fatto che i vicini conducevano più o meno lo stesso tipo di vita ("Continuiamo
questa conversazione la prossima domenica mattina, quando l'organista fa una pausa"),
ma per osservare quel precetto oggi, è necessario riuscire a provare interesse
per un prossimo il cui modo di vivere è molto diverso. Che non sia un compito
facile è stato mostrato ancora una volta dalla confusione che circonda
le recenti vignette danesi sul profeta Maometto e dal furore che hanno creato.
La natura globale del mondo contemporaneo, peraltro, non ci concede il lusso di
ignorare gli ardui problemi che il multiculturalismo pone.
Una delle questioni
principali riguarda il modo in cui gli esseri umani sono considerati. Devono essere
classificati secondo le tradizioni (in particolare la religione) della comunità
in cui sono nati, e questa identità non scelta deve avere la priorità
rispetto ad altre affiliazioni riguardanti la politica, la professione, la classe,
il genere, la lingua, la letteratura, l'impegno sociale e molte altre? O le persone
devono essere considerate sulla base delle loro varie affiliazioni e associazioni,
secondo priorità che spetta a loro decidere (assumendosi la responsabilità
di una scelta ragionata)? Dobbiamo inoltre valutare l'opportunità del multiculturalismo
basandoci sulla possibilità che le persone con background culturali diversi
siano "lasciate sole", o su quella che la loro capacità di scegliere
in maniera ragionata sia sostenuta dall'istruzione e dalla partecipazione alla
società civile? Non si possono eludere questi punti fondamentali se vogliamo
valutare il multiculturalismo in modo equo.
È utile, quando si discute
della teoria e della pratica del multiculturalismo, soffermarsi particolarmente
sull'esperienza inglese. L'Inghilterra è stata all'avanguardia nel promuovere
un multiculturalismo inclusivo, che è passato attraverso successi e difficoltà,
e il cui esempio è importante per gli altri paesi europei e per gli Stati
Uniti. Nel 1981 in Inghilterra, a Londra e a Liverpool, vi sono stati disordini
per ragioni razziali, anche se non paragonabili a quelli che si sono verificati
in Francia nell'autunno del 2005, e questo ha portato a un ulteriore sforzo verso
l'integrazione. Negli ultimi venticinque anni, la situazione è rimasta
stabile e piuttosto tranquilla. In Inghilterra il processo di integrazione è
stato favorito dal fatto che tutti i residenti provenienti da paesi del Commonwealth,
che costituiscono la maggior parte degli immigranti non bianchi, hanno da subito
pieno diritto di voto, anche quando non hanno la cittadinanza inglese. L'integrazione
è stata anche favorita dal trattamento non discriminatorio nei confronti
degli immigrati in materia di assistenza sanitaria, scuola e previdenza sociale.
Nonostante tutto questo, però, negli ultimi tempi l'Inghilterra ha constatato
la emarginazione di un gruppo di immigrati e la presenza di un terrorismo allevato
in casa propria. Giovani musulmani provenienti da famiglie di immigrati - nati,
istruiti e cresciuti in Inghilterra - hanno ucciso molte persone nel luglio del
2005 a Londra in un attacco suicida.
Le discussioni sulla politica multiculturale
inglese, perciò, hanno una portata assai più vasta e suscitano interesse
e passioni assai maggiori di quel che i limiti della questione in sé farebbero
pensare. Sei settimane dopo gli attacchi terroristi di luglio a Londra, quando
Le Monde pubblicò un articolo intitolato "Il modello multiculturale
inglese in crisi", al dibattito si unì subito il leader di un'altra
istituzione liberale, James A. Goldston, direttore dell'Open Society Justice Initiative
in America, che definì l'articolo del Monde "esagerato" e replicò:
"Non usiamo la minaccia del terrorismo per giustificare l'archiviazione di
un quarto di secolo di successi raggiunti dagli inglesi nel campo delle relazioni
razziali." Qui c'è un'importante questione di carattere generale che
va presa in considerazione e discussa.
Io sostengo che il vero problema
non è se "il multiculturalismo sia andato troppo in là"
(Goldston sintetizza così una delle posizioni dei critici), ma quale forma
specifica debba assumere il multiculturalismo. Il multiculturalismo è solo
la tolleranza della diversità delle culture? Non fa differenza se chi sceglie
le pratiche culturali è un bambino a cui sono imposte nel nome della "cultura
della comunità" o è una persona che decide liberamente e che
ha adeguate possibilità di informarsi e di ragionare sulle alternative?
Quali opportunità hanno, a scuola o nella società in generale, i
membri di comunità differenti di conoscere altre religioni e di capire
come ragionare sulle scelte che gli esseri umani devono fare, foss'anche implicitamente?
II
L'Inghilterra,
dove sono giunto nel 1953 da studente, colpisce particolarmente per la capacità
di dare spazio a culture differenti. Per molti aspetti la strada percorsa da allora
è stata straordinaria. Mi ricordo (con tenerezza, devo ammettere) quanto
fosse preoccupata la mia padrona di casa di Cambridge della possibilità
che il colore della mia pelle potesse venir via facendo il bagno (dovetti rassicurarla
che era resistente e durevole) e la cura con cui mi spiegò che la scrittura
era un'invenzione della civiltà occidentale ("nata con la Bibbia").
Per chi ha vissuto - a intermittenza, ma per lunghi periodi - la grande evoluzione
delle diversità culturali in Inghilterra, il contrasto tra il paese di
oggi e quello di mezzo secolo fa è incredibile.
Aver incoraggiato
le diversità culturali ha certamente migliorato la qualità della
vita delle persone. Ha permesso all'Inghilterra di diventare un posto eccezionalmente
vivace in molti campi. Dalle gioie del cibo, della letteratura, della musica,
della danza e delle arti multiculturali all'incantevole confusione del carnevale
di Notting Hill, l'Inghilterra offre alla sua gente - di tutte le provenienze
- molto di cui godere e compiacersi. Accettando le diversità culturali
(e dando il diritto di voto, i servizi pubblici e la previdenza sociale senza
discriminazioni, come si è detto) ha permesso a persone di origini assai
differenti di sentirsi a casa propria.
Vale la pena di ricordare, però,
che accettare stili di vita e priorità culturali differenti non è
sempre stato facile neppure in Inghilterra. Vi era la richiesta, sporadica ma
ricorrente, che gli immigrati abbandonassero il loro stile tradizionale di vita
e adottassero quello della società in cui si erano stabiliti. A volte questa
richiesta giungeva a considerare aspetti culturali assai dettagliati, collegati
a comportamenti di minima entità, ben illustrati dal famoso test del cricket
proposto da Lord Tebbit, leader politico conservatore. Secondo quel test, un immigrato
mostrava di essersi integrato quando parteggiava per l'Inghilterra piuttosto che
per il suo paese d'origine (ad esempio il Pakistan), nelle partite in cui le due
squadre giocavano l'una contro l'altra.
Bisogna ammettere che il test di
Tebbit ha il merito della inequivocabilità e dà all'immigrato un
criterio meravigliosamente chiaro con cui stabilire quanto sia integrato nella
società britannica: "Fa' il tifo per la squadra inglese di cricket
e sei a posto!" Riuscire a capire se si è integrati nella società
inglese, altrimenti, potrebbe essere assai arduo, se non altro perché non
è più molto semplice individuare lo stile di vita dominante a cui
ci si debba conformare. Il curry, per esempio, è così comune che
le guide turistiche lo definiscono un autentico cibo britannico. Negli esami del
General Certificate of Secondary Education (GCSE), sostenuti dagli studenti verso
i sedici anni, due delle domande dello scorso anno, sull'argomento "Svago
e turismo", erano: "Oltre ai ristoranti indiani, nomina un altro tipo
di ristorante che offra cibo da asporto" e "Indica cosa bisogna fare
per usufruire del servizio di consegna a domicilio di un ristorante indiano".
Il Daily Telegraph, commentando l'esame, si lamentava non dei pregiudizi culturali
delle domande, ma del fatto che fossero così facili, che chiunque in Inghilterra
sarebbe riuscito a rispondere anche senza studi particolari.
Ricordo di
aver visto su un giornale londinese, non molto tempo fa, descrivere la indiscutibile
britannicità di una signora con questi termini, "È inglese
come le giunchiglie o il pollo tikka masala". In questa situazione, l'immigrante
sud asiatico che va in Inghilterra potrebbe sentirsi un po' confuso su quale possa
essere una prova certa di identità britannica, se non fosse per il cortese
aiuto di Tebbit. La questione importante sullo sfondo di questa divagazione frivola
è che in tutto il mondo i contatti culturali stanno producendo comportamenti
tanto ibridi da rendere difficile individuare una cultura locale genuinamente
autoctona, dotata di un'essenza atemporale. Ma, grazie a Tebbit, il compito di
stabilire la britannicità diviene matematico e meravigliosamente facile
(quasi come rispondere alle domande del GCSE che ho citato poco fa).
Recentemente
Tebbit ha fatto anche notare che se il suo test del cricket fosse stato usato,
si sarebbero potuti evitare gli attacchi di militanti di origine pakistana nati
in Inghilterra: "Se si fossero messi in atto i miei suggerimenti, forse non
avremmo avuto quegli attacchi." È difficile non pensare che questa
ipotesi fiduciosa probabilmente sottovaluta la facilità con cui un eventuale
terrorista - appartenente o no ad Al-Qaeda - riuscirebbe a passare il test facendo
il tifo per la squadra inglese di cricket senza per questo cambiare minimamente
il suo comportamento in nessun altro aspetto.
Non so quanto Tebbit sia appassionato
di cricket. Se si ama quel gioco, fare il tifo per una squadra o per l'altra dipende
da una quantità di fattori diversi: lealtà nazionale o identità
acquisita, naturalmente, ma anche dalla qualità del gioco e dall'interesse
per una serie di match. Desiderare un certo risultato spesso dipende da fattori
contingenti che non sempre sono collegati alla fedeltà verso una squadra
particolare (l'Inghilterra o qualsiasi altra). Nonostante sia di origine e nazionalità
indiana, devo confessare che a volte ho fatto il tifo per la squadra di cricket
del Pakistan, non solo quando ha giocato contro l'Inghilterra, ma anche contro
l'India. Durante il tour indiano del 2005, la squadra pakistana perse le prime
due delle sei partite, e nel terzo match ho fatto il tifo per loro, perché
il gioco continuasse e si facesse più interessante. In quell'occasione,
il Pakistan giocò molto al di sopra delle mie speranze e vinse i rimanenti
quattro match, sconfiggendo nettamente l'India quattro a due (un altro esempio
dell'"estremismo" pakistano di cui gli indiani si lamentano tanto!)
Un
problema più serio è nell'ovvio argomento che gli ammonimenti contenuti
nel test del cricket di Tebbit non hanno nulla a che fare con i doveri di un cittadino,
come la partecipazione alla vita politica e sociale del paese, o non costruire
bombe. Sono anche molto lontani da ciò che potrebbe essere utile per condurre
una vita integrata nel paese.
Nell'Inghilterra post-imperiale questi punti
furono rapidamente compresi e, nonostante richieste diversive come quella del
test di Tebbit, la natura coinvolgente delle tradizioni politiche e sociali inglesi
ha fatto sì che modi culturali diversi all'interno del paese potessero
essere considerati del tutto accettabili in un'Inghilterra multi-etnica. A dir
la verità, molti inglesi continuano a pensare che questa tendenza storica
sia un grosso errore e la loro disapprovazione è spesso associata al risentimento
per il fatto che l'Inghilterra sia diventata un paese multi-etnico (recentemente
ho incontrato a una fermata d'autobus una di queste persone risentite, che mi
ha apostrofato in questi termini: "Vi conosco tutti", ma mi ha deluso
non volendomi spiegare che cosa conoscesse). Il peso dell'opinione pubblica inglese,
però, si va spostando decisamente, almeno così era fino a poco fa,
nella direzione della tolleranza - e perfino della celebrazione - della diversità
culturale. Tutto questo, e il ruolo di integrazione svolto dal diritto di voto
e da servizi pubblici non discriminanti, ha contribuito a una pace interrazziale
che oggi non esiste in Francia. Lascia, però, irrisolti alcuni dei principali
problemi del multiculturalismo, che vorrei ora affrontare.
III
Una
questione importante riguarda la distinzione tra multiculturalismo e ciò
che si potrebbe chiamare "pluralità di monoculturalismi". L'esistenza
di una diversità di culture, che si passano accanto come navi nella notte,
può considerarsi un caso di multiculturalismo riuscito? Dato che, sul problema
dell'identità, l'Inghilterra è attualmente divisa tra interazione
e isolamento, la distinzione è di grande importanza (ed è anche
collegata al problema del terrorismo e della violenza).
Prendiamo ad esempio
un contrasto culinario, facendo notare subito che la cucina indiana e quella inglese
possono entrambe sostenere a buon diritto di essere multiculturali. L'India non
aveva il chili finché non ve lo portarono i portoghesi dall'America, ma
oggi questa spezie è usata in una grande varietà di piatti e sembra
essere l'ingrediente principale in molti piatti di curry. È presente in
gran quantità in un tipo di vindaloo piccantissimo, e che, come indica
il nome, porta in sé il ricordo degli immigrati di mescolare il vino con
le patate. La cucina tandoori è stata forse perfezionata in India, ma proviene
dall'Asia Occidentale. La polvere di curry, d'altro canto, è un'invenzione
inglese, ed era sconosciuta in India prima di lord Clive e si è evoluta,
immagino, nelle mense dell'esercito inglese. E stiamo ora cominciando a veder
emergere una nuova cucina indiana, offertaci a Londra da sofisticati ristoranti
del subcontinente.
Al contrario, quando si hanno due stili o due tradizioni
che coesistono fianco a fianco senza incontrarsi, si ha la pluralità di
monoculturalismi. La difesa del multiculturalismo che spesso si sente fare in
questi giorni è solo una difesa del monoculturalismo plurale. Una ragazza
di una famiglia di immigranti conservatori che esce con un ragazzo inglese è
un caso di iniziativa multiculturale. Al contrario, il tentativo dei suoi genitori
di impedirglielo (un fatto che accade piuttosto di frequente) non è affatto
un gesto multiculturale, dato che cerca di tenere le culture separate. È
però la proibizione dei genitori, che contribuisce alla pluralità
dei multiculturalismi, a raccogliere le difese più accese dai presunti
sostenitori del multiculturalismo, che la giustificano sostenendo l'importanza
di onorare le culture tradizionali - come se la libertà di scelta della
ragazza non avesse alcuna importanza, e le due culture dovessero rimanere in due
scatole separate.
Essere nati in un particolare ambiente sociale non è
in sé un esercizio di libertà culturale, dato che non è una
scelta. Al contrario, la decisione di rimanere all'interno della tradizione sarebbe
un esercizio di libertà, se la scelta fosse fatta prendendo in considerazione
delle alternative. Nello stesso modo, la decisione ponderata di allontanarsi -
poco o molto - dal modello standard di comportamento, sarebbe ancora un esercizio
di libertà. La libertà culturale, in realtà, si scontra di
frequente con il conservatorismo culturale, e la difesa del multiculturalismo
in nome della libertà culturale non può essere vista come un sostegno
forte e assoluto nei confronti della tradizione culturale di origine.
La
seconda questione riguarda il fatto che, mentre la religione o l'etnia possono
essere un importante fattore d'identità per le persone (soprattutto quando
sono libere di scegliere se onorare o rifiutare le tradizioni ereditate), ci sono
altre affiliazioni o associazioni che possono avere valore per le persone. A meno
di non definirlo in modo bizzarro, il multiculturalismo non può ignorare
il diritto di una persona a partecipare alla società civile o alla politica
nazionale o a condurre una vita socialmente non conformista. Per quanto il multiculturalismo
sia importante, non può portare automaticamente a dare la priorità
ai dettami della cultura tradizionale a prescindere da tutto il resto.
Le
popolazioni del mondo non possono essere viste meramente in termini di appartenenza
a una religione - come una federazione mondiale di religioni. Per la stessa ragione,
un'Inghilterra multi-etnica non può essere vista come una raccolta di comunità
etniche. La concezione "federazionale", però, è assai
diffusa nell'Inghilterra moderna. In realtà, nonostante l'implicita tirannia
del mettere le persone nelle rigide scatole delle "comunità"
precostituite, quella concezione è spesso tortuosamente interpretata come
un'alleata della libertà individuale. C'è perfino una "visione"
molto diffusa del "futuro dell'Inghilterra multi-etnica" che la vede
come "una federazione libera di culture" tenute insieme da comuni legami
di interesse e affetto e da un senso di collettività.
Ma la relazione
di una persona con l'Inghilterra deve essere mediata dalla cultura della famiglia
in cui è nata? Una persona potrebbe decidere di avvicinarsi a più
di una di queste culture predefinite o, altrettanto plausibilmente, a nessuna.
Potrebbe anche decidere che la sua identità etnica o culturale è
meno importante delle sue convinzioni politiche, per esempio, o degli impegni
professionali, o delle opinioni letterarie. È una scelta che tocca a ciascuno
fare, qualunque sia il suo posto in questa strana "federazione di culture".
Il
multiculturalismo vedrebbe le sue pretese morali e sociali entrare in crisi se
in suo nome si dovesse sostenere l'idea che l'identità di una persona debba
essere definita dalla sua comunità o dalla religione, senza tener conto
di tutte le altre affiliazioni a cui potrebbe appartenere, e dando automaticamente
la precedenza alla religione di origine o alla tradizione rispetto alla riflessione
e alla scelta. Negli ultimi anni, però, questo approccio al multiculturalismo
ha assunto un ruolo predominante in alcuni atteggiamenti politici ufficiali inglesi.
La
politica statale di promuovere nuove "scuole religiose", create appositamente
per i bambini musulmani, induisti e sikh (in aggiunta alle scuole cristiane già
esistenti), dimostra questo approccio, che non solo è problematico dal
punto di vista educativo, ma incoraggia anche una percezione frammentaria della
richiesta di vivere in un'Inghilterra non segregata. Molte di queste nuove istituzioni
educative stanno nascendo proprio nel momento in cui la priorità data alla
religione è una delle maggiori cause di violenza nel mondo (e si aggiunge
alla storia di violenze simili in Inghilterra, che comprendono le divisioni tra
cattolici e protestanti nell'Irlanda del Nord - esse stesse collegate alla separazione
scolastica). Il primo ministro Tony Blair ha ragione di notare che "c'è
un forte senso dell'etica e dei valori in quelle scuole". Ma la formazione
non consiste solo nell'immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, in un vecchio
ethos ereditato. Significa anche aiutarli a sviluppare la capacità di ragionare
sulle nuove decisioni che tutti gli adulti dovranno prendere. L'obiettivo da raggiungere
non è una qualche parità formale rispetto alle scuole religiose
inglesi, ma trovare il modo di incrementare nei bambini la capacità di
vivere una vita "ragionata", crescendo in un paese integrato.
IV
L'argomento
centrale fu espresso con grande chiarezza molto tempo fa, alla fine del 1500,
da Akbar, l'imperatore indiano, nelle sue osservazioni su fede e ragione. Akbar,
il gran moghul, nacque musulmano e morì musulmano, ma sostenne sempre che
la fede non può avere la precedenza sulla ragione, dato che la religione
che si eredita va riconosciuta - e, se necessario, rifiutata - attraverso la ragione.
Attaccato dai tradizionalisti che erano a favore della fede istintiva, Akbar disse
agli amici e al fidato luogotenente Abul Fazl, un formidabile studioso con grande
competenza su diverse religioni, "La ricerca della ragione e il rifiuto del
tradizionalismo sono così evidenti da non dover richiedere di essere discusse.
Se il tradizionalismo fosse giusto, i profeti avrebbero semplicemente seguito
i loro padri (e non sarebbero stati portatori di nuovi messaggi)". Secondo
Akbar la ragione doveva avere la supremazia, in quanto la si doveva usare anche
confutarne l'uso.
Deciso ad approfondire seriamente le diverse religioni
dell'India, Akbar si trovò spesso a discutere non solo con studiosi dell'induismo
e dell'islamismo tradizionali dell'epoca, ma anche con cristiani, ebrei, parsi,
giainisti, e perfino con i seguaci di "Carvaka" - una scuola di pensatori
atei che si sviluppò in India nell'arco di duemila anni, a partire dal
sesto secolo a.C. Invece di assumere un atteggiamento assolutista nei confronti
della fede, Akbar amava ragionare sugli aspetti specifici di ogni religione. Discutendo
con i giainisti, per esempio, espresse il suo scetticismo nei confronti dei loro
rituali, ma fu persuaso dalle loro ragioni in favore del vegetarianismo e arrivò
a deplorare l'assunzione di carne in generale. Nonostante l'irritazione che il
suo atteggiamento causava in chi preferiva basare la propria religiosità
sulla fede piuttosto che sulla ragione, rimase fedele a quello che chiamò
"il cammino della ragione," il rahi agl, e continuò a sostenere
la necessità del dialogo e della libera scelta. Akbar sosteneva che il
suo islamismo derivava dal ragionamento e dalla scelta, non dalla fede cieca o
da ciò che chiamava "la terra paludosa della tradizione."
C'è,
poi, l'altro problema (particolarmente vivo in Inghilterra) di come le comunità
di non-immigrati debbano considerare le richieste di un'istruzione multiculturale.
Si deve lasciare che ogni comunità celebri le sue feste storiche, senza
rispondere alla necessità che i "vecchi inglesi" siano più
consapevoli delle interrelazioni globali nelle origini e nello sviluppo della
civiltà mondiale? Se la cosiddetta scienza o cultura occidentale trae ispirazione,
mettiamo, dalle innovazioni cinesi, dalla matematica indiana e araba o dall'eredità
greco-romana conservata in Medio Oriente (per esempio, nelle traduzioni in arabo
di classici greci dimenticati, ritradotti in latino dopo molti secoli), non dovrebbe
esserci una più ampia riflessione su quel vigoroso passato interattivo
nel programma scolastico dell'Inghilterra multi-etnica?
Quando oggi un matematico
inglese o americano usa un algoritmo per risolvere un problema di calcolo, implicitamente
commemora il matematico musulmano del nono secolo al-Khwarizmi, dal cui nome deriva
il termine "algoritmo", e dal cui innovativo libro di matematica in
arabo, Al-Jabr wa al-Mugabalah, è nato il termine "algebra".
Anche se le scuole religiose musulmane non parlano delle opere non religiose degli
intellettuali musulmani, non dovrebbero gli studenti inglesi - anglosassoni e
non - leggere qualcosa sui contributi di tutto il mondo alle radici della moderna
civiltà mondiale? L'allargamento di prospettiva dell'istruzione è
importante non solo in Inghilterra, ma ovunque, compresi gli Stati Uniti e l'Europa.
La storia del mondo non deve arrivare ai bambini (come spesso capita) solo in
forma di ricordi parrocchiali, mescolati ad accenni a una storia della religione
preconfezionata - per non parlare delle vignette satiriche che si trovano fuori
della scuola. Le priorità di una vera educazione multiculturale possono
essere molto diverse dalla segmentazione intellettuale di una società costituita
da una pluralità monoculturale.
Se uno dei problemi concernenti le
scuole religiose è costituito dalla natura dubbia del dare priorità
a una fede istintiva anziché ragionata, ve n'è però un altro
di enorme importanza, che riguarda il ruolo della religione nel classificare le
persone soppiantando altri metodi di classificazione. Le priorità e le
azioni delle persone sono influenzate da tutte le loro affiliazioni e associazioni,
non solo dalla religione. La separazione del Bangladesh dal Pakistan era basata
sulla lingua e la letteratura, oltre che su ragioni di priorità politiche,
e non sulla religione, che era la stessa. Ignorare tutto quel che va oltre la
fede significa ignorare la realtà degli interessi che hanno mosso le persone
ad asserire identità che vanno ben oltre la religione.
La comunità
del Bangladesh, per quanto sia numerosa in Inghilterra, nella contabilità
religiosa è assommata a quanti condividono la stessa fede, senza che le
vengano riconosciute altre priorità o caratteristiche culturali . Mentre
questo probabilmente piace ai sacerdoti islamici e ai leader religiosi, certamente
svilisce la ricca cultura di quel paese e le sue diverse identità. In questo
modo viene anche ignorata la storia della formazione del Bangladesh. Si dà
il caso che attualmente sia in corso in Bangladesh una battaglia politica tra
i laici e i loro detrattori (tra cui i fondamentalisti religiosi) e non si capisce
perché la linea politica ufficiale inglese debba essere più in sintonia
con questi ultimi che con i primi.
Bisogna ammettere che il problema non
ha avuto origine con i più recenti governi inglesi. In realtà l'atteggiamento
ufficiale britannico ha dato per molti anni l'impressione di essere incline a
vedere i cittadini inglesi e i residenti originari del subcontinente principalmente
in relazione alle loro rispettive comunità, e ora - dopo la importanza
recentemente accordata alla religiosità (compreso il fondamentalismo) nel
mondo - la comunità è definita soprattutto in termini di fede, piuttosto
che tenendo conto di aspetti culturali in senso più ampio. Il problema
non si limita alla scuola, o ai musulmani. La tendenza a chiedere ai leader induisti
o sikh di essere i portavoce della popolazione indù o sikh è un
aspetto della stessa tendenza. Invece di incoraggiare i cittadini britannici di
diverso background a interagire tra di loro in un consesso civile, e a partecipare
alla politica da cittadini, li si invita ad agire "attraverso" la "loro
comunità".
Gli orizzonti limitati di questo modo di pensare
riduzionista influiscono direttamente sul modo di vivere delle diverse comunità,
con effetti particolarmente gravi sulla vita degli immigranti e delle loro famiglie.
Ma oltre a ciò, il modo in cui i cittadini e i residenti considerano se
stessi influisce anche sulla vita di altri, come hanno mostrato gli eventi cruenti
della scorsa estate in Inghilterra. In primo luogo, la vulnerabilità all'influenza
dell'estremismo settario è assai maggiore quando si cresce e si va a scuola
in un ambiente settario (anche se non necessariamente violento). Il governo inglese
sta cercando di fermare la predicazione all'odio da parte di alcuni leader religiosi,
e fa bene, ma il problema è di portata molto più vasta. Il punto
è se i cittadini con un background di immigrazione debbano vedersi in primo
luogo come membri di una comunità e di una religione specifica, e considerarsi
inglesi solo attraverso questa appartenenza, in una ipotetica federazione di comunità.
Non è difficile capire che questa concezione frazionata rende una nazione
più vulnerabile alla predicazione e alla coltivazione della violenza settaria.
Tony
Blair ha delle buone ragioni per voler "uscire" a discutere del terrore
e della pace "dentro la comunità musulmana," e (come dice) per
voler "entrare nelle viscere di [quella] comunità". L'attenzione
di Blair per la correttezza e la giustizia è difficile da negare. Il futuro
di un'Inghilterra multi-etnica, però, deve consistere nel riconoscere,
sostenere ed aiutare ad avanzare i molti modi differenti in cui i cittadini con
diverse idee politiche, eredità linguistiche, priorità sociali (insieme
a etnie e religioni diverse) possono interagire gli uni con gli altri nelle loro
diverse vesti, tra cui quella di cittadini. La società civile ha un ruolo
particolarmente importante nella vita di tutti gli abitanti. La partecipazione
degli immigrati in Inghilterra - tra cui i musulmani - non dovrebbe essere collocata,
come accade sempre più spesso, sotto la voce delle "relazioni con
le comunità", ed essere mediata da leader religiosi (tra cui i sacerdoti
"moderati", gli imam "miti", e altri esponenti ragionevoli
delle comunità religiose).
C'è urgente bisogno di ripensare
a come viene inteso il multiculturalismo, in modo da evitare confusioni concettuali
sull'identità sociale e in modo anche di resistere allo sfruttamento intenzionale
del principio della divisione che questa confusione concettuale consente e, in
un certo senso, incoraggia. Quel che va soprattutto evitato (se quest'analisi
è corretta) è la confusione tra un multiculturalismo associato alla
libertà culturale da una parte, e un pluralismo monoculturale associato
al separatismo basato sulla fede dall'altra. Una nazione non può essere
vista come un raggruppamento di segmenti isolati, dove ai cittadini viene assegnato
un posto in segmenti predeterminati.
V
C'è un'incredibile
analogia tra i problemi che l'Inghilterra affronta oggi e quelli che aveva l'India
Britannica, e che il Mahatma Gandhi pensava fossero alimentati direttamente dal
Raj. Gandhi criticava in particolare la posizione ufficiale che considerava l'India
un assieme di comunità religiose. Quando si recò a Londra per la
Conferenza della "tavola rotonda" indetta dal governo inglese nel 1931,
scoprì di essere stato assegnato a un settore dal nome rivelatore di "Comitato
della struttura federale". Gandhi si risentì per essere considerato
il portavoce degli indù, in particolare della "casta indù",
mentre il resto della popolazione veniva rappresentato da delegati, scelti dal
primo ministro inglese, per ciascuna delle "altre comunità".
Gandhi
sostenne che pur essendo egli stesso indù, il movimento politico che guidava
era assolutamente laico, non era basato su una comunità e aveva sostenitori
in tutti i diversi gruppi religiosi dell'India. Consapevole che si potevano fare
delle distinzioni legate alla religione, fece notare che c'erano altri modi non
meno significativi di dividere la popolazione indiana. Gandhi richiese con forza
che i governanti inglesi vedessero la pluralità delle diverse identità
dell'India. Disse, infatti, che voleva parlare non per gli induisti in particolare,
ma per "i milioni di persone mute, sofferenti, semi affamate" che costituivano
oltre l'85 percento della popolazione indiana", e aggiunse che, con un po'
più di sforzo, avrebbe potuto parlare anche per gli altri, "i principi...
la nobiltà terriera, la classe istruita".
Il sesso, come fece
notare Gandhi, era un'altra importante distinzione ignorata dalle categorie britanniche,
che non dedicavano quindi uno spazio adeguato ai problemi delle donne indiane.
Disse al primo ministro inglese: "Riguardo alle donne, lei ha totalmente
rifiutato che fossero rappresentate in quanto tali", e continuò facendogli
notare che "esse costituiscono la metà della popolazione indiana".
Sarojini Naidu, che andò con Gandhi alla Conferenza della tavola rotonda,
era il solo delegato donna presente. Gandhi menzionò il fatto che era stata
eletta presidente del partito del congresso, di gran lunga il principale partito
politico dell'India (questo accadeva nel 1925, esattamente cinquant'anni prima
che in Inghilterra una donna fosse eletta a presiedere uno dei maggiori partiti
politici). Sarojini Naidu poté parlare per metà della popolazione
indiana, cioè per le donne indiane, secondo il modo di pensare "rappresentativo"
del Raj; e Abdul Qaiym, un altro delegato, fece notare che Naidu, che definì
"l'usignolo dell'India," era anche l'unica illustre poetessa del congresso,
rivestiva quindi anche un'altra identità oltre a quella di esponente politico
indù.
In un incontro organizzato presso il Royal Institute of International
Affairs durante la sua visita, Gandhi ribatté di voler cercare di resistere
alla "vivisezione di un'intera nazione". Alla fine, naturalmente, non
ebbe successo nel tentativo di "rimanere tutti assieme", anche se è
risaputo che voleva dare più tempo ai negoziati per impedire la divisione
del 1947, che i restanti leader del Congresso trovavano accettabile. Gandhi sarebbe
stato molto addolorato dalle violenze del 2002, scatenate da leader induisti contro
i musulmani proprio nel suo stato di Gujarat. Ma sarebbe stato sollevato dalla
condanna generale che quelle barbarie ricevettero dalla maggioranza della popolazione
indiana, condanna che contribuì alla pesante sconfitta dei partiti coinvolti
nelle violenze in Gujarat, nelle successive elezioni generali indiane del maggio
2004.
Gandhi sarebbe stato anche confortato dal fatto, non lontano dalle
idee da lui espresse alla Conferenza della tavola rotonda del 1931 a Londra, che
l'India, con più dell'80 percento di popolazione induista, sia oggi governata
da un primo ministro sikh (Manmohan Singh) e guidata da un presidente musulmano
(Abdul Kalam), e che il partito di governo (il partito del congresso) sia presieduto
da una donna di origini cristiane (Sonia Gandhi). Questa mescolanza di comunità
è verificabile in molti aspetti della vita indiana, dalla letteratura al
cinema, agli affari, allo sport, e la cosa non viene considerata strana. Non solo
è significativo il fatto che l'uomo d'affari più ricco (in realtà
la persona più ricca in assoluto) dell'India, Azim Premji, sia musulmano,
come la star internazionale del tennis femminile Sania Mirza e i capitani della
squadra indiana di cricket Pataudi e Azharuddin, ma è anche significativo
che siano tutti visti semplicemente come indiani, non come indiani musulmani.
Durante
il recente dibattito parlamentare sull'inchiesta riguardante le uccisioni dei
sikh avvenute immediatamente dopo l'assassinio di Indira Gandhi da parte della
sua guardia del corpo sikh, il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha dichiarato
al parlamento, "Non ho alcuna esitazione a scusarmi non solo nei confronti
della comunità sikh, ma di tutta la nazione indiana, perché quel
che è avvenuto nel 1984 è la negazione del concetto di nazione e
di ciò che è scritto nella nostra costituzione." In queste
scuse emergono chiaramente le diverse identità di Singh: primo ministro
dell'India e leader del partito del congresso, membro della comunità sikh
(con il suo perenne turbante blu), e cittadino della nazione indiana. Tutto ciò
creerebbe confusione se le persone dovessero essere viste con l'idea che ognuno
abbia una sola identità, mentre la molteplicità delle identità
e dei ruoli rappresenta bene il fondamentale concetto esposto da Gandhi alla conferenza
di Londra.
È stato scritto molto sul fatto che l'India, che ha il
più alto numero di musulmani di quasi tutti i paesi a predominanza musulmana
del mondo (e con più di 145 milioni di musulmani, quasi quanto il Pakistan),
abbia prodotto pochissimi terroristi che agiscono in nome dell'Islam, e quasi
nessuno legato ad Al-Qaeda. Questo è dovuto a varie ragioni, tra cui l'influenza
di un'economia integrata e in crescita. Ma una parte del merito va anche alla
natura della politica democratica indiana e al fatto che l'India ha accettato
l'idea, sostenuta da Gandhi, che molte sono le identità, oltre a quella
religiosa, significative per capire se stessi e per le relazioni tra cittadini
di background diversi all'interno del paese.
Riconosco che sia un po' imbarazzante
per me, che sono indiano, sostenere che, grazie alla guida del Mahatma Gandhi
e di altri (tra cui la lucida analisi dell'"idea di India" di Rabindranath
Tagore, il più grande poeta indiano, che descrisse il background della
sua famiglia come "una confluenza di tre culture, induista, maomettana e
britannica"), l'India è riuscita in buona misura a evitare il terrorismo
indigeno legato all'Islam, che minaccia molti paesi occidentali, tra cui l'Inghilterra.
Ma quando Gandhi domandò: "Immaginate l'intera nazione vivisezionata
e ridotta in pezzi; come si può farla diventare una nazione?" esprimeva
un problema generale, non solo indiano.
Quella domanda era motivata dalla
grande preoccupazione che Gandhi nutriva nei confronti del futuro dell'India.
Ma il problema non è solo indiano. Si presenta anche in altre nazioni,
tra cui il paese che ha governato l'India fino al 1947. Le disastrose conseguenze
che derivano dal definire le persone secondo l'appartenenza a una religione e
che danno la precedenza a un'identità basata sulla comunità rispetto
a tutte le altre, visione che Gandhi pensava fosse sostenuta dai governanti inglesi
dell'India, forse ora ricadono sul paese cui appartenevano quei governanti.
Nella
Conferenza della tavola rotonda del 1931, Gandhi non riuscì a imporre la
sua idea, e le sue opinioni contrarie furono registrate solo brevemente, senza
che ne venissero specificate le motivazioni. In una cortese nota critica al primo
ministro inglese, Gandhi osservò, "Nella maggior parte di questi resoconti
scoprirà che c'è un'opinione contraria, e quasi sempre, sfortunatamente,
essa appartiene a me." Il lungimirante rifiuto di Gandhi di vedere la nazione
come una federazione di religioni e di comunità, però, non "apparteneva"
solo a lui o all'India laica che guidava. Appartiene anche a tutti i paesi del
mondo disposti a prendere in considerazione i gravi problemi che Gandhi ha sollevato.
(Tratto
dal giornale La repubblica del 26 Febbraio 2006. Traduzione di Maria Sepa)