Barbara


Murilo Rubião

 



A Barbara piaceva soltanto chiedere le cose. Le chiedeva e ingrassava.
Può sembrare assurdo ma mi trovava sempre disposto a soddisfare i suoi capricci. In cambio di una premura tanto costante da lei ricevetti una scipita tenerezza e richieste che si rinnovavano continuamente. Non le ho tenute tutte a mente. L'unica mia preoccupazione era quella di accompagnare la crescita del suo corpo, che lievitava via via che la sua ambizione si allargava. Se per lo meno avesse riversato su di me una parte dell'attenzione che elargiva agli oggetti che le regalavo o se non fosse tanto ingrassata poco mi sarebbero importati i sacrifici che dovetti fare per accontentare la sua morbosa mania.
Avevamo quasi la stessa età, fummo compagni inseparabili nell'infanzia, ci mettemmo insieme, ci fidanzammo e un giorno ci trovammo sposati. O meglio, ora posso confessare che non fummo mai niente più che semplici compagni.
Fino a che durò la naturale incoscienza dell'infanzia, non soffrii delle sue stranezze. Barbara era una ragazzina gracile e non c'era niente di male che acquistasse forme più ampie. La pensavo così e feci vari cascatoni per arrampicarmi sugli alberi dove gli occhi avidi della mia compagna intravedevano frutti senza sapore o nidi di uccellini. Spesso le presi anche dai ragazzini che ero portato ad aggredire solo per soddisfare un desiderio di Barbara. E più ritornavo con la faccia piena di lividi, più grande era la sua contentezza. Mi prendeva la testa fra le mani e si sentiva felice nell'accarezzarmi la faccia tumefatta come se quel gonfiore fosse un regalo che le avessi offerto e che quindi non mi appartenesse più.
A volte ero incerto se dovessi esaudire le sue richieste, perché vedevo che chiedeva e ingrassava. Ma la mia indecisione non durava molto. Subito mi vinceva l'insistenza del suo sguardo, che trasformava il più insignificante desiderio in un ordine formale. (E che tenerezza le appariva negli occhi, che aria convincente aveva nel farmi le più stravaganti richieste!).
Ci fu un momento - sì, ci fu - che volli fare il duro e giurai che mi sarei suicidato alla prima richiesta che avessi ricevuto.
Fino ad un certo punto la minaccia produsse l'effetto desiderato. Barbara si rifugiò in un mutismo aggressivo e si rifiutava con ostinazione di mangiare e di parlare con me. Sfuggiva la mia presenza, si nascondeva in giardino e contaminava l'ambiente con una tristezza che mi spezzava il cuore. Il suo corpo deperiva mentre il ventre le cresceva paurosamente.
Mi spaventai sospettando che l'assenza di richieste favorisse l'apparire in Barbara di un fenomeno di nuovo genere. Il medico mi tranquillizzò. Quella pancia che già diventava immensa annunciava semplicemente un figlio.
Ingenue speranze mi frustarono l'immaginazione. Credetti che la nascita del bambino potesse metter fine una volta per tutte alle strane manie di mia moglie. E sospettando che la sua magrezza e il suo pallore fossero preannunzio di una grave malattia, temetti che si ammalasse e le morisse il figlio in seno. Prima che una disgrazia così ci cadesse adosso, la implorai che chiedesse qualunque cosa.
Chiese l'oceano. Non persi tempo in discussioni oziose. Partii quello stesso giorno per un lungo viaggio verso il litorale. Ma davanti al mare mi intimorirono le sue dimensioni. Mi trafisse il pensiero che Barbara dovesse poi ingrassare in proporzione alla richiesta. E le portai solo una bottiglia piena di acqua dell'oceano.
Quando giunsi a casa mi volli scusare, ma lei non mi stette a sentire. Mi prese trepidamente dalle mani la bottiglia e si mise a guardare meravigliata il liquido che conteneva. E non la lasciò più. Dormiva con la bottiglia tra le braccia e quando si svegliava la guardava controluce ogni momento. Assaggiava un po' del suo contenuto. E intanto ingrassava.
Per il momento smisi di preoccuparmi per l'esagerata grassezza di mia moglie. Le mie apprensioni erano ora per il suo ventre che si dilatava incessantemente. Si dilatò a tal punto che nonostante la compatta mole di lardo che le copriva il corpo Barbara veniva nascosta dal colossale pancione. L'angoscia mi metteva a terra, nel timore che ne uscisse un gigante. Arrivai quasi alla disperazione, immaginandomi come sarebbe stato terribile vivere a fianco di una moglie grassissima e di un figlio mostruoso che oltretutto avrebbe potuto ereditare dalla mamma la mania di chiedere le cose. Mi restava tuttavia la speranza che nascesse morto.
Con mio disappunto, da quel ventre fuori del comune uscì un essere rachitico e brutto che pesava meno di un chilo.
Fin dai primi momenti, Barbara lo respinse. Non perché era piccolo e sgraziato, ma solo perché non lo aveva ordinato. (Non le riusciva mai di amare le cose che non chiedeva prima).
L'indifferenza della mamma, che non si commuoveva neppure davanti alla fame del bambino, mi costrinse a tirarlo su da solo. Quello piangeva perché aveva fame e lei si rifiutava di offrirgli i seni voluminosi pieni di latte.
Quando Barbara si stancò dell'acqua del mare, mi chiese un albero che si trovava su un terreno di fronte al nostro. Di notte, dopo essermi accertato che il bambino dormiva tranquillamente, saltai il muro e mi introdussi nel giardino del vicino. Strappai dall'albero un ramo e tornai a casa.
Ancora con i vestiti sporchi, non aspettai il giorno dopo per consegnare il regalo a mia moglie. La svegliai, chiamandola sottovoce. Aprì gli occhi sorridente, indovinando il motivo per cui era stata svegliata.
- Dov'è?
-Qui. E le mostrai la mano che nascondevo dietro la schiena. - Idiota! gridò, sputandomi in faccia. - Ti avevo chiesto un albero e non un ramo.
Arrossii e non riuscii a spiegarle che non avevo portato l'albero perché era troppo largo e alto più di dieci metri.
Qualche settimana dopo, siccome il proprietario del terreno si rifiutava di vendere solo l'albero, comprai la casa vicina per un prezzo esorbitante. Con sei uomini e una gru strappammo dal suolo l'albero con radici e tutto.
Lo stendemmo al suolo, e Barbara passava le ore seduta sul grosso tronco o camminandoci sopra. Con un temperino vi disegnava figure e scriveva nomi. Trovai il mio sotto a un cuore e questo mi commosse visibilmente. Tuttavia questa fu l'unica manifestazione di amore che ebbi da lei. Indifferente ai miei sentimenti e alla gratitudine con cui avevo ricevuto il gesto, assistette all'appassire delle foglie e quando vide che il tronco era secco non lo guardò più.
Era terribilmente grassa. Tentai di strapparla dalla sua ossessione, la portai al cinema, sui campi di calcio. (il bambino dovevamo portarlo in braccio: era nato da diversi anni ma era ancora delle stesse dimensioni, non cresceva un dito). Tuttavia la prima idea che le veniva in mente era di chiedere la macchina da proiezione o il pallone col quale giocavano le squadre. Mi costringeva a interrompere, sotto i fischi degli spettatori, la proiezione o la partita, per soddisfare il suo desiderio.
Molto tardi mi resi conto che erano inutili i miei sforzi per ottenere il ravvedimento di Barbara. Mai avrebbe compreso il mio amore e avrebbe continuato ad ingrassare.
Le lasciai fare ciò che voleva e aspettai con rassegnazione nuove richieste. Sarebbero state le ultime. Avevo già speso una fortuna per i suoi capricci.
Un pomeriggio si avvicinò a me affettuosamente e mi allisciò i capelli. Preso di sorpresa non mi resi conto immediatamente della ragione di quella tenerezza. Ci pensò lei a mostrami il motivo della carezza:
- Sarei così felice se possedessi una nave!
- Ma ci rovineremo, figlia mia. Non avremo di che comprare da mangiare. Il bambino morirà di fame.
- Che m'importa del bambino, avremo la nave, che è la cosa più bella del mondo.
Mi irritai, le sue parole non riuscivano a divertirmi. Che ne sapeva della bellezza di una nave, se non ne aveva mai vista una e se il mare lo conosceva solo attraverso una bottiglia?!
Soffocai la rabbia e partii di nuovo verso il litorale. Tra i transatlantici ancorati nel porto, scelsi il più grande. Lo feci smontare e trasportare nella nostra città.
Me ne tornavo desolato. Sull'ultimo vagone di uno dei giganteschi convogli che conducevano i pezzi della nave, mio figlio mi guardava a bocca aperta, cercando di capire la ragione di tanti ed inutili fischi del treno.
Barbara, avvisata da un telegramma, ci aspettava alla stazione. Ci accolse allegramente e scherzò addirittura col piccolo.
Su un immenso terreno assistette, con stupido zelo, al montaggio della nave. Io me ne stavo seduto per terra, ingrugnato e triste. Ora guardavo mio figlio, che forse non sarebbe mai riuscito a camminare con le sue gambette, ora il corpo di Barbara, tanto grasso che molti uomini, prendendosi per mano, non sarebbero riusciti ad abbracciarlo.
Montata la nave, essa si trasferì là sopra e non scese più a terra. I giorni e le notti li passava sul ponte, interamente assente da qualunque cosa che non riguardasse la nave.

Una volta comprata la nave, di soldi ne erano rimasti pochi, e ora finirono. Fu la fame. Il marmocchio sgambettava, si rotolava al suolo, si riempiva la bocca di terra. Ormai il pianto di mio figlio non mi commuoveva più tanto. Avevo gli occhi continuamente fissi su mia moglie, aspettando che dimagrisse per mancanza di cibo.
Non solo non dimagrì neppure un grammo, ma acquistò qualche altra decina di chili. Tanto eccessiva era la sua obesità, che non poteva entrare nelle cabine e le sue passeggiate si limitavano al ponte, dove si muoveva con difficoltà.
Io non ero mai salito sulla nave; stavo steso sull'erba masticando fame e malinconia vicino al piccolo mostro. Spesso, eludendo la vigilanza di mia moglie, rubavo pezzi di legno o di ferro della nave e li scambiavo con cibi.
Una notte - il vento batteva forte la nave - vidi Barbara che guardava fissa il cielo. Quando scoprii che rivolgeva gli occhi alla luna, lasciai il bambino in terra e salii di corsa fino a lei. Dapprima cercai con suadenti parole di sviare la sua attenzione. Poi, vedendo l'inutilità dei miei argomenti, tentai di tirarla per le braccia. Tutto inutile. Il suo corpo era troppo pesante perché riuscissi a trascinarlo.
Istupidito, senza sapere che decisione prendere, mi appoggiai alla murata. Non le avevo mai visto la faccia così grave, lo sguardo così fisso. Quella sarebbe stata l'ultima richiesta. Aspettai che la esprimesse. Nient'altro avrebbe potuto contenere il suo desiderio.
Ma, dopo qualche minuto, respirai di sollievo. Non aveva chiesto la luna. Ma una minuscola stella, quasi invisibile vicino ad essa. Andai a prenderla.



(Traduzione di Giuliano Macchi.)


Murilo Rubião (1916-1991) è il più importante autore del genere "realismo magico" nella letteratura brasiliana del secolo scorso. Ha scritto, tra l'altro, O Ex-mágico e O pirotécnico Zacarias


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