Amalfi,
l'antesignana
Giorgio Ruffolo
Per almeno due secoli, il VI e il VII, la maggior parte delle città italiane è
avvolta dall'oscurità: o perché inglobate nel dominio longobardo, come quelle
della costa ligure, o perché sottoposte al dominio bizantino, come gran parte
di quelle dell'Italia tirrenica e di quella adriatica. Poi, tra l'VIII e il IX
secolo, emerge e si sviluppa rapidamente la loro storia: che, in questi due secoli,
è la storia di una lotta ardua, talvolta disperata, per la salvaguardia di una
precaria indipendenza. Puntiamo il riflettore anzitutto sulle coste campane: su
quella striscia che corre da Gaeta a Capua a Napoli e ad Amalfi; e che è originariamente
sottoposta al dominio di un duca, investito dall'imperatore bizantino. L'imperatore,
però, è lontano: e benché le popolazioni di quelle città gli restino fedeli, egli
non può garantire loro, pressato com'è da ogni parte, le truppe e i mezzi necessari
alla difesa dai barbari che incombono, dai monti dei Ducati longobardi di Benevento
e di Salerno, sulla costa angusta e meravigliosa. Gli abitanti di quelle città,
di antica origine greca e di piú recente cittadinanza latina, capiscono di dover
provvedere direttamente alla loro difesa: mantenendo le mura, addestrandosi alle
armi, costruendo flotte. Cosí nasce, prima, un Ducato di Napoli sostanzialmente
indipendente, e poi una serie di piccole Repubbliche che si sganciano anche dal
suo comando. Tra napoletani-amalfitani e beneventani-salernitani c'è guerra
continua. Tra l'800 e il 900, in particolare, sembra piú volte che i primi debbano
definitivamente capitolare. C'è una evidente sproporzione di forze. Invece resistono.
Resiste l'antica Napoli dei nuovi duchi, quella evocata e invocata con filiale
passione da Benedetto Croce:
O venerande torri campanarie di Santa Maria
Maggiore e di Santa Maria a Piazza; o tre vetuste strade parallele, che foste
già quelle della primitiva Napoli greca, e poi della Napoli ducale; o antica
Stefania; o monastero di San Marcellino, dove era il pretorio dei duchi; quante
volte mi piace aggirarmi tra voi e contemplarvi, ricordando che tra voi vissero
e vi contemplarono i Sergi e gli Attanasi, gli Stefani e i Cesari, e tutti
quegli altri miei concittadini che favoleggiarono di Virgilio, e della mosca
che liberava Napoli dalla pestilenza, e dell'uovo che rendeva inespugnabile
l'omonimo castello, e del cavallo di bronzo posto innanzi al Duomo e che guariva
i cavalli infermi, e della grotta che quel mago poeta aveva aperta verso Pozzuoli;
e intanto si scambiavano tra loro notizie sulle intenzioni e sulle mosse dei
saraceni, e su quel che preparavano i Pandolfi e i Landolfi e tra timori e speranze
avvisavano ai ripari, alle sortite predatrici e alle rappresaglie! 1
Dovettero subirne,
di assedi, i napoletani: e anche di umiliazioni. Come quando il duca Sicone, penetrato
nella città, ne trafugò nientemeno che il corpo di san Gennaro, per portarlo trionfalmente
a Benevento (ma i napoletani riuscirono, non si sa bene come, a conservarne la
testa). I napoletani giocavano d'audacia e anche d'astuzia. Non era poi cosi difficile
per loro, rispetto a quella gente del Nord, superstiziosa, violenta e meno smaliziata.
Un giorno che si trattava di concludere una pace sottraendosi a un assedio stringente,
l'inviato del principe di Benevento fu condotto sulla grande piazza, ove erano
stati ammassati enormi mucchi di grano. Erano, in realtà, mucchi di sabbia sui
quali i napoletani avevano sparso un sottile strato di chicchi di frumento. Il
duca Sicardo, sconfortato, tolse l'assedio. Ma i napoletani non si limitavano
alle beffe. Pressati da Sicardo, chiesero aiuto sia all'imperatore franco, Lodovico
il Pio, sia ai saraceni, che presto comparvero con le loro navi leggere. Quel
Sicardo era fissato con le reliquie dei santi: che costituivano allora, come abbiamo
visto, un bene prezioso, fonte di prestigio e di potenza, per i miracoli che garantivano,
nonché di ricchezza, per il turismo che promuovevano. Non pago dei resti di san
Gennaro decollato, questo longobardo di Salerno concupí anche le spoglie di san
Trifonomo, che stavano ad Amalfi, e mosse guerra a quella città. Nell'836 se ne
impadroní e deportò a Salerno, incatenata, una grande parte della popolazione.
Come i romani con le sabine, praticò la pulizia etnica, obbligando le amalfitane
a sposare i suoi guerrieri. Ma gli andò malissimo, perché mori dopo pochi anni
e gli amalfitani, liberatisi loro e le loro donne, dopo aver coscienziosamente
messo a sacco e incendiato Salerno, tornarono nella loro città proclamandone l'indipendenza.
Per circa un secolo gli amalfitani, come i napoletani, si barcamenarono,
la parola è particolarmente appropriata, tra longobardi, franchi e saraceni. Con
questi ultimi, il rapporto era - è il meno che si possa dire - spregiudicato.
Appena uscita dal dominio longobardo Amalfi, insieme coi napoletani, aveva stretto
una alleanza "empia" con i mori; ma a metà del IX secolo partecipava, insieme
col papa, con Gaeta, Napoli e Sorrento, a una lega antisaracena, sconfiggendo
sul mare i musulmani a Licosa e a Ostia. Successivamente, in una spedizione per
conto dell'imperatore franco, liberava dalla prigionia il vescovo Attanasio, ottenendo
in cambio l'isola di Capri. Poi, improvvisamente, abbandonava la coalizione per
una pace separata. Poi, ancora, alleandosi con Capua, sbaragliava i saraceni sul
Garigliano.
I saraceni si erano installati sulle pendici dei monti che
sovrastano il mare. Vi avevano posto i loro covi. Da quelli partivano le loro
razzie sulle coste, nelle campagne, nelle città per tutto il VII e per buona parte
dell'VIII secolo. Le città costiere, come Amalfi e Napoli, non avevano la
forza necessaria per sloggiarli. Dovevano quindi adottare una strategia necessariamente
ambigua. Respingere le incursioni e al tempo stesso accettare la convivenza. Certo,
questa strategia era moralmente spregiudicata. Gli amalfitani non esitarono ad
aiutare i saraceni nella conquista di Messina, difesa dai bizantini; e soprattutto,
ad alimentare un fiorente commercio di schiavi. Li rapivano dappertutto, anche
in terre cristiane, anche sotto gli occhi del papa: sulle coste della Toscana
e del Lazio, ma sempre piú spesso in Barberia e in Grecia, dove particolarmente
ricercati erano i monaci castrati dei monasteri ortodossi, che erano venduti ai
musulmani di Sicilia. Quelli li truccavano da donne brune, come li preferivano
i mercanti arabi, ingioiellate e profumate di rosa. Del resto, non erano
certo i soli a praticare la tratta. Il commercio degli schiavi era rifiorito in
tutta Europa, a partire dal VI secolo. Era autorizzato dai papi e dagli imperatori,
con qualche pudico divieto di schiavizzazione dei cristiani. L'imperatore Ludovico
il Pio autorizzò nell'825 i mercanti ebrei a trafficare in schiavi, soprattutto
slavi e anglosassoni. Una volta catturati, erano trasportati a Verdun, il piú
grande deposito di "bestiame umano"; centro di raccolta, castrazione, marchiatura
e redistribuzione verso i paesi musulmani: la Spagna degli emiri di Cordova, l'Oriente
dei califfi di Baghdad. La Chiesa, che utilizzava ampiamente schiavi nelle sue
terre e nei suoi conventi, non aveva niente da dire sul traffico degli schiavi.
Sant'Agostino non aveva detto che la schiavitú è stata imposta ai peccatori da
una giusta sentenza di Dio? San Tommaso, nove secoli piú tardi, non aveva ribadito
il concetto secondo cui la schiavitú era una diretta conseguenza del peccato originale?
Purché si evitasse di ridurre in schiavitú dei cristiani liberi e soprattutto
di vendere schiavi cristiani agli ebrei, la schiavitú era perfettamente legittima:
anzi, come aveva scritto san Pietro in una sua epistola, era fonte di sofferenze
gradite a Dio e quindi salvifiche. Le Repubbliche italiane ricavavano da
queste provvidenziali sofferenze immensi profitti. Uno schiavo "grezzo" non costava
piú di un bue: tra i 30 e i 35 soldi d'argento; e dopo qualche sbrigativo trattamento
atto a valorizzarlo, poteva vendersi a un prezzo tre o quattro volte superiore.
I mercanti di Amalfi e delle altre Repubbliche italiane erano avvantaggiati
dalla prossimità delle loro basi ai mercati di consumo. Con il ricavato della
vendita degli schiavi essi pareggiavano una bilancia dei pagamenti altrimenti
deficitaria, mettendosi in grado di continuare i loro acquisti di sete, di droghe
e di spezie. Particolarmente ricercati erano le giovani donne, i castrati, i bambini.
Una fonte straordinaria di offerta di schiavi bambini fu costituita dalle crociate.
Nel 1212 un tale Etienne di Cloves riuscí a radunarne qualche migliaio, quasi
tutti inferiori ai 12 anni, con il miraggio della Terrasanta e a consegnarli ai
mercanti di schiavi che li vendettero in Egitto. Amalfi applica alla sua politica
una formula che gli italiani definiranno veneziana: competenza tecnica, audacia
spericolata, diplomazia spregiudicata. A questa deve un successo che illuminerà
i suoi secoli: il X e parte dell'XI. A quei tempi gli amalfitani si erano resi
padroni del commercio nei mari che circondano l'Italia: Tirreno, Ionio e persino
il basso Adriatico, ed estendevano la loro rete di scambi e di basi commerciali
a tutto il Mediterraneo. A Napoli ebbero un quartiere, moli per l'ancoraggio,
banchi di cambio. E così a Capua, a Benevento, Palermo, Messina, Barletta, Giovinazzo,
Brindisi, Bari, Monopoli. Ardimento e perizia della navigazione li spinsero a
insediarsi nelle piazze commerciali di Tunisi, Alessandria, Acri, Antiochia e,
naturalmente, Costantinopoli. Giunsero a stringere accordi commerciali in India.
Ottennero privilegi e franchigie in mezzo mondo, e tutto ciò ben prima delle Crociate.
I loro mercanti accumulavano ricchezze favolose. Il celebre Pantaleone fu nominato
patrizio imperiale e condusse le trattative fra l'imperatore d'Oriente e quello
d'Occidente per una lega contro i normanni. Suo figlio Mauro fondò ospizi in Gerusalemme
e in Antiochia e donò le porte di bronzo all'abbazia di Montecassino. Gerardo
da Scala ottenne dal sultano d'Egitto il permesso di costruire un ospedale e una
chiesa vicino al Santo Sepolcro: e quella fu la sede originaria dei Cavalieri
gerosolimitani, che poi furono di Rodi e di Malta. I viaggiatori di allora descrivono
Amalfi come città ricchissima, piú importante di Napoli: la città piú prospera
di Longobardia, dice un cronista arabo. Erano sbalorditi dall'abbondanza dell'oro,
dell'argento, di stoffe preziose, delle strade fitte di una folla cosmopolita:
arabi, siciliani, normanni, africani, indiani. Questa straordinaria potenza
economica si sfascia tragicamente e improvvisamente quando i normanni, passata
la metà del secolo XI, si impadroniscono della Sicilia e dell'Italia meridionale.
Questa volta il gioco di mettere gli uni contro gli altri non riesce piú. Dopo
aver tentato vanamente di costruire un'alleanza greco-tedesca contro i normanni
Amalfi cede a Roberto il Guiscardo, che le promette un'autonomia rinnegata poi
dal successore Ruggero. Costretta a combattere sotto comando normanno contro Napoli,
alleata di Pisa, quest'ultima, approfittando di un'assenza della flotta amalfitana
dal suo porto, lo assale con 59 galere, occupa la città rivale, la mette a sacco
e la distrugge con tremenda ferocia. Una città opulenta di 50 mila abitanti è
ridotta a un mucchio di rovine tra le quali si aggira qualche migliaio di superstiti.
Dopo di allora, si riprenderà come porto di traffico locale, ma sparirà dalla
scena mediterranea che si sta aprendo alle altre grandi repubbliche italiane.
1Storia del Regno di Napoli,
Laterza, Bari, 1966.
(Tratto
dal saggio Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, 2004.)
Giorgio
Ruffolo (Roma, 1926) è stato segretario generale della programmazione economica
negli anni Sessanta e ministro dell'Ambiente dal 1987 al 1992; deputato e senatore
al Parlamento italiano, è oggi deputato al Parlamento europeo. Dal 1994 è presidente
del Centro Europa Ricerche. È stato tra i fondatori della rivista "Micromega".
Ha pubblicato anche La grande impresa nella società moderna (1971) e
Cuori e denari (1999).
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