Superior
Stabat: retorica del lupo e dell'agnello
Umberto Eco
Non so se valga la pena di dirvi quello che vi dirò perché ho la chiara coscienza
di parlare a una massa di idioti con il cervello andato in acqua e basta guardarvi
in faccia per capire che non capirete nulla. Vi piace questo inizio? Si tratta
di un caso di captatio malevolentiae, e cioè dell'uso di una figura retorica
che non esiste e non può esistere, la quale mira a inimicarsi l'uditorio e a mal
disporlo verso il parlante. Tra parentesi, credevo di avere inventato io anni
fa la captatio malevolentiae per definire il tipico atteggiamento di
un amico, ma poi - controllando su Internet - ho visto che ormai esistono molti
siti dove la captatio malevolentiae viene citata, e non so se si tratti
di disseminazione della mia proposta o di poligenesi letteraria (che si ha quando
la stessa idea viene a persone diverse in luoghi diversi e nello stesso tempo).
Badate che tutto sarebbe stato diverso se io avessi iniziato in questo modo:
"Non so se valga la pena di dirvi quello che vi dirò perché ho la chiara coscienza
di parlare a una massa di idioti con il cervello andato in acqua, ma parlo solo
per rispetto verso quei due o tre di voi presenti in questa sala che non appartengono
alla maggioranza degli imbecilli". Questo sarebbe un caso (sia pure estremo e
pericoloso) di captatio benevolentiae, perché ciascuno di voi sarebbe
automaticamente persuaso di essere uno di quei due o tre e, guardando con disprezzo
tutti gli altri, mi seguireste con affettuosa complicità. La captatio
benevolentiae è un artificio retorico che consiste, come ormai avrete capito,
nel conquistarsi subito la simpatia dell'interlocutore. Sono forme comuni di captatio
l'esordio "è per me un onore parlare a un pubblico così qualificato" ed è captatio
consueta (tanto da essersi ribaltata talora nel suo uso ironico) il "come lei
m'insegna..." dove, nel ricordare a qualcuno qualcosa che non sa o ha dimenticato,
si premette che si ha quasi vergogna a ripeterlo perché evidentemente l'interlocutore
è il primo a saperlo. Perché in retorica si insegna la captatio benevolentiae?
Come voi tutti m'insegnate, la retorica non è quella cosa talora ritenuta disdicevole,
per cui noi usiamo paroloni inutili o ci profondiamo in appelli emotivi esagerati
e non è neppure, come vuole una lamentevole vulgata, un'arte sofistica - o almeno,
i Sofisti greci che la praticavano non erano quei mascalzoni che ci presenta spesso
una cattiva manualistica. Peraltro il grande maestro di una buona arte retorica
è stato proprio Aristotele, e Platone (malgrado un testo malizioso come il Gorgia)
nei suoi dialoghi usava artifici retorici raffinatissimi, e li usava per polemizzare
contro i Sofisti. La retorica è una tecnica della persuasione, e di nuovo
la persuasione non è una cosa cattiva, anche se si può persuadere qualcuno con
arti riprovevoli a fare qualcosa contro il proprio interesse. Una tecnica della
persuasione è stata elaborata e studiata perché su pochissime cose si può convincere
l'uditore attraverso ragionamenti apodittici. Una volta stabilito che cosa sia
un angolo, un lato, un'area, un triangolo, nessuno può mettere in dubbio la dimostrazione
del teorema di Pitagora. Ma, per la maggior parte delle cose della vita quotidiana,
si discute intorno a cose circa le quali si possono avere diverse opinioni. La
retorica antica si distingueva in giudiziaria (e in tribunale è discutibile se
un dato indizio sia probante o meno), deliberativa (che è quella dei parlamenti
e delle assemblee, in cui si dibatte per esempio se sia giusto costruire la variante
di valico, rifare l'ascensore del condominio, votare per Tizio piuttosto che per
Caio) ed epidittica, e cioè in lode o in biasimo di qualcosa, e tutti siamo d'accordo
che non esistono leggi matematiche per stabilire se sia stato più affascinante
Gary Cooper piuttosto che Humphrey Bogart, se lavino più bianco l'Omo o il Dash,
se Irene Pivetti appaia più femminile di Platinette. Siccome per la maggior parte
dei dibattiti di questo mondo si argomenta intorno a questioni che sono oggetto
di dibattito, la tecnica retorica insegna a trovare le opinioni sulle quali concorda
la maggior parte degli uditori, a elaborare dei ragionamenti che siano difficilmente
contestabili, a usare il linguaggio più appropriato per convincere della bontà
della propria proposta, e anche a suscitare nell'uditorio le emozioni appropriate
al trionfo della nostra argomentazione, compresa la captatio benevolentiae.
Naturalmente ci sono dei discorsi persuasivi che possono essere facilmente
smontati in base a discorsi più persuasivi ancora, mostrando i limiti di un'argomentazione.
Voi tutti (captatio) conoscete forse quella pubblicità immaginaria che
dice "Mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliarsi", e che viene usata
talora per contestare che le maggioranze abbiano sempre ragione. L'argomento può
essere confutato chiedendo se le mosche prediligano lo sterco animale per ragioni
di gusto o per ragioni di necessità. Si domanderà allora se, cospargendo campi
e strade di caviale e miele, le mosche non sarebbero forse maggiormente attirate
da queste sostanze, e si ricorderà che la premessa "tutti quelli che mangiano
qualcosa è perché la amano" è contraddetta da infiniti casi in cui le persone
sono costrette a mangiare cose che non amano, come avviene nelle carceri, negli
ospedali, nell'esercito, durante le carestie e gli assedi, e nel corso di cure
dietetiche. Ma a questo punto è chiaro perché la captatio malevolentiae
non può essere un artificio retorico. La retorica tende a ottenere consenso, e
quindi non può apprezzare esordi che scatenino immediatamente il dissenso. Pertanto
è tecnica che non può che fiorire in società libere e democratiche, compresa quella
democrazia certamente imperfetta che era quella della Atene antica. Se io posso
imporre qualcosa con la forza, non ho bisogno di richiedere il consenso: rapinatori,
stupratori, saccheggiatori di città, kapò di Auschwitz non hanno mai avuto bisogno
di usare tecniche retoriche. Sarebbe allora facile stabilire una linea di
confine: ci sono culture e paesi in cui il potere si regge sul consenso, e in
essi si usano tecniche di persuasione, e ci sono paesi dispotici dove vale solo
la legge della forza e della prevaricazione, e in cui non è necessario persuadere
nessuno. Ma le cose non sono così semplici, ed ecco perché questa sera parleremo
della retorica della prevaricazione. Se, come dice il dizionario, prevaricare
significa abusare del proprio potere per trarne vantaggi contro l'interesse della
vittima, agire contrariamente all'onestà trasgredendo i limiti del lecito, sovente
chi prevarica, sapendo di prevaricare, vuole in qualche modo legittimare il proprio
gesto e persino - come avviene nei regimi dittatoriali - ottenere consenso da
parte di chi soffre la prevaricazione, o trovare qualcuno che sia disposto a giustificarla.
Pertanto si può prevaricare e usare argomenti retorici per giustificare il proprio
abuso di potere. Uno degli esempi classici di pseudo-retorica della prevaricazione
ci è dato dalla favola del lupo e dell'agnello di Fedro: Il lupo e l'agnello,
assetati, / erano giunti al medesimo rivo. Più in alto stava il lupo; / ben più
in basso, l'agnello. Quando, spinto da voracità sfrenata, / quel brigante cercò
un pretesto per litigare. / "Perché", attaccò, "mi hai intorbidato l'acqua che
bevevo?" / A sua volta l'agnello tutto intimorito: / "Ma, scusami, lupo, come
posso fare ciò di cui ti lagni? / È da te che scende l'acqua che io sorseggio".
Come si vede l'agnello non manca di astuzia retorica e, di fronte a un'argomentazione
debole del lupo, sa come confutarla, e proprio in base all'opinione compartecipata
dalle persone di buon senso per cui l'acqua trascina detriti e impurità da monte
a valle e non da valle a monte. Di fronte alla confutazione dell'agnello, il lupo
ricorre ad altro argomento: Allora quello, smentito dall'evidenza, incalza:
/ "Sei mesi or sono parlasti male di me". / E l'agnello replicò: "Ma io non ero
neppure nato!". Altra bella mossa da parte dell'agnello, a cui il lupo
risponde cambiando ancora giustificazione. E l'altro: "Tuo padre, per Ercole,
parlò male di me". / E così dicendo lo afferra e, violando ogni diritto, lo sbrana.
/ Questa favola è dedicata a chi / inventa pretesti per opprimere gli innocenti.
La favola ci dice due cose. Che chi prevarica cerca anzitutto di legittimarsi.
Se la legittimazione viene confutata, oppone alla retorica il non argomento della
forza. Naturalmente la favola di Fedro ci offre una caricatura del prevaricatore
in quanto retore, perché il povero lupo usa solo argomenti deboli, ma al tempo
stesso ci offre un'immagine forte del prevaricatore forte. Badate che la favola
di Fedro non racconta qualcosa d'irreale. In effetti, nel resto della mia conferenza
cercherò di individuare tecniche attraverso le quali la situazione si ripropone
nel corso della storia. Sia pure in forme più raffinate. Abbiamo visto che
il lupo usa argomenti speciosi, ma non è che l'agnello dia prova, nel confutarli,
di grande sottigliezza. La falsità degli argomenti del lupo sta sotto gli occhi
di tutti. Talora però gli argomenti sono più sottili perché sembrano prendere
come punto di partenza un'opinione compartecipata dai più, quelli che la retorica
greca chiamava un éndoxon, e su quelli lavora, nascondendo la tecnica
della petitio principii, in base alla quale si usa come argomento probante
la tesi che si doveva dimostrare, oppure si confuta un argomento usando come prova
ciò che l'argomento voleva confutare. Leggiamoci questo brano:
Di
quando in quando i giornali illustrati mettono sotto gli occhi del piccolo borghese
[...] una notizia: qua o là, per la prima volta, che un Negro è diventato avvocato,
professore, o pastore o alcunché di simile. Mentre la sciocca borghesia prende
notizia con stupore d'un così prodigioso addestramento, piena di rispetto per
questo favoloso risultato della pedagogia moderna, l'ebreo, molto scaltro, sa
costruire con ciò una nuova prova della giustezza della teoria, da inocularsi
ai popoli, della eguaglianza degli uomini. Il nostro decadente mondo borghese
non sospetta che qui in verità si commette un peccato contro la ragione; che è
una colpevole follia quella di ammaestrare una mezza scimmia in modo che si creda
di averne fatto un avvocato, mentre milioni di appartenenti alla più alta razza
civile debbono restare in posti incivili e indegni. Si pecca contro la volontà
dell'Eterno Creatore lasciando languire nell'odierno pantano proletario centinaia
e centinaia delle sue più nobili creature per addestrare a professioni intellettuali
Ottentotti, Cafri e Zulù. Perché qui si tratta proprio d'un addestramento, come
nel caso del cane, e non di un "perfezionamento" scientifico. La stessa diligenza
e fatica, impiegata su razze intelligenti, renderebbe gli individui mille volte
più capaci di simili prestazioni [...]. Sì, è insopportabile il pensiero che ogni
anno centomila individui privi d'ogni talento siano ritenuti degni d'un'educazione
elevata, mentre altre centinaia di migliaia, dotati di belle qualità, restano
prive d'istruzione superiore. Inapprezzabile è la perdita che così soffre la nazione.
Di chi è questo brano? Di Bossi? Di Borghezio? Di un ministro del nostro
governo? L'ipotesi non sarebbe inverosimile, ma il brano è di Adolf Hitler, da
Mein Kampf. Hitler, per preparare la sua campagna razzista, si trova a dover confutare
un argomento molto forte contro l'inferiorità di alcune razze, e cioè che, se
un africano viene messo in condizioni di imparare, si rivela altrettanto prensile
e capace di un europeo, dimostrando così che non appartiene a una razza inferiore.
Come confuta Hitler questo argomento? Dicendo: ma come è possibile che un essere
inferiore impari? Evidentemente è stato sottoposto ad addestramento meccanico
come avviene con gli animali da circo. Pertanto l'argomento, che tendeva a dimostrare
che i neri non erano animali, viene confutato ricorrendo all'opinione, che certamente
i suoi lettori radicatamente condividevano, che i neri siano animali. Ma
torniamo al nostro lupo. Esso, per divorare l'agnello, cerca un casus belli,
cerca cioè di convincere l'agnello, o gli astanti, e forse persino se stesso,
che egli mangia l'agnello perché gli ha fatto un torto. Questa è la seconda forma
di una retorica della prevaricazione. La storia dei casus belli nel corso
della Storia mette, infatti, in scena dei lupi un poco più avveduti. Tipico è
il casus belli che ha dato origine alla Prima guerra mondiale. Nell'Europa
del 1914 esistevano tutti i presupposti per una guerra; anzitutto una forte concorrenza
economica fra le grandi potenze: il progresso dell'impero tedesco sui grandi mercati
inquietava la Gran Bretagna, la Francia vedeva con preoccupazione la penetrazione
tedesca nelle colonie africane, la Germania soffriva di un complesso di accerchiamento,
ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali, la Russia
si eleggeva a protettrice dei paesi balcanici e si confrontava con l'impero austro-ungarico.
Di qui la corsa agli armamenti, i moti nazionalistici e interventisti nei singoli
paesi. Ciascun paese aveva interesse a fare una guerra ma nessuna di queste premesse
la giustificava. Siccome chiunque l'avesse dichiarata sarebbe apparso come inteso
a difendere interessi nazionali e a prevalere sugli interessi delle altre nazioni,
ci voleva un pretesto. Ed ecco che, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, uno studente
bosniaco uccide in un attentato l'arciduca ereditario d'Austria-Ungheria Francesco
Ferdinando e la consorte. E ovvio che il gesto di un fanatico non coinvolge un
intero paese, ma l'Austria coglie la palla al balzo. D'accordo con la Germania,
attribuisce al governo serbo la responsabilità dell'eccidio, e indirizza a Belgrado
il 23 luglio un duro ultimatum alla Serbia, ritenuta responsabile di un piano
antiaustriaco. La Russia assicura subito il proprio sostegno alla Serbia, la quale
risponde all'ultimatum in modo abbastanza conciliante ma bandisce al tempo stesso
la mobilitazione generale. A questo punto l'Austria dichiara guerra alla Serbia,
senza attendere una proposta di mediazione presentata dall'Inghilterra. In breve
tempo tutti gli stati europei entrano in guerra. Per fortuna c'è stata la Seconda
guerra mondiale coi suoi cinquanta milioni di morti, altrimenti la Prima avrebbe
avuto il primato tra tutte le tragiche follie della Storia. L'Austria, paese
civile e illuminato, aveva cercato un pretesto forte. Alla fin fine era stato
ucciso il principe ereditario e di fronte a un fatto così evidente bastava inferirne
che il gesto di Prinzip non era stato isolato ma era stato ispirato dal governo
serbo. Argomento indimostrabile, ma dotato di una certa presa emotiva. E questo
ci porta a un'altra forma di giustificazione della prevaricazione, il ricorso
alla sindrome del complotto. Uno dei primi argomenti che si usano per scatenare
una guerra o dare inizio a una persecuzione è l'idea che si debba reagire a un
complotto ordito contro di noi, il nostro gruppo, il nostro paese, la nostra civiltà.
Il caso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il libello che è servito di giustificazione
allo sterminio degli ebrei, è un tipico caso di teoria del complotto. Ma la teoria
del complotto è ben più antica. Popper vi ha scritto un bellissimo saggio, spiegando
che detta teoria, più primitiva di molte forme di teismo, è simile a quella rilevabile
in Omero. Questi concepiva il potere degli dèi in modo che tutto ciò che accadeva
nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici
cospirazioni tramate nell'Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti
una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in divinità i cui capricci
o voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venir meno del riferimento
a dio, e della conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?". Quest'ultimo è ora
occupato da diversi uomini e gruppi potenti - sinistri gruppi di pressione, cui
si può imputare di avere organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui
soffriamo. La teoria sociale della cospirazione è molto diffusa, e contiene molto
poco di vero. Soltanto quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere,
essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali [...]. Per esempio,
quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Vecchi
Saggi di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione.
In genere le dittature, per mantenere il consenso popolare intorno alle loro decisioni,
denunciano l'esistenza di un paese, un gruppo, una razza, una società segreta
che cospirerebbe contro l'integrità del popolo dominato dal dittatore. In genere
ogni forma di populismo, anche contemporaneo, cerca di ottenere il consenso parlando
di una minaccia che viene dall'esterno, o da gruppi interni. Ma chi ha saputo
creare intorno ai propri casus belli un efficace contorno di teoria del
complotto non è stato solo Hitler, che sul complotto giudaico ha fondato non solo
il massacro degli ebrei ma anche tutta la sua politica di conquista contro quelle
che la stampa italiana chiamava le plutocrazie demogiudaiche. Un abile miscelatore
di casus belli e teoria del complotto è stato Mussolini. Prendiamo come ottimo
esempio il discorso dell'ottobre 1935 nel quale il Duce annunciava l'inizio della
conquista dell'Etiopia. L'Italia, poco dopo l'unificazione, aveva cercato di emulare
gli altri stati europei procurandosi delle colonie. Non giudichiamo la bontà di
questa pretesa, che nel XIX secolo non era messa in discussione, dato che vigeva
l'ideologia del fardello civilizzatore dell'uomo bianco, come aveva detto Kipling.
Diciamo che, essendosi stanziata in Somalia ed Eritrea, l'Italia aveva a più riprese
cercato di sottomettere l'Etiopia, ma si era scontrata con un paese di antichissima
civiltà cristiana, che un tempo era stato identificato dagli europei con il favoloso
impero del prete Gianni, e che, a modo proprio, cercava di aprirsi alla civiltà
occidentale.
Nel 1895 gli italiani avevano subìto la sconfitta di Adua, e da allora l'Italia
era stata costretta a riconoscere l'indipendenza dell'Abissinia esercitandovi
una sorta di protettorato e conservando alcune teste di ponte nel suo territorio.
Ma ai tempi del fascismo già Ras Tafari aveva cercato di fare evolvere il suo
paese da una situazione ancora feudale verso forme più moderne e in seguito Hailè
Selassiè aveva compreso che l'unica possibilità di salvare l'ultimo Stato sovrano
d'Africa era la modernizzazione. Naturalmente il Negus, per contrastare la penetrazione
di tecnici italiani, aveva chiamato nel paese tecnici e consiglieri da Francia,
Inghilterra, Belgio e Svezia, per il riordinamento dell'esercito, per l'addestramento
all'uso delle nuove armi e dell'aviazione. Per il fascismo non si trattava di
civilizzare un paese che già stava faticosamente percorrendo le vie dell'occidentalizzazione
parziale (e, ripeto, non vi era neppure il pretesto religioso che potesse opporre
la missione civilizzatrice di un paese cristiano a una cultura di idolatri): si
trattava semplicemente di difendere degli interessi economici. Pertanto la decisione
di invadere l'Etiopia non poteva che nascere, anche qui, da un casus belli.
Esso era stato dato dal controllo della zona di Ual-Ual, fortificata dagli italiani
per controllare una ventina di pozzi, risorsa essenziale per le popolazioni nomadi
dell'Ogaden. Il possesso della zona non era riconosciuto dall'Etiopia e preoccupava
l'Inghilterra che aveva colonie confinanti. In breve, succede un incidente: il
24 novembre 1934 una commissione mista anglo-etiopica si avvicina ai pozzi, accompagnata
da centinaia di abissini armati, che pretendono l'abbandono della postazione.
Intervengono altre forze italiane, compresa l'aviazione. Gli inglesi esprimono
una protesta e se ne vanno, rimangono gli abissini, scoppia uno scontro. Trecento
morti fra gli abissini; muoiono anche ventuno dubat (truppe coloniali italiane)
e si contano un centinaio di feriti fra gli italiani. Come tanti scontri di frontiera
anche questo avrebbe potuto risolversi per vie diplomatiche (in fondo il punteggio
Italia-Abissinia era stato, in termini di morti, di quattordici a uno), ma per
Mussolini era il pretesto che cercava da tempo. Vediamo con quale retorica egli
si legittimi di fronte al popolo italiano e al mondo nel suo discorso del 2 ottobre
1935, dal balcone di Palazzo Venezia. Camicie Nere della Rivoluzione! Uomini
donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari:
ascoltate! Un'ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti
milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si
vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di
uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. Da molti mesi la
ruota del destino, sotto l'impulso della nostra calma determinazione, si muove
verso la meta [...]. Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi,
ma è un popolo intero di 44 milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare
la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po' di posto al sole.
Quando nel 1915 l'Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle
degli alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo
la Vittoria comune, alla quale l'Italia aveva dato il contributo supremo di 670.000
morti, 400.000 mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace
esosa non toccarono all'Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale.
Abbiamo pazientato 13 anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio
degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l'Etiopia abbiamo pazientato
40 anni! Ora basta! [...]. Ma sia detto ancora una volta, nella maniera più categorica
e io ne prendo in questo momento impegno sacro davanti a voi che noi faremo tutto
il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere
e la portata di un conflitto europeo [...]. Mai come in questa epoca storica il
Popolo italiano ha rivelato le qualità del suo spirito e la potenza del suo carattere.
Ed è contro questo Popolo al quale l'umanità deve talune delle sue più grandi
conquiste, ed è contro questo Popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi,
di navigatori, di trasmigratori, è contro questo Popolo che si osa parlare di
sanzioni! Rileggiamo i punti salienti di questo discorso. Anzitutto una legittimazione
per volontà popolare. Mussolini sta decidendo per conto proprio, ma la presenza,
presunta, di venti milioni di italiani adunati nelle varie piazze sposta su di
essi la decisione del conflitto. In secondo luogo la decisione avviene perché
così vuole la ruota del destino. Il Duce, e gli italiani con lui, fanno quello
che fanno perché interpretano i decreti del Fato. In terzo luogo la volontà di
impossessarsi della colonia etiopica viene presentata come la volontà di opporsi
a un furto: essi vogliono toglierci un poco di posto al sole. In verità essi (e
cioè i paesi europei che avevano dichiarato le sanzioni contro l'Italia) volevano
che essa non prendesse qualcosa che non era suo. Lasciamo perdere la domanda circa
gli interessi nazionali che gli altri paesi perseguivano nell'opporsi all'invasione
italiana. Sta di fatto che non volevano toglierci una nostra proprietà: si opponevano
a che rubassimo quella altrui. Ma ecco che emerge l'appello alla teoria del
complotto. L'Italia proletaria è affamata dalla cospirazione delle potenze demo-pluto-giudaiche,
ispirate naturalmente dal capitalismo ebraico. Infatti segue un appello alla frustrazione
nazionalistica, con la ripresa del tema della vittoria mutilata. Noi abbiamo vinto
una guerra mondiale e non abbiamo avuto quello a cui avevamo diritto. Di fatto
avevamo esplicitamente fatto la guerra per riprenderci Trento e Trieste e li avevamo
avuti. Ma glissons. E solo con l'appello a una frustrazione comune (la sindrome
del complotto prevede sempre un complesso di persecuzione) che si rende emotivamente
necessario e comprensibile il colpo di scena finale: con l'Etiopia abbiamo pazientato
quarant'anni e ora basta. Ci si potrebbe chiedere se anche l'Etiopia non avesse
pazientato con noi, visto che noi andavamo a casa sua mentre essa non aveva né
l'idea né la possibilità di venire a casa nostra. Ma tant'è, il colpo di scena
funziona, la folla esplode in boati di soddisfazione perché quando ce vo' ce vo'.
In conclusione - e questa è una mossa retorica originale - la captatio benevolentiae
non appare all'inizio ma alla fine. Questo popolo perseguitato e disprezzato la
cui volontà deve legittimare l'invasione ha delle qualità di spirito e potenza
di carattere, ed è per eccellenza popolo di poeti, artisti, eroi, santi e navigatori.
Come se Shakespeare, i costruttori delle cattedrali gotiche, Giovanna d'Arco e
Magellano fossero nati tutti tra Bergamo e Trapani. Mussolini e Hitler non sono
stati gli ultimi a riprendere la teoria del complotto. So che tutti in questo
momento state pensando a Berlusconi, che della teoria rimane però un pallido ripetitore.
Ben più preoccupante è la ripresa dei Protocolli e del complotto giudaico per
giustificare il terrorismo arabo. Dopo decenni e decenni che i Protocolli sono
stati dimostrati un falso (costruito gradatamente nell'Ottocento da gesuiti legittimisti,
polizie segrete francese e russa), basta che visitiate i siti Internet in cui
essi vengono riproposti e controlliate la diffusione anche ufficiale che hanno
nel mondo arabo. Per non intristirvi, vi citerò un'ennesima variazione della
teoria, che apprendo da un articolo di Massimo Introvigne, studioso di sette di
ogni genere, del gennaio scorso ("Il Giornale", 17 gennaio 2004), I Pokémon? Sono
un complotto giudaico-massonico. Pare dunque che il governo dell'Arabia Saudita
avesse vietato i Pokémon nel 2001. Ora una lunga fatwa dello shaykh Yusuf al-Qaradawi,
del dicembre 2003, ci dà le motivazioni della sentenza saudita del 2001. Esiliato
da Nasser negli anni Settanta, al-Qaradawi vive in Qatar dove è considerato il
più autorevole dei predicatori che parlano dalla rete televisiva al-Jazeera. Non
solo: nel mondo cattolico ai massimi livelli molti lo considerano un interlocutore
indispensabile nel dialogo con l'Islam. Ora questa autorità religiosa afferma
che i Pokémon vanno condannati perché "si evolvono", e cioè in determinate condizioni
si trasformano in un personaggio con maggiori poteri. Attraverso questo espediente,
assicura al-Qaradawi, "si instilla nelle giovani menti la teoria di Darwin", tanto
più che i personaggi lottano "in battaglie dove sopravvive chi si adatta meglio
all'ambiente: un altro dei dogmi di Darwin". Inoltre, il Corano vieta la rappresentazione
di animali immaginari. I Pokémon sono anche protagonisti di un gioco di carte,
e questi giochi sono vietati dalla legge islamica come "residuati della barbarie
pre-islamica". Ma nei Pokémon si vedono anche "simboli il cui significato è ben
noto a chi li diffonde, come la stella a sei punte, un emblema che ha a che fare
con i sionisti e con i massoni e che è diventato il simbolo del canceroso e usurpatore
Stato di Israele. Ci sono anche altri segni, come i triangoli, che fanno chiaro
riferimento ai massoni, e simboli dell'ateismo e della religione giapponese".
Questi simboli non possono che traviare i bambini musulmani, ed è questo il loro
scopo. E perfino possibile che certe frasi giapponesi dette velocemente nei cartoni
animati significhino "sono un ebreo" o "diventa ebreo": ma la questione è "controversa"
e al-Qaradawi non lo afferma con sicurezza. State attenti, per i fanatici il complotto
e la cospirazione dell'Altro si annidano dappertutto. Ritorniamo all'Austria
e a Mussolini. In quei casi il casus belli esisteva, sia pure magnificato
ad arte. Ci sono casi in cui viene creato ex novo. Io non voglio partecipare -
per rispetto delle diverse opinioni dei miei ascoltatori - alla discussione in
corso sul fatto se Saddam avesse davvero le armi di distruzione di massa che hanno
giustificato l'attacco all'Iraq. Mi rifaccio piuttosto ad alcuni testi di quei
gruppi di pressione americani detti "neoconservatori", i quali sostengono, non
senza ragioni, che gli Stati Uniti, essendo il paese democratico più potente del
mondo, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di intervenire per garantire
quella che comunemente viene detta la pax Americana. Ora nei vari documenti
elaborati dai neoconservatori si era da tempo fatta strada l'idea che gli Stati
Uniti avevano dato prova di debolezza non portando a termine, ai tempi della prima
guerra del Golfo, l'occupazione di tutto l'Iraq e la deposizione di Saddam e,
specialmente dopo la tragedia dell'undici settembre, si sosteneva che l'unico
modo per tenere a freno il fondamentalismo arabo fosse dare una prova di forza
dimostrando che la più grande potenza del mondo era in grado di distruggere i
suoi nemici. Pertanto si rendevano indispensabili l'occupazione dell'Iraq e la
deposizione di Saddam, non solo per difendere gli interessi petroliferi americani
in quella zona, ma per dare un esempio di forza e di temibilità. Non intendo
discutere questa tesi, che ha anche delle ragioni di Realpolitik. Ma ecco la lettera
inviata al presidente Clinton il 26 gennaio 1998 dai massimi esponenti del "Project
for the New American Century", punta di diamante dei neo cons, e firmato tra gli
altri da Francis Fukuyama, Robert Kagan e Donald Rumsfeld: Non possiamo più
contare sui nostri alleati per continuare a far rispettare le sanzioni o per punire
Saddam quando blocca o evade le ispezioni delle Nazioni Unite. Pertanto la nostra
capacità di assicurare che Saddam Hussein non stia producendo armi di distruzione
di massa è notevolmente diminuita. Anche se dovessimo ricominciare le ispezioni
[...] l'esperienza ha dimostrato che è difficile se non impossibile tenere sotto
controllo la produzione irachena di armi chimiche e batteriologiche. Poiché gli
ispettori non sono stati in grado di accedere a molti impianti iracheni per un
lungo periodo di tempo, è ancora più improbabile che riusciranno a scoprire tutti
i segreti di Saddam [...]. L'unica strategia accettabile è quella di eliminare
la possibilità che l'Iraq diventi capace di usare o minacciare. Nel breve periodo
questo richiede la disponibilità a intraprendere una campagna militare [...].
Nel lungo periodo significa destituire Saddam Hussein e il suo regime [...]. Crediamo
che gli Stati Uniti siano autorizzati, all'interno delle esistenti risoluzioni
dell'Onu, a compiere i passi necessari, anche in campo militare, per proteggere
i nostri interessi vitali nel Golfo. Il testo mi pare inequivocabile: per
proteggere i nostri interessi nel Golfo dobbiamo intervenire; per intervenire
bisognerebbe poter provare che Saddam ha armi di distruzione di massa; questo
non potrà mai essere provato con sicurezza; quindi interveniamo in ogni modo.
La lettera non dice che le prove debbono essere inventate, perché i firmatari
sono uomini d'onore. Come si vede questa lettera, ricevuta da Clinton nel 1998,
non ha avuto nessuna influenza diretta sulla politica americana. Ma alcuni degli
stessi firmatari scrivevano il 20 settembre 2001 al presidente Bush, e quando
ormai uno dei firmatari della prima lettera era diventato ministro della difesa:
È possibile che il governo iracheno abbia fornito qualche forma di assistenza
ai recenti attacchi contro gli Stati Uniti. Ma anche se non ci fossero prove che
leghino direttamente l'Iraq all'attacco, qualunque strategia mirata a sradicare
il terrorismo e i suoi sostenitori deve includere un impegno determinato a destituire
Saddam Hussein. Due anni dopo, il duplice pretesto delle armi e dell'assistenza
al fondamentalismo musulmano è stato usato, con la chiara consapevolezza che,
anche se le armi c'erano, la loro esistenza non era provabile, e che il regime
dittatoriale di Saddam era laico e non fondamentalista. Ancora una volta, ripeto,
non sono qui a giudicare la saggezza politica di questa guerra, ma ad analizzare
forme di legittimazione di un atto di forza. Sinora abbiamo esaminato
alcuni casi in cui la prevaricazione cerca una giustificazione puntuale, un casus
belli, appunto. Ma l'ultimo passaggio del discorso mussoliniano cela un altro
argomento, di antica tradizione, che potremmo così sintetizzare: "Noi abbiamo
il diritto di prevaricare perché siamo i migliori". Nella sua retorica da autodidatta
Mussolini non poteva che ricorrere all'affermazione piuttosto kitsch che gli italiani
erano popolo di poeti, santi e navigatori. Avrebbe avuto un ben più alto modello,
ma non poteva farvi ricorso, perché rappresentava una lode dell'odiata democrazia.
Il modello era il discorso di Pericle, a un anno dall'inizio della guerra
del Peloponneso (riportato da Tucidide, La guerra del Peloponneso 2, 35-46). Questo
discorso è ed è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in
prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo
la felicità dei propri cittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione
delle leggi, il rispetto delle arti e dell'educazione, la tensione verso l'uguaglianza.
Abbiamo una forma di governo che non emula le leggi dei vicini, in quanto
noi siamo più d'esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo
che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è
chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati,
a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione
pubblica nell'amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del
suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale
[...]. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla
città, non ne è impedito dall'oscurità del suo rango [...]. Senza danneggiarci
reciprocamente esercitiamo i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza
soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che sono
nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia,
e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange
una vergogna da tutti riconosciuta [...]. E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo
sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto l'anno,
e 'avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente
deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città
giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni
degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui [...]. Amiamo il
bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo
la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco
vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre
lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli
affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo
ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici
[...]. Se i nostri antenati sono degni di lode, ancora di più lo sono i nostri
padri: non senza fatica aggiunsero quel dominio che ora è nostro a quello che
era stato lasciato loro, e così grande lo lasciarono a noi. Ma l'ampliamento del
dominio stesso è opera nostra, di tutti quanti noi che ci troviamo nell'età matura
e che abbiamo ingrandito la nostra città, sì da renderla preparata da ogni punto
di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra [...]. Nelle esercitazioni
della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti motivi. Offriamo la nostra
città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con la cacciata degli stranieri
noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa (mentre un nemico che
potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne trarrebbe un vantaggio).
Ché la nostra fiducia è posta più nell'audacia che mostriamo verso l'azione (audacia
che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli inganni. E nell'educazione,
gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed esercizi di raggiungere
un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non per questo ci
rifiutiamo di affrontare quei pericoli in cui i nostri nemici sono alla nostra
altezza. Eccone la prova: neppure i Lacedemoni invadono la nostra terra da soli,
ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo da soli i nostri vicini,
di solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera, combattendo con
della gente che difende i propri beni. Le nostre forze unite per ora nessun nemico
le ha incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e contemporaneamente
per terra facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte imprese. Se si scontrano
con una piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di averci respinti tutti,
mentre se sono vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi. Eppure, se noi
siamo disposti ad affrontare pericoli più col prendere le cose facilmente che
con un esercizio fondato sulla fatica, e con un coraggio generato in noi non più
dalle leggi che dal nostro modo di agire, da questo fatto ci deriva il vantaggio
di non affaticarci anticipando i dolori che ci attendono, e di non apparire, quando
li affrontiamo, più timidi di coloro che sempre si mettono a dura prova, e per
la nostra città il vantaggio di esser degna di ammirazione per questa e per altre
cose.
Questa è un'altra figura, e forse la più avveduta, della retorica
della prevaricazione: noi abbiamo il diritto di imporre la nostra forza sugli
altri perché incarniamo la forma migliore di governo che esista. Ma lo stesso
Tucidide ci offre un'altra ed estrema figura della retorica della prevaricazione,
la quale non consiste più nel trovare pretesti e casus belli, ma direttamente
nell'affermare la necessità e l'inevitabilità della prevaricazione. Nel corso
del loro conflitto con Sparta gli Ateniesi fanno una spedizione contro l'isola
di Melo, colonia spartana che era rimasta neutrale. La città era piccola, non
aveva dichiarato guerra ad Atene, né si era alleata con i suoi avversari. Bisognava
dunque giustificare quell'attacco, e prima di tutto mostrare che i Melii non accettavano
i principi della ragionevolezza e del realismo politico. Pertanto gli Ateniesi
mandano una delegazione ai Melii e li avvertono che non li distruggeranno se essi
si sottometteranno. I Melii rifiutano, per orgoglio e senso della giustizia (oggi
diremmo: del diritto internazionale), e nel 416 a.C., dopo un lungo assedio, l'isola
viene conquistata. Come scrive Tucidide, "gli Ateniesi uccisero tutti i maschi
adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne". E Tucidide
stesso (ne La guerra del Peloponneso 5, 89-113) a ricostruire il dialogo
tra Ateniesi e Melii, che ha preceduto l'attacco finale. Gli Ateniesi dicono
che non faranno un discorso lungo e poco convincente, sostenendo che è giusto
per loro esercitare la loro egemonia perché hanno sconfitto i Persiani, oppure
dicendo che ora esercitano un diritto di rappresaglia perché i Melii hanno fatto
torto agli Ateniesi. Rifiutano il principio del casus belli, non si comportano
inabilmente come il lupo di Fedro. Semplicemente invitano i Melii a trattare partendo
dalle vere intenzioni di ciascuno, perché i principi di giustizia sono tenuti
in considerazione solo quando un'eguale forza vincola le parti, altrimenti "i
potenti fanno quanto è possibile e i deboli si adeguano". Si noti che in effetti,
così dicendo, gli Ateniesi affermano, negandolo, che così fanno proprio perché
le loro vittorie sugli Spartani gli hanno assicurato il diritto di dominare sulla
Grecia, e perché i Melii sono coloni dei loro avversari. Ma di fatto, e con straordinaria
lucidità - vorrei dire onestà, ma forse l'onestà è di Tucidide che ricostruisce
il dialogo -, spiegano che faranno quel che faranno perché il potere è legittimato
solo dalla forza. I Melii, visto che non riescono ad appellarsi a criteri
di giustizia, rispondono seguendo la logica stessa dell'avversario, e si rifanno
a criteri di utilità, cercando di persuadere gli invasori che, se poi Atene dovesse
essere sconfitta nella guerra contro gli Spartani, rischierebbe di sopportare
la dura vendetta delle città ingiustamente attaccate come Melo. Rispondono gli
Ateniesi: "Comunque, in proposito, ci sia permesso di rischiare. E questo,
invece, che vogliamo chiarirvi: e cioè che siamo qui in difesa del nostro dominio
e che le parole che diremo mirano alla salvezza della vostra città. Intendiamo
dominare su di voi senza disturbi, e parimenti garantire la vostra salvezza, in
modo utile per entrambi". Dicono i Melii: "E come potrebbe tornare ugualmente
utile per noi essere schiavi e per voi dominare?". E gli Ateniesi: "Perché a voi,
invece di terribili sofferenze, toccherebbe la condizione di sudditi, e in tal
modo noi ci guadagneremmo, a non avervi massacrati". Chiedono i Melii: "E se ce
ne stessimo fuori, senza essere alleati né degli uni né degli altri?". Ribattono
gli Ateniesi: "No. Perché la vostra ostilità non ci danneggia quanto la vostra
amicizia: questa, infatti, sarebbe una prova manifesta, per i dominati, della
nostra debolezza, mentre il vostro odio lo è della nostra forza". In altri termini:
scusate tanto, ma ci conviene più sottomettervi che lasciarvi vivere, così saremo
temuti da tutti. I Melii dicono che non pensano di poter resistere alla loro
potenza ma che malgrado tutto hanno fiducia di non soccombere perché, devoti degli
dèi, si oppongono all'ingiustizia. Gli dèi? - rispondono gli Ateniesi.
Nulla di quanto riteniamo giusto e facciamo è al di fuori di quello che gli uomini
pensano del divino e vogliono per loro stessi. Riteniamo infatti che sia il divino
(a quanto si suppone), sia l'essere umano (palesemente, sempre) per una sorta
di costrizione naturale dominino su chi possono sopraffare. Anche noi ci avvaliamo
di questa legge, che non abbiamo stabilito, né applicato per primi quando già
era a disposizione: l'abbiamo ereditata già in vigore, e in eredità alla fine
la lasceremo, e resterà valida per sempre. Sappiamo bene che anche voi, e anche
altri, nella nostra stessa condizione di forza, agireste allo stesso modo.
È lecito sospettare che Tucidide, pur rappresentando con onestà intellettuale
il conflitto tra giustizia e forza, alla fine convenga che il realismo politico
stia dalla parte degli Ateniesi. In ogni caso ha messo in scena l'unica vera retorica
della prevaricazione, che non cerca mai giustificazioni fuori di sé. La persuasione
si identifica con la captatio malevolentiae: " Nanerottolo, o mangi questa
minestra o salti quella finestra". La storia non sarà altro che una lunga,
fedele e puntigliosa imitazione di questo modello, anche se non tutti i prevaricatori
avranno il coraggio e la lucidità, come abbiamo visto, dei buoni Ateniesi.
(Tratto da Nel segno della parola, Bur saggi, Rizzoli, Milano, 2005, a cura di Ivano Dionigi)
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