Golia
Beppe Fenoglio
Il primo
grido della sentinella andò perso. Ma quando ripeté: - I nostri! Tornano i nostri!
Hanno un prigioniero! - allora i partigiani che sedevano a cavalcioni del parapetto
della scuola a guardare in faccia il sole di gennaio sciamarono via dal parapetto
e per i vicoli e le scarpate si buttarono sullo stradone della collina. E la popolazione
col batticuore corse alla specola a prender parte. Videro attaccar la salita
un drappello di partigiani con in mezzo un uomo tanto più alto di loro, come se
lui sfuggisse alle regole della distanza che riducevano di tanto i partigiani.
Il gigante vestiva un'uniforme e aveva capelli biondissimi, nei quali il sole
giocava frenetico, come se non n'avesse parecchie di quelle occasioni. Poi
dall'ultima svolta sbucarono in velocità i partigiani del presidio e ora si sfrenavano
contro il drappello come se volessero ributtarlo a valle. La gente sulla specola
pensò: "Qui succede come tutte le altre volte che beccano uno della repubblica",
e si aspettava di vederli cozzare nel drappello, scardinarlo e artigliare il prigioniero
per dargli poi a pugni e calci un primo acconto. L'ultima volta gli stessi catturatori
avevano fatto quadrato intorno al prigioniero e avevano resistito all'assalto
sebbene grandinassero su loro tutti i colpi destinati al fascista. S'erano lottati
cosi per un quarto d'ora, e il groviglio sbandava da un ciglio all'altro della
strada come se questa s'inclinasse ora di qua ora di là. II drappello puntava
per salire, gli altri per fermarlo, sicché a chi guardava dalla specola pareva
che tutt'insieme si affannassero a spingere su per l'erta un pesantissimo carro
che un po' sale ma poi riscivola quando lo sforzo si rompe. Questo era successo
l'ultima volta e la penultima, ma stavolta fu differente. A venti passi dal
drappello si arrestarono di netto, guardarono un momento, poi in silenzio e con
le mani basse scansarono il drappello e gli si accodarono come ad ingrossar la
scorta. Si vide però il più piccolo ed il più giovane dei partigiani, quello che
per scherno chiamavano Carnera, avvicinarsi più d'ogni altro al gigante, spiccare
un salto e a volo strappargli dal petto un qualcosa che vi luccicava. Il colosso
si portò una mano al petto come se li fosse stato ferito e poi girò la testa,
come la girano i buoi, verso il partigiano piccolo. Sulla specola la gente
si guardò in faccia e un anziano disse: - Non dev'essere un fascista. O se lo
è, è talmente un pezzo grosso che gli mette rispetto. Poi dalla specola corsero
giú alla porta del paese, giusto in tempo per fare ala all'entrata di un soldato
tedesco circondato dai partigiani del presidio. La gente fremette e serrò gomito
a gomito quando su di essa, in curva, passò lo sguardo di lui. Non era uno sguardo
feroce, ma scaturiva da occhi cosi azzurri, piombava da tanta altitudine. Varcò
la soglia della scuola con dietro i partigiani che arrivavano si e no a coprirgli
le scapole, e la popolazione restò a fissare le pietre toccate dai suoi piedi
e ad annusare l'aria quasi che egli avesse dovuto lasciarci un odore particolare.
In quel boccheggiamento uno disse: - Visto, come son fatti gli uomini di Hitler?
- L'avevano visto, e tacevano, cominciando a spiegarsi il mistero dell'otto settembre,
quando una dozzina di questi uomini avevano domato delle caserme con dentro interi
reggimenti nostri. Sostarono davanti alla scuola un'ora buona, e alle donne non
passava per la mente di rincasare né glielo ricordavano i loro uomini. Finalmente
dalla scuola usci Sandor, il comandante, e gli trovarono un'aria grave come non
mai, come se sentisse il peso di una nuova e più alta responsabilità. L'avvilupparono
in una rete di domande, ma tutte fatte a bassa voce, quasi nella paura che il
tedesco da là dentro potesse afferrarle, offendersi e infuriarsi e travolgendo
i partigiani comparire sulla soglia a farli crepar tutti di puro spavento. Ma
la voce di Sandor era normale, e sonora, mentre rispondeva a tutti e a ciascuno:
--Sì, parla discretamente l'italiano. Del resto è più d'un anno che è in Italia.
Prima era sul fronte russo, poi l'hanno mandato qui da noi in riposo. Chiamalo
riposo. L'ha preso Tarzan e la sua volante, alla periferia di Ceva. No no, ha
subito alzato le mani, non se l'aspettava neanche lontanamente. Cosa gli ha fatto
Carnera? Gli ha soltanto preso la medaglia, una medaglia della Russia. Uno
si schiarí la gola e domandò se lo fucilavano. - Non ci conviene mica. È
meglio conservarlo per un cambio. Se va male a uno dei nostri, si manda il parroco
a Ceva a proporre il cambio. C'è da guadagnarci, alle volte per uno di loro te
ne restituiscono dieci dei nostri. A sentire che non lo fucilavano alla gente
si slargò il cuore e rincasarono con una certa qual consolazione. Per un
paio di giorni il tedesco non fu visibile, quantunque molti perdessero un bel
po' di tempo appostati in mira alle finestre della scuola, per vederlo almeno
di sfuggita, per vederne almeno un pezzo. Il terzo giorno, due donne che
tornavano dal forno con un bambino per mano e nell'altra il cestone del pane,
queste due donne all'altezza della scuola girarono a caso gli occhi e sussultarono
a vedere il tedesco alla finestra, inquadrato di profilo. Stava seduto e facendo
un lavoro per suo conto con le labbra strette e le mani sotto il davanzale. Dietro
alle due donne altri si accalcarono e guardavano incantati. Finché il tedesco
voltò gli occhi alla strada: la gente tenne il fiato, ma lo sguardo di lui era
diretto in basso, centrava i due bambini. - Belli bambini, - disse poi. Alzò
una mano e mostrava uno stivaletto, lo agitò un po' come se volesse metterlo in
vendita e disse: - Stivale, mio stivale rotto in una parte. Un uomo si staccò
e andò sorridendo fin sotto la grata; le donne lo seguirono con occhi trepidi
e compiaciuti. E disse, ad alta voce: - Io sapere aggiustare. Aggiustare e riportare.
Va bene? - Voi aggiustare e riportare. Capito. Grazie, - sillabò il tedesco
e di tra le sbarre gli passò lo stivaletto. Il ciabattino tornò, fendette
il crocchio, tenendo alto lo stivale, mostrandolo ma non prestandolo, come chi
torna dal palco della giuria con un premio. Benché il tedesco indugiasse dietro
la grata, ora la gente non aveva più occhi che per la sua calzatura, perché era
una cosa sua e la più vicina, che si poteva toccare. Poi di Fritz (lo battezzarono
così, all'unanimità, partigiani e borghesi) di Fritz Sandor dovette essersi fatto
un buon concetto, perché lo mise fuori a spaccar legna. Non libero, a sorvegliarlo
c'era sempre Carnera, seduto sulla montagnola dei ceppi, con la testa nella coppa
delle mani e gli occhi, naturalmente torvi, a seguire la traiettoria delle schegge.
Aveva quattordici anni appena compiuti ed era fatto come un ragno. Ficcato nei
calzoni teneva il suo pistolino 6,35 e ogni tanto lo tirava su a metà, un po'
come memento al tedesco e un po' perché non gli indolenzisse la pancia. Ma
Fritz a Carnera sorrideva sempre, cosi come sorrideva a tutti e a tutto, perfino
ai ciocchi sulla toppa. E quando gli riusciva un fendente di particolare forza
e precisione, che le schegge rimbalzavano fin sul tetto della censa, allora fissava
Carnera pazientemente come se non potesse essergli negato un sorriso almeno di
apprezzamento. Ma Carnera non poteva e non voleva sorridergli, sempre i suoi occhi
o s'appuntivano per il sospetto o s'intorbidavano per la noia. Avrebbe dato
un calcio a quel servizio di guardia, non fosse stato che il prigioniero era un
tedesco e questo servizio quindi tra i fatti salienti della sua carriera partigiana.
Ancorché pieno gennaio, Fritz per spaccar la legna si sfilava camicia e flanella.
E le donne, al riparo degli spigoli e delle tendine, lo guardavano a lungo: nessuno
dei loro uomini aveva quella pelle, una pelle di bimbo a fasciare un gigante di
quarant'anni, tenera, abbondante, fulgida per i peli d'oro. E un giorno in una
casa sullo spiazzo dove Fritz lavorava detonò uno schiaffo. Un marito era arrivato
dietro la moglie che perdeva tempo a contemplare il torace del tedesco, l'aveva
afferrata per le spalle, ruotata e battuta in faccia. Il fatto però non danneggiò
Fritz in paese, dove la cosa si riseppe, perché era chiaro che la colpa era tutta
di lei. Non lo consideravano più un nemico - del resto l'avevano considerato
tale soltanto per i pochi minuti della sua entrata in paese - e riusciva sempre
più difficile perfino considerarlo straniero; in quanto a stranieri, erano infinitamente
più stranieri i due prigionieri inglesi, Tom e Victory, che l'otto settembre erano
evasi da un campo di concentramento ed erano stati qualche mese con Sandor finché
in uno sbandamento del '44 erano andati a perdersi chissà dove. Ma la curiosità
non moriva. I bambini che tornavano dalla dottrina in canonica, si fermavano sempre
a vedere Fritz lavorare alla legna o ad altro e facevano ogni volta tardissimo,
ma a casa era sempre buona la scusa d'essersi fermati per Fritz. A Carnera la
bile montava fin sotto il palato, perché lui teneva infinitamente all'ammirazione
dei bambini, ma questi s'interessavano sempre e soltanto a Fritz. Finché, al massimo
della gelosia, Carnera li cacciava tutti a casa con un urlo e la faccia feroce.
Ora il cuciniere lo mandava spesso in giro per le case a farsi imprestare
gli arnesi da cucina che a lui mancavano, e dopo avergli dato quel che gli bisognava,
le donne lo trattenevano sempre un po' e gli versavano un bicchiere di vino dolce,
la prima che aveva pensato d'offrirglielo avendo scoperto che gli piaceva più
dell'altro ed essendosi fatta premura d'avvisarne le compagne. Quanto ai partigiani,
l'ammisero a mangiar con loro, anche se subito dopo lo spedivano nello stanzino
di là a lavare i piatti. Ma un giorno, appena senti Fritz affondare i primi
piatti nell'acqua, Ivan, che era dei più vecchi, ritirò le mani da sulla tavola
e disse: - È scandaloso trattare un tedesco così come lo trattiamo noi. Sandor
stava bagnando di saliva una sigaretta accesa male. Capi storto e disse: - Vorresti
che non gli facessimo nemmeno lavare i piatti? Allora Ivan disse adagio e
marcato: - Io voglio dire che lo trattiamo scandalosamente bene. Quasi come se
gli volessimo bene, ecco. Questo è lo scandaloso che dico io. Sandor disse
con leggerezza: - E cosa vuoi fargli? Fucilarlo? - Io non sono un sanguinario
e tu lo sai. Ci ho riflettuto molto, ed è proprio quello che dovremmo fargli.
Fucilarlo. Non aveva ancor detto l'ultima parola e già Carnera gli si era postato
dietro, con una mano sulla spalla, come a schierarsi e a incoraggiarlo. Lo
stanzone s'era allagato di silenzio, un partigiano lasciò cadere sulla tavola
la tabacchiera. - Per principio, bisogna farlo, - aggiunse Ivan. Sandor guardò
di sfuggita verso lo stanzino dove Fritz rigovernava, poi, abbassando involontariamente
la voce, disse: - A parte il fatto che eravamo d'accordo di conservarlo per un
eventuale cambio. A parte questo, a te cos'ha fatto? Perché ce l'hai? - A
me niente, perché se un tedesco m'avesse fatto qualcosa, non sarei qui a parlarti.
A me niente, ma qualcosa avrà ben fatto a qualcun altro. Pensa un momento, Sandor,
a tutto quello che hanno fatto i tedeschi in Italia. Ne hanno fatte tante, dico
io, che per farle debbono essercisi messi in tutti quanti sono, nessuno escluso,
e quindi Fritz compreso. S'intromise Polo, un altro dei più vecchi, e disse:
- Ma cosa vuoi che abbia fatto Fritz ? Non lo vedi che è il tedesco meno tedesco
che ci sia? Fritz è il tipo domestico. Carnera premeva sempre alle spalle
di Ivan e accennava a lavorargli i fianchi coi pugni per pungolarlo e intanto
fissava Sandor come a convincerlo per via ipnotica. Ivan disse, opacamente
come sempre: - Anche se lui personalmente non ha fatto niente, è giusto che paghi
lui per gli altri che hanno fatto e che non ci vengono nelle mani. Disse
Polo, sporgendo le labbra: - Per fortuna hai detto in principio che tu non sei
sanguinario... Allora Ivan alzò la voce. - No, sono giusto, e non sanguinario.
Pensa un momento ai nostri, che i tedeschi hanno fucilato, impiccato, bruciato
coi lanciafiamme, pensa a Marco, Dio Cristo, a Marco che l'hanno impiccato col
gancio da macellaio e ci ha messo un'ora a morire. E credi che Marco in tutta
quell'agonia non abbia pensato: "Almeno restano dei nostri che mi vendicheranno,
che li faranno pagare anche per me!"? Guarda noi come gliela facciamo pagare!
Questo è tradimento! - È tradimento! - echeggiò Carnera, sporgendosi da dietro
la schiena di Ivan. La parola mozzò il fiato a tutti. Poi, il partigiano
Gibbs cominciò: - Gli altri... - Non si poteva ancora dedurre se Gibbs parlava
a favore o contro, ma Ivan scattò subito. - Gli altri! Ma non capite che gli altri
siamo noi, possiamo esserlo da un minuto all'altro? Appena ci ammazzano siamo
subito gli altri. E se capitasse a me, e ne avessi il tempo, io lo penserei: "Almeno
i miei mi vendicheranno". E se da dove sarò andato a finire vedo che i miei non
soltanto non mi vendicano ma trattano bene uno di quelli che m'hanno ucciso, allora,
se potessi tornar giú, com'è vero Dio faccio la pelle al tedesco che m'ha ammazzato
e anche al partigiano che potendolo non m'ha vendicato. - Io ti capisco,
Ivan, - disse allora Sandor, - ma non mi sento di far fare a Fritz la fine che
vuoi tu. Io coi tedeschi ce l'ho, è naturale che ce l'ho, per tante cose. Ma non
c'è confronto con come ce l'ho coi fascisti. Io arrivo a dirti che ce l'ho soltanto
coi fascisti. Per me son loro la causa di tutto. Guarda, Ivan, se io corressi
dietro a un tedesco, e mi spuntasse da un'altra parte un fascista, stai certo
che io lascio perdere il tedesco e mi ficco dietro al fascista. E lo acchiappo,
dovesse creparmi la milza. E tu faresti lo stesso. - Questo è vero, anch'io
farei così. Ma con questo tedesco io non ho per niente la coscienza a posto. Per
niente -. E scuoteva tenacemente la testa. Poi si alzò, andò alla finestra, come
se le sue prossime parole fossero da proclamarsi al mondo. E disse: - Ma che gente
siamo noi italiani ? Siamo in una guerra in cui si può far del male a tutti, si
deve far del male a tutti, e noi ce lo facciamo soltanto tra noi. Cos'è questo?
Vigliaccheria, cretina bontà, forse giustizia? Io non lo so. So solo che se noi
di qua pigliamo un tedesco, invece di ammazzarlo finiamo per tenerlo come uno
dei nostri. I fascisti di là, se beccano un inglese o un americano, qualche sfregio
certo gli faranno, ma ammazzarlo non lo ammazzano. Ma se invece ci pigliamo tra
noi, niente ti salva più, e se cerchiamo di spiegare che siamo fratelli ci ridiamo
in faccia. È così, quando la guerra finirà, ci sarà, mettiamo, degli inglesi che
tornano dalle loro madri e dicono: "M'hanno preso i fascisti italiani ma m'hanno
lasciata salva la vita", e dei tedeschi che torneranno a casa e diranno la stessa
cosa dei partigiani italiani. Ma alle madri italiane, alle nostre, che cosa si
dirà? Si sentiva l'acciottolio dei piatti sotto le mani del tedesco e il
respiro pesante dei partigiani. Poi Polo disse, lasciando cascar le braccia: -
Tutta questa discussione per Fritz. E lui è di là che ci lava i piatti. Di', Ivan,
non ti sembra già abbastanza che un uomo di Hitler, un soldato dell'esercito tedesco
che ha domato Francia e Polonia e mezzo mondo sia di là a lavarci i piatti a noi
poveri scalcinati partigiani italiani? - Mah, - fece Ivan, stanchissimo,
- io non lo so, non so più niente. Io ho parlato per questione di principio.
Gridò Carnera: - Abbastanza? È abbastanza le balle! Sandor alzò appena un
sopracciglio, ma Polo domandò: - E tu, Mosquito, cosa vorresti fargli di più?
- Io l'ammazzerei! Io lo ammazzo! Polo ci fece sopra una sghignazzata,
così artificiale e concisa che Carnera se ne offese il doppio che se fosse stata
sincera e prolungata. Gridò: - Voi non mi prendete sul serio perché io non ho
la vostra età, ma io come partigiano valgo tanto quanto voi! Con la differenza
che se voi aveste solo la mia età non avreste avuto il coraggio d'entrare nei
partigiani, come ho fatto io a quattordici anni. Polo disse, con una voce
ghiacciata: - Te lo dico io quel che sei venuto a far tu nei partigiani. Ci sei
venuto per farti mantenere, perché ci hai tutto da guadagnare, per mangiare tutti
i giorni la carne che a casa tua vedevi soltanto la domenica... Ben più lunga
era la lista, ma Polo la troncò perché la fisionomia del piccolo impressionava.
Piangeva di furore e quell'acqua l'accecava, sicché il dito puntato non centrava
affatto Polo, ma era a Polo che disse: - A te ti farò vedere io, ti farò vedere!
- Sì, ma sbrigati, perché altrimenti la guerra finisce e tu non ci avrai
fatto veder altro che mangiar carne. - Ti farò vedere io, e presto. E intanto
ti dico che sei un vergognoso. Vergognoso tu e vergognosi tutti, meno Ivan -.
E scavalcò la panca perché Polo e qualche altro offeso stavano per abbrivarlo,
e dalla porta gridò tutto d'un fiato: - Qui dentro ad avere il cuore di partigiano
ci siamo solo io e Ivan. Voi siete tutti dei vergognosi. Perché se io piglio un
tedesco, io l'ammazzo. Perché io sono un partigiano e Ivan ha ragione a dire che
è un tradimento, - e scappò. Quella sera stessa una donna del paese entrò
al comando a regalare un cambio di biancheria per Fritz. Ma, ancora di gennaio,
ci fu un giorno che il tedesco dovette tremare per la sua vita, che era, a fil
di logica, perduta. Tarzan mancava da tre giorni, forse era sceso a Ceva a studiare
i posti di blocco o forse batteva le colline semplicemente per distrazione, era
quello che diceva, che a non muoversi il partigiano è il più noioso dei mestieri
e che in fondo, a muoversi o a starsene fermi, il pericolo era pressoché identico.
Tre giorni erano molti, ma Tarzan era il tipo che rientrava sempre alla base.
Invece arrivò, mandato dai frati del convento appena fuori Ceva, un uomo
ad avvisare che la repubblica aveva preso e fucilato un partigiano proprio all'angolo
del convento, e là l'aveva lasciato. Dalla descrizione era Tarzan. - E portatevi
qualcosa da far leva, ché per il gelo s'è tutto attaccato alla ghiaia. Fritz
stava alla grata e vide il gruppo dei partigiani spartirsi. Vide Polo andare al
portico e tirarne fuori il camion e manovrarlo fino al limite della piazza, pronto
per la discesa. E Ivan salire sul cassone con cinque altri, piazzare un mitragliatore
sulla cabina e tutti aspettare Sandor. Il capo era entrato in casa del medico
condotto. Ne usciva adesso, portava sul braccio un fagottone bianco, e dietro
gli usci la moglie del dottore, che pareva fare a Sandor delle raccomandazioni.
Poi Sandor spari nella cabina e il camion rotolò in folle giú per la discesa.
Dopo tre ore tornavano, si senti il camion penare in salita come sempre,
il suo motore urlare come Sisifo. Fritz, trovato tutto spalancato, era uscito
in piazza. Già ci stava adunata tutta la popolazione, dopo aver chiuso i bambini
in casa e sbarrato tutto, che non potessero vedere assolutamente niente di quanto
andava a succedere in piazza. Tutti stavano a testa china, come violentati dal
fragore del camion ormai vicinissimo, qualcuno si premeva le due mani sul petto,
altri si tamponavano la bocca. Il camion frenò nel bel mezzo della piazza,
tutto fu visto e compreso quando Polo saltato giú dalla cabina andò ad abbattere
la sponda del cassone. Lo calarono e lo deposero sul primo scalino della chiesa.
La moglie del medico, con le mani giunte sotto il mento, fissava la muffa rossa
fiorita sul suo bel lenzuolo matrimoniale. S'erano dimenticati di spegnere il
motore, singhiozzava come un orco. Polo corse a spegnerlo, e così si senti distintamente
il cigolio delle imposte tentate dai bambini confinati nelle case. Sandor
attraversò la piazza, arrivò allo scalino e rimase li come una statua. Elia, partigiano
meridionale, parti dal fondo e avanzò adagio rasente alla popolazione; nelle mani
a coppa teneva quattro o cinque ciottoli innaffiati di sangue e ripeteva con voce
da chierico: - Queste pietre sono sporche del suo sangue. Sono le pietre del mucchio
di ghiaia sul quale l'hanno fucilato -. La gente ritraeva la testa ma aguzzava
gli occhi, e le donne si segnavano, perché pareva proprio una cosa di chiesa,
un passaggio di sante reliquie. Ora Sandor s'era riscosso, si chinò, prese
un lembo del lenzuolo e lentissimamente scopri Tarzan fino alla cintola. Poi si
raddrizzò e disse: - L'hanno ammazzato come voi ammazzate i vostri conigli. Venite
tutti a vedere come l'hanno ammazzato. Nessuno si mosse, soltanto il medico,
ma non poteva passare, l'orrore aveva paralizzato la gente e toltole ogni senso
fuorché la vista, e così si opponeva al medico compatta ed insensibile come un
muro. Dovette aggirarla, ma gli ci vollero più di cinque minuti per arrivare allo
scalino. Si chinò, poi posò un ginocchio a terra, era fortemente miope e perciò
il suo naso sfiorava il petto di Tarzan, la gente da lontano accompagnava con
gli occhi il suo dito nella minuziosa ricerca di tutti i buchi aperti dalla raffica.
Una donna urlò: - Tiratelo su da quelle pietre, portatelo in chiesa. Le pietre
gli fanno male, ha persino la testa sulle pietre. Vado a prendergli un cuscino.
Dall'altra parte s'alzò un urlo selvaggio e come molteplice. La gente si
senti mancare, un urlo così poteva farlo solo la repubblica, venuta su a tradimento
dietro il camion a sorprenderli mentre facevano la pietà a Tarzan e fra un attimo
avrebbe spazzato la piazza con la mitraglia. Era soltanto Polo. I capelli serpentini
gli ingraticciavano la faccia, lucente per pianto o sudor freddo, e degli occhi
gli si vedeva solo il bianco. S'era chinato sopra un catino immaginario, si rimboccava
le maniche e gridava: - Hanno ammazzato Tarzan che era nostro fratello! Voglio
lavarmi nel loro sangue! - e immergeva le mani in quel catino e se le lavava con
cura e naturalezza. Toccandosi i bicipiti urlò: - Voglio lavarmi fin qui!
Fritz era nell'ultima fila, ma per la sua statura dominava tutta la piazza. D'improvviso
quel suo svettare lo spaventò, così era impossibile non esser visto e additato.
Si curvò, già le ginocchia gli tremavano come ai cavalli e le natiche gli pulsavano
come un cuore. Ora che la gente era ai sentimenti estremi lui non capiva più una
parola d'italiano, il silenzio e il clamore l'atterrivano egualmente. Nell'uno
e nell'altro, nelle facce, nell'aria coglieva la necessità della vendetta, del
sacrificio, e per placare lo spirito di Tarzan non c'era che lui sottomano.
Tutti erano come sotto ipnosi. Macchinalmente rinculò d'un passo, d'un altro e
un altro ancora, finché urtò col tallone contro il parapetto della scuola. Conosceva
la natura sottostante: una scarpata da potersi far rotoloni in un niente, quindi
una raggera di rittani, uno dei quali talmente incassato da sembrare un sotterraneo.
Ma poi? Avverti una presenza al suo fianco. Abbassando lo sguardo vide Carnera,
tutto eretto come se volesse piantargli gli occhi al livello, ed erano occhi impietrati,
nemmeno il gran piangere fatto per Tarzan li aveva illanguiditi un po'. Fritz
annaspò e disse: - Tu cercare me? Sandor ti manda? - Non reggeva lo sguardo di
Carnera e d'altra parte non si fidava a distogliere gli occhi per non perdere
il minimo movimento del piccolo, se metteva mano a quella sua pistola ficcata
nei calzoni. Si sentiva tutto gelato, come se fosse morto già da parecchie ore.
Poi batté le ciglia e, sperando che gli occhi gli si inumidissero almeno un po',
disse: - Povero Tarzan. Buono era Tarzan. Quando preso me, agito da vero soldato.
Ma Carnera taceva, e quella pistola non saltava fuori, e i secondi passavano.
E già si diramava calda nel cervello di Fritz, a scongelarlo, la certezza che
non lui sarebbe stato immolato allo spirito di Tarzan, che la cosa stava tutta
tra italiani. Carnera infatti finì col chinar gli occhi e si limitò a riportarlo
dentro la scuola, dove il cuciniere, senza una parola, gli diede da pelar le castagne.
Fu comunque per Fritz la peggior sera di tutta la sua prigionia. Non cenò,
rimase sempre in un angolo dello stanzone della mensa, rabbrividendo alle fiammelle
degli zolfini con cui i partigiani si accendevano le sigarette: dovevano non vederlo,
non ricordarsi di lui, non indicarselo l'un l'altro. Non alzò mai gli occhi, non
vedeva che le gambe dei partigiani che entravano e uscivano dandosi il cambio
per vegliare Tarzan in chiesa. E benedisse il cuciniere quando dallo stanzino
lo chiamò a rigovernare. Nessuno gli si arrestò davanti, nessuno lo fissò particolarmente,
non gli venne rivolta parola. Finalmente, verso le dieci, Sandor passando gli
fece: - Tu non andare a dormire? Nulla era dunque cambiato, semplicemente
non c'era più Tarzan ad essere come tutti gli altri buono con lui. Ci fu
poi un altro avvenimento, borghese questo e felice, il matrimonio dell'unica figlia
del signor Ilario, padrone della censa e gran rifornitore dei partigiani. Sposava
un uomo di Murazzano, che sarebbe entrato in famiglia. Malgrado il contrario parere
dei loro vecchi, non vollero aspettare la fine della guerra. I vecchi avevano
detto: - È troppo pericoloso sposarsi in un epoca come questa in cui gli uomini
si danno la caccia e s'ammazzano l'un l'altro. Il tuo uomo, Elsa, è di quelli
che se ne stanno a casa a farsi gli affari loro e di politica non s'intrigano,
ma vedi bene che son proprio gli estranei, gli innocenti, che il più delle volte
ci lasciano la pelle. E tu, Dario, abbi cognizione per tutt'e due. Sai bene che
un giovane come te non ha la sicurezza di andare a letto la sera e svegliarsi
vivo la mattina dopo. Se ti dovesse capitare una disgrazia, cerca di farla contare
per te solo e non per due. Ma Elsa rispondeva: - E appunto perché viviamo
in una epoca come questa che ci vogliamo sposare a tutti i costi. Se capita una
disgrazia a Dario, io che me ne faccio poi della vita? Invece, se gli capita da
sposati, almeno sarò stata sua moglie e qualcosa dalla vita avrò avuto. I vecchi
allargarono le braccia e le nozze si fecero, le sole che in quel paese si celebrarono
nei due anni della guerra partigiana. Al ricevimento in casa del signor Ilario
andarono tutti i partigiani, ma alla spicciolata e solo per il tempo di far gli
auguri, mordere in una fetta di torta e bere un bicchiere di moscato, ripetere
gli auguri e via, perché tutti insieme avrebbero intasato la sala. Solo Sandor
ci sarebbe rimasto dal principio alla fine. Fritz era nella lista, per espresso
invito del signor Ilario e consenso di Sandor. Quando, al suo turno, apparve sulla
soglia, lo accolse un applauso inaudito, che egli ricevette impalato e come gonfio,
mentre la gente non finiva di battergli le mani, insensibile agli spifferi gelati.
Poi Fritz s'avanzò, a testa china per non darla nei molti lumi che pendevano dal
soffitto, si presentò agli sposi e batté i tacchi. Allora le donne si allungarono
sulla tavola a brandire bottiglie e tutte insieme gridavano: - Da bere a Fritz!
Non date di quello a Fritz! È il vino dolce che piace a Fritz ! Il vino dolce
a Fritz ! - Basta, il tedesco ebbe un trattamento speciale e restò con Sandor
fino alla fine. Un fratello dello sposo aveva portato la fisarmonica, a un
certo punto la spallò e attaccò una mazurca. Finita quella prima aria, Fritz col
bicchiere in mano s'avvicinò al musicante e gli domandò, mentre tutti pendevano
da lui: - Sapere valzer delle bimbe brune? Il ragazzotto non rispose né si
né no, reclinò il capo sulla tastiera, finché il signor Ilario gli disse ruvidamente:
- Lo sai o non lo sai quel che t'ha detto Fritz ? Non sarai mica così stupido
da aver soggezione? Non vedi che è dei nostri? Al ragazzo venne da piangere,
dopo tutto non era un musicante pagato, era venuto con lo strumento solo per festeggiare
a modo suo il fratello sposo. Ma poi, per non passar da selvaggio, fece un accordo
e disse con gli occhi bassi che la sapeva. Allora Fritz si raddrizzò, misurando
con le dita lo spazio che separava la sua testa dal soffitto. - Se tu sapere,
anche io sapere. Tu suonare e io cantare -. E la cantò tutta in italiano, scortecciando
le parole, mentre le donne si torcevano le mani in grembo e vibravano dalla testa
ai piedi, con gli occhi lustri puntati su Fritz. Finito, per i battimani
tintinnarono i vetri e ballarono i lumi, e le donne incrociarono le loro grida:
- Ma bravo, Fritz! L'ha cantata tutta in italiano, tutta! E che bella voce, diversa
dalle nostre. Chi te l'ha insegnata, Fritz ? Deve avergliela insegnata una donna
delle nostre, un'italiana di chissà dove. Non ne sai altre, Fritz? Fritz
s'inchinò alla sposa e disse: - No, io non sapere altre canze, ma sapere tante
altre cose buone per festa... - Avanti, Fritz! Forza, Fritz! - gridarono
le donne, come percorse dalla corrente elettrica. E Fritz sciorinò tutto un repertorio
di giochi scherzi e trucchi, con le carte, con l'orologio del signor Ilario, coi
fazzoletti delle donne e i cappelli degli uomini, perfino con roba fatta venire
dalla cucina. Gli invitati inghiottivano saliva, si davano gomitate, qualche donna
rovesciava la pupilla come se fosse per godere, gli stessi uomini fissavano caldamente
Fritz, che rimaneva composto come un professionista. E alla fine un invitato disse:
- Certo che nella meccanica i tedeschi non li batte nessuno. Negli stomaci
le torte si rapprendevano e pesavano come cemento, dentro il vino correva a gara
col sangue, la stufa era incandescente. Il tedesco aveva eclissato gli stessi
sposi, e le donne non la smettevano. - Ma com'è simpatico! Non è stato straordinario
con quei giochi? Tu credevi che ci fossero dei tedeschi cosi? Non vi sembra che
sia sempre stato dei nostri, che l'abbiamo sempre avuto in paese? - E tornavano
a fissarlo come per rinforzarsi dentro quelle impressioni. Gli guardavano soprattutto
il collo, che nessuna di loro avrebbe potuto cingere con le due mani, e la nuca,
cosi grassa e rasa e brillante come la gola del maiale maturo. Poi il signor
Ilario s'alzò e trascinandosi dietro la sedia andò a portarsi dirimpetto a Fritz.
Che mise via il bicchiere e si protese verso il padrone di casa. Il signor
Ilario sbatté le labbra, posò una mano sulla spalla a Fritz, poi la ritirò mandandosela
con forza sulla coscia e finalmente disse: - Sentire un po' me, Fritz. Parliamoci
da soldato a soldato. Fritz, da seduto, uni i tacchi e accennò di si con la testa,
con gravità senza pari. - Perché anch'io essere stato soldato, ai tempi di
mia gioventú, avere fatto tutta l'altra guerra. Essere alpino, alpini, quei soldati
italiani con una piuma sul cappello. Forse tu, Fritz, conoscerli, austriaci conoscerli
di sicuro. Fritz assenti su ogni punto, mentre la gente faceva cerchio e
spalliera, e partiva qualche schiocco di dita a quelli che per accostarsi strisciavano
sul pavimento le gambe delle sedie. Poi il signor Ilario, chi l'avrebbe detto?
Si mise a parlare in mezzo tedesco, e Fritz s'illuminò tutto in faccia, ma per
un attimo solo, poi ritornò compunto, perché in quel mezzo tedesco il signor Ilario
gli raccontava cose tristi. - Ich, - esordi il vecchio battendosi il petto,
- ich kriegsgefangen in Osterreich. - Sie? - Mangiare sempre kartoffel.
Gran kartoffel. - Kartoffel, patate, ja. Il signor Ilario si palpò la
giacca. - Com'è la parola ? Ah, papier. Papier, sempre vestiti di papier, im winter
und arbeit in bahnen -. Poi si voltò a tradurre alla gente: - Gli sto dicendo
che quando ci hanno portato prigionieri in Austria, là ci davano da mangiare patate
e sempre solo patate, e noi andavamo ancora a cercar le bucce nella fossa dell'immondizie.
E ci davano dei vestiti di carta, così noi giravamo vestiti di carta, d'inverno
e a lavorare sulle strade -. Tornando a Fritz: -Tanta fame in Austria, e tanto
freddo. Nicht brot, nicht feuer. Ma la gente non era cattiva, era buona come in
tutte le parti del mondo. Noi prigionieri lo vedevamo da noi che la gente non
avere pane nemmeno per lei e pochissima legna da bruciare. Datemi da bere. Dunque,
Fritz, tu vedere che anch'io stato soldato. Tu devi parlarmi da soldato a soldato
-. E qui gli occhi del padrone di casa annegarono nelle lacrime. Fritz turbatissimo
alzò gli occhi in faccia alla gente, ma questa era tutta fissa a lui e si accorse
del cambiamento d'umore dell'altro quando ripigliò a parlare e la sua voce era
accidentata per il pianto. Diceva: - Fritz, quando finire questa guerra, quando?
Perché se andare ancora lunga, noi tutti moriamo di crepacuore. Per noi, noi siamo
vecchi e frusti, e quando la morte viene, viene sempre all'ora giusta, e magari
anche un po' tardi. Ma mia figlia e quelli giovani come lei? Mia figlia e suo
uomo, Fritz! Io ho resistito alla prigionia in Austria, poi ho fatto dieci anni
il cantiniere in Francia, e adesso sono vent'anni che lavoro nella censa di questo
paese. Tutta la vita ho lavorato per procurar del bene a mia figlia, a lei e all'uomo
che si sarebbe poi scelto. Perché se lo godano e si ricordino sempre di me. E
invece, se la guerra va ancora lunga, mia figlia può perdere il suo uomo, e allora
tutto il bene che io le ho fatto non le servirebbe più a niente, non la consolerebbe
più -. Le ultime parole le disse mulinando le braccia per tener discosto sua figlia
che gli si era chinata addosso per interromperlo e gli diceva: - Fatti forza,
papà. Non parlare così, non far così, asciugati gli occhi. Un'invitata vecchia
con tanta pratica di uomini disse: - È vecchio. Ha bevuto un po' fuori dell'ordinario
e il vino l'ha portato al sentimento. Sandor s'era fatto accanto al signor
Ilario e gli disse: - La faremo finire noi, e più presto di quel che si creda.
Ma il vecchio scuoteva la testa. - Voi, poveri ragazzi, lontani dalle vostre
case, fate tutto quello che potete, ma non potete far altro che star quassú a
difendervi, con poco o niente, e a patire. Voi lo sapete solo quanto me quando
la guerra finisce. Fritz invece lo sa, lui è dell'esercito tedesco, e tutto dipende
dall'esercito tedesco. Fritz fissava attonito quella vecchia faccia stemperata
nelle lacrime, quella bocca tremante sotto i baffoni imperlati di vino. Gli uomini
avevano messo via i bicchieri e s'erano presa la testa fra le mani. Poi il tedesco
si raccolse, cominciò a percuotersi la coscia, con violenza, più volte, e a roteare
degli occhi impressionanti. Qualcuno temette che quella debolezza, quel sentimento
del padrone di casa avesse avuto l'effetto di offenderlo, d'infuriarlo, e adesso
chissà cosa andava a capitare, così allo stretto, con quel bestione che per giunta
aveva strabevuto. Sicché si sbirciò Sandor, se era armato e gli stava attento,
pronto a intervenire. Il tedesco s'era alzato, sbuffò un paio di volte come
se già volesse rimettersi dal faticoso discorso che ancora non aveva fatto, poi
disse: - Ora io dire tutto quello che io sapere. E io sapere, anche se sono da
lungo tempo separato dai miei camerati, da mio esercito tedesco. Germania non
più forte da vincere guerra. Ma ancora forte, Germania, da farla andare lunga,
come dice il padrone della casa. Voi potere domandare: perché ancora combattere,
se guerra è perduta? Ma voi essere italiani, e solo tedeschi adatti a capire i
tedeschi, Tutti gli altri non adatti, e voi italiani meno di tutti, scusate. Soldati
tedeschi essere tutti eroi, essere molto pochi quelli come Fritz che stare a bere
vino dolce e vicino a buono fuoco. Ora molti soldati tedeschi morire, molti molti,
ma morire anche molti suoi nemici, perché soldato tedesco non morire mai solo,
portare con sé almeno un nemico. Signore Ilario, voi volete sapere quando finisce
guerra? Allora calcolare il tempo che tutti soldati tedeschi morire, tutti, da
oceano Atlantico a Russia. Solo una parola potere fermarli da combattere e morire.
Parola del Führer, ma Führer non dire mai questa parola, Führer prima morire anche
lui. Se guerra finisce, tutto il mondo è felice, e solo popolo tedesco triste
e disperato. Perché non essere tutti tristi e disperati? Cosi parlò Fritz,
con la fronte avvampante per il riflesso della stufa. Il discorso aveva affrettato
l'ora di togliere il disturbo. Mentre la sposa accompagnava suo padre a letto,
lo sposo spalancò la porta al buio e al gelo della notte e disse: - Siamo noi
che dobbiamo ringraziare voi. E perdonate la debolezza di mio suocero. S'incamminarono
tutt'insieme, col programma di sciogliersi in piazza come un corteo, e facevano
catena perché nessuno scivolasse malamente sulla strada ghiacciata. Tutti zitti,
qualcuno batteva i denti. Li sorpassarono Sandor e Fritz, che tagliavano per la
scuola: marciavano disinvolti sul ghiaccione e il tedesco graduava il passo su
quello del comandante. Una donna disse: - Però Fritz è proprio come uno dei nostri
-. Non le risposero né si né no, uno le fece una smorfia al buio e suo marito
si curvò a sibilarle all'orecchio: - La pianti, stupida e ubriaca? Poi nevicò,
tanta ne venne che sotterrò la scure di Fritz e i due terzi dell'alta toppa.
La mattina Fritz parve impazzire alla vista della neve. Col pretesto di dissotterrar
la scure, buttò all'aria con le mani nude metri quadri di neve, raccogliendone
i fiocchi ricadenti nella bocca aperta o nello slargo della camicia, e con quella
che v'era entrata si massaggiava il petto. E nel mentre parlava e cantava e gesticolava
come uno zingaro, con certe scrollate elettriche. Dalle finestre dirimpetto occhieggiava
la gente, e sorrideva di quella felicità e rabbrividiva per quel massaggio di
neve. A un bel momento Carnera urlò: - Parla almeno italiano, o tedescaccio, se
la neve ti fa questo effetto! - insospettito da quelle raffiche di parole tutte
tedesche. Poi, tanto più torvo in quanto vedeva Fritz divertirsi genuinamente
e l'inutilità, dal punto di vista lavoro, di quella sua sosta all'aperto, lo rispedí
dentro la scuola. Ma di lí a un momento Fritz era già alla finestra, con la fronte
premuta contro l'inferriata che quando si fosse poi ritirato ne avrebbe portato
i segni. E le donne che tra una faccenda e l'altra lo sbirciavano dai vetri lo
videro stare a lungo in quella posizione, a sorridere fisso alla neve. Ma poi
gli videro le mascelle afflosciarsi e gli occhi stringersi come per voglia di
lacrimare, e stette a guardar tristemente la neve molto più a lungo di quanto
fosse stato a sorriderle. Lo si rivide libero in piazza nel pomeriggio. I
partigiani battagliavano a palle di neve, divisi in due squadre; avevano posato
all'asciutto le armi da fuoco e con mani bollenti raccoglievano, comprimevano
e scagliavano, con urla di provocazione e di trionfo. Fritz arrivò dondolando
fino alla linea di mezzo e lì si fermò, fuori della lizza, a seguire con gli occhi
l'incrociarsi delle palle. Sorrideva, con le mani ciondoloni che non conoscevano
le tasche. Sandor lo vide con la coda dell'occhio, gli gridò senza guardarlo,
intentissimo a mirare e a schivare: - Tirare anche tu, Fritz! Mettiti dalla parte
che vuoi. Ma Fritz scosse la testa, sempre sorridendo, e allora Sandor sventolò
una mano per ottenere un minuto di tregua per sé, poi si rivolse a Fritz: - Perché
non vuoi? Non essere capace? - Capace, sì. Ma non potere, non potere tirare a
voi. Il tempo passava lentissimo, come facesse la stessa fatica che gli uomini
a spostarsi sulla neve fonda. Un po' più filato doveva trascorrere a Ceva, dove
i fascisti e i tedeschi avevano caffè, cinema e portici. I partigiani dormivano
venti ore su ventiquattro, cambiando stalla ogni notte, litigando per il Posto
nella greppia o nel cassone del fieno, riempiendo i dormiveglia di fantasie libidinose
come tabacco a volontà, bere un'aranciata, che una donna per tutta una notte gli
pitturasse con lacca azzurra le piante dei piedi. Si sollevavano ogni tanto sui
gomiti e attraverso i finestrini delle stalle guardavano fuggevolmente la valle
Bormida, tutta parata di bianco come un duomo per il funerale d'una vergine, poi
ripiombavano sulla paglia. Dormivano venti ore su ventiquattro, senza nemmeno
una sentinella; Sandor aveva proibito ai paesani di aprir le strade con lo spartineve,
tanto avevano in casa di tutto, pane e carne e vino. Finché, un giorno di
primo febbraio, Pantera, seduto alla finestra per aver luce per una certa sua
operazione (con un coltello da cucina si scrostava dai piedi la carne morta stratificatavi
sotto dal tanto camminare), diede un allarme. Un uomo arrancava sull'ultimo
costone, squarciando la neve al polpaccio, la nebbietta del fiato fissa tra le
labbra come una pipa, e da più presso si notò che indossava una divisa tutta d'un
colore, una vera divisa insomma. Della repubblica non era, tedesca non pareva,
ad ogni buon conto lo puntarono con tutte le armi. L'uomo si fermò ai piedi
della scarpata, ansava a testa china. Alzati gli occhi e viste le nere canne spianate,
rise di collerica compassione e gridò: - Che fate, disgraziati? Sono del comando.
Vengo da voi. Prendo per di qua? Sandor si scostò dal parapetto e disse:
- Ha una faccia da Gielle. - Se avesse la barba, - precisò Polo e andarono con
tutti gli altri ad aspettarlo in piazza. Arrivò, scuotendo i calzoni per
scrostarli dalla neve. Era anche più giovane di Sandor con un'aria metà da intellettuale
e metà da ufficiale effettivo, il che finiva per comporgli un'unica aria di estrema
durezza e antipatia. Indossava, completa, una divisa inglese, la prima che venisse
sotto gli occhi degli uomini di Sandor, quella divisa inglese tanto più razionale
di quella tedesca, tanto più maschia dell'americana. Come sola arma portava la
pistola, ma una pistola come un cannoncino, che spuntava con la sua poderosa culatta
da una fondina di tela cruda sulla quale stava scritto in inchiostro blu e con
la calligrafia consentita dalla ruvidità della trama: LADY REB. Li confrontò
per qualche minuto, mentre il respiro gli si normalizzava. Davanti a lui tutti,
Sandor il primo, provarono una vaga umiliazione, quasi la vergogna d'esser sempre
rimasti a presidiare quel paese ultimo creato da Dio quando a stare un po' più
vicino al comando c'era da acquisire tutte quelle cose, quella divisa, quell'arma
e, soprattutto, quell'aria. Mai avevano pensato di doversi vergognare, come ora
facevano, davanti a un altro partigiano. Dalla schifiltosaggine di quell'ufficiale
s'intuiva che il loro distaccamento era dal comando tenuto in pochissimo conto,
sicché ai partigiani parve in pericolo il riconoscimento dei tanti mesi di servizio,
come se quell'ufficiale avesse il diritto e il potere di negar la convalida.
L'ufficiale osservò criticamente Gibbs, che indossava la maglia gialloverde d'una
squadra di calcio della pianura, poi finalmente apri la bocca. Disse: - Sono il
tenente Robin. Chi di voi è Sandor? Tu sei il capo qui. Devi avere una ventina
di uomini. Sandor confermò con una cert'aria subordinata e l'altro: - Senza
perdere tempo, armatevi e scendiamo insieme a Monesiglio. Sono arrivati degli
ufficiali inglesi, scesi col paracadute, col programma di eseguirci dei lanci.
Questa è già roba loro, - e si palpò una manica, - e questa pure, - schiaffeggiando
la fondina che rivestiva la Colt 45. - Vogliono vederci tutti quanti siamo, fare
i loro conti e mandarci il necessario. I partigiani volarono alle armi e
ai pellicciotti, folli di voglia di possedere una divisa e un'arma come quelle,
folli di paura d'arrivar tardi. L'ufficiale s'era accesa una sigaretta mai
vista col bocchino di sughero e aspettava fumando. Gli capitò sott'occhio Carnera,
che si serrava convulsamente il pellicciotto con una banda di cuoio. Strinse le
labbra fino a risucchiarsele in bocca e chiamò Sandor. - Chi è quel piccolo ?
Vi mancava la mascotte ? Queste cose lasciamole fare ai Muti. - Non è una
mascotte. È uno dei nostri, con noi da un pezzo. Ha sulle spalle due combattimenti
e sei rastrellamenti. - Fallo restar su. Se gli inglesi vedono inquadrato
uno scugnizzo simile, c'è pericolo che si formino il concetto che noi partigiani
non siamo una cosa seria. Sandor andò a convincere Carnera. Che s'offese,
s'indignò e disse: - Ma io vado a chiedergli spiegazione -. Sandor lo frenò col
braccio teso. - Lasciami passare, Sandor. Ma non lo sa che io son buono di spaccargli
la testa? Lo sa che io ho sulle spalle tre combattimenti e sette rastrellamenti,
che io mangio un cane se lui ne ha altrettanti? Domandagli un po' se vuol farsela
con me alla pistola. Lasciami passare, Sandor, vado soltanto a chiedergli spiegazione.
Ma Sandor non lo lasciò, gli ordinò di restar su a sorvegliare Fritz, soltanto
ora il tedesco gli riveniva in mente. I partigiani si allineavano, pestando
i piedi, e Ivan disse: - Addio, siamo di nuovo nel Regio. Sandor domandò all'ufficiale:
- Come sono? - Chi? I tuoi uomini? - No, questi ufficiali inglesi.
L'altro nicchiò, come se Sandor non fosse degno dell'informazione, poi disse in
fretta: - Sono dei filoni, sono. Allora, siamo al completo? - Manca il partigiano
Elia. - Motivo? - Malato con la scabbia. L'ufficiale strinse le
labbra alla sua maniera. In quel momento Fritz sbucò con due fascine sottobraccio.
Vide il nuovo, calò le fascine a terra, uni i tacchi sulla neve senza rumore e
disse a se stesso: "Englisch! ? Englische streituniform!" L'ufficiale scattò
con Sandor. - Dio santo, avete un prigioniero tedesco e lo trattenete senza avvertire
il comando. Ma scherziamo? - Noi l'abbiamo preso e ce lo siamo tenuto. Eventualmente
per un cambio. Intanto ci fa i servizi -. Ma il tono di Sandor non era deciso
come lui avrebbe voluto. - Perché l'avete preso voi mica è roba vostra! Dio
santo, un prigioniero tedesco è importante, è roba da comando, e voi ve lo tenete
quassú, così -. Poi, più sommesso ma, più concentrato: - Quasi quasi l'interrogherei,
ma ci vuole troppo tempo per cavargli qualcosa che meriti e noi dobbiamo andare.
Partiamo. Arrivati al comando, ne parlo subito al maggiore e vedrai che lui ti
dirà di portarglielo giù e ti farà un cicchetto perché non hai provveduto a suo
tempo. Guardò vivamente a Fritz, riobbligandolo a riunire i tacchi. - Non
c'è pericolo che evada ora che il grosso viene via con me? Non avete un locale
dove rinchiuderlo ? - Non c'è nessun pericolo, - rispose Sandor. - Quel piccolo
di prima basta lui a tenerlo d'occhio. Ormai lo conosciamo bene, è una pasta frolla,
non sembra nemmeno un soldato tedesco. - Forse austriaco? - indagò sottilmente
l'ufficiale. - No, no, tedesco. Ma non somiglia, ecco. Segnale di partenza.
Carnera andò al parapetto, li avrebbe seguiti con gli occhi fin dove possibile.
E come la fila s'allungò sull'intatto pendio, sorrise. Il primo era quell'odioso
del comando, ma sarebbe stato dimenticato prima di sera. Gli altri guardava Carnera,
a loro sorrideva: Sandor, Ivan, Gibbs, Pantera, anche Polo, e tutti gli altri;
scendevano un po' legnosi, un po' burattini sulla neve diseguagliata dai colpi
di vento, i più con le mani in tasca, tutti con le armi pendule a tracolla come
chitarre. Erano i suoi compagni quelli i cui nomi avrebbe dovuto citare ogniqualvolta
avesse raccontato di sé, fra dieci venti cinquant'anni, gli unici partigiani che
avrebbe riconosciuto tali, perché erano stati partigiani con lui. Mentre
Domenico che chiudeva la fila spariva con la testa sotto una gobba del pendio,
Carnera sentì dietro di sé crocchiare la neve. Era Fritz che tornava dall'aver
scaricato le fascine in cucina. Domandò ansioso: - Essere ufficiale inglese?
- Quello là? Quello è inglese come me. Ha soltanto la divisa. Ora ce la danno
a tutti. Tu li conosci gli inglesi? - Popolo molto serio, popolo molto capace
fare affari. - Ah si? Indugiarono un po' a considerare le orme che i
partiti avevano lasciato e poi mossero gli occhi intorno e in alto. C'era da restare
accecati a voler fissare là dove il cielo d'un azzurro di maggio si saldava alla
cresta delle colline, di tutto nude fuorché di neve cristallizzata. Una irresistibile
attrazione veniva, col barbaglio, da quella linea: sembrava essere la frontiera
del mondo, da lassù potersi fare il tuffo senza fine. Il nervoso prese Carnera.
A se stesso, ma gridando, disse: - Cosa stiamo a fare? Tutt'oggi soli! Stesse
secco quel beccamorto del comando. Stessero secchi anche gli inglesi. Cosa facciamo?
Se andiamo a casa, c'è il cuciniere che prima o poi ci mette a lavorare. E poi
c'è Elia con la scabbia che si lamenta e si gratta a sangue. Andiamo a fare un
giro intorno al paese. Spazziren, eh? Fritz raggiò in faccia, senza esitare additò
il bosco. - Andiamo a bosco -. L'attirava fin dai primi tempi e aveva sempre sperato
di visitarlo una volta o l'altra. Coronava un bricco a cupola ed ora appariva
come un magazzino di forche. Carnera s'insospettí. - Perché proprio a bosco?
- Io amo boschi. - È lontano. - No, niente lontano. Carnera
gonfiò la pancia per sentirci contro la pistola ficcata nei calzoni; la senti
e disse: - Allora muoviamoci. Ma tu cammina sempre avanti e non fare scherzi,
capito? Fritz fece la faccia offesa: - No, no, io... - Intesi. Tu camminare
avanti e fare buchi per me dove io mettere i miei piedi. S'incamminarono,
Fritz imprimeva pesantemente i piedi sulla neve e Carnera saltellava dall'una
all'altra di quelle impronte elefantesche. Ma dopo un po' di quella ginnastica
gridò: - Fa' i passi più corti, mi stanco a saltare così in lungo. Erano
nella terra di nessuno tra il paese e il bosco, ai piedi del bricco a cupola.
Gli occhi di Carnera si puntarono sulla schiena del tedesco: dopo appena un quarto
d'ora di cammino il sudore già gli scuriva la camicia sulle scapole e al confine
coi calzoni; anche da questo Carnera giudicò la forza del tedesco, quella era
la sudorazione di un gigante, non di un uomo. Sentì freddo nella schiena,
ma non era che gli salisse dai piedi assediati dalla neve, e si mise a pensare
e pensando dimenticò le orme di Fritz e si trovò ad avanzare sulla neve compatta.
Vedeva che Fritz lo stava distanziando, ma non lo richiamò, era troppo concentrato
a pensare. - E se questo tedesco si convince che io sono piccolo, un ragazzino
qualunque? Arrivati a un certo punto, tra le piante, si volterà di scatto e mi
verrà addosso con le mani avanti. È vero che io sono armato. Ma la mia pistola
sparerà? Non l'ho mai provata. Ho solo quattro colpi e di quelli che non si trovano
e li ho sempre conservati per quando ne avessi bisogno con la repubblica. Chissà
da quanto tempo questa pistola non spara? E se io premessi il grilletto e non
ne uscisse niente, facesse solo pluff come una bottiglia che si stappa? Allora
lui riderebbe, mi verrebbe addosso e mi fiacca sotto i piedi. - Friiiitz!
Un urlo così non gli era mai uscito, Fritz ruotò su se stesso. Disse
da lassù: - Cosa avere? Perché non venire? Carnera avanzò ricercando le impronte
di Fritz e salì rapidamente, ma a dieci metri da lui s'arrestò. A guardarlo
da sotto in su, gli apparì non un uomo ma una rocca sul punto di rovinare
su di lui. - Fritz, torniamo indietro. Il tedesco fece una tal faccia
contrariata che a ciascun angolo della bocca venne a pendergli un chilo di carne.
- Non andare più a bosco? - No, torniamo giù. Non sto bene, ho mal di
testa. Questa neve con questo sole m'ha dato alla testa -. Infatti il riverbero
gli sigillava gli occhi, e si che aveva bisogno di tenerli bene aperti per controllare
ogni mossa del tedesco. Ma Fritz non scendeva, pur nel barbaglio Carnera
scopri il sorriso di disprezzo che gli arricciò i labbroni. Disse Fritz: - Io
non buono soldato tedesco, ma anche tu non buono partigiano. Partigiano nemmeno
capace di camminare sulla collina. Tu essere piccolo, dovere stare a scuola invece
che fare il partigiano. Carnera nel furore scalciò la neve, ma non sali d'un
passo. Gridò da giù: - Bastardone, è vero che io non sono un buon partigiano,
e sai perché? Perché non ti ho ammazzato subito. Anche Sandor e tutti gli altri
non sono buoni partigiani, ma ci mettiamo poco, sai, a diventare buoni partigiani.
Sentì la neve stringergli i polpacci, come una morsa. Intanto Fritz scendeva,
un passo, due passi. Carnera aprì la bocca per urlargli di fermarsi dov'era,
ma il tedesco si fermò spontaneamente. Fritz sorrideva come prima e adesso sollevava
una gamba per ripigliar la discesa. Carnera estrasse la pistola e gliela spianò
contro. Fritz ricalò la gamba: fissava l'arma, un pistolino, ma puntato dritto
al suo cuore. Poi scosse la testa e rise. - Tu piccolo. Non essere capace di uccidere
me. - Non esser tanto sicuro. - Tu piccolo. Non essere capace di uccidere
me -. E si tastava tutto il petto, come per misurarlo per sé e per Carnera. Sorrideva
sempre. L'arma tremava visibilmente nel pugno di Carnera. - Guarda, Fritz,
che ti faccio kaputt. Non dirmelo un'altra volta. Il tedesco lo fissava come
a ipnotizzarlo, e Carnera si sentiva dentro come debbono sentirsi le gallinelle
all'abbrivo del gallo. Fritz sollevò la gamba, sempre sorridendo. -
Kaputt! - urlò Carnera. - Tu piccolo. Non essere capace di uccidere me, -
e scese. Un colpo solo partì dal pistolino di Carnera, ma fu come se saltasse
una mina nella pancia del bricco. E Fritz piombò giù piatto come una rana, e la
neve sventagliata volò a pungere in faccia Carnera e a risvegliarlo.
(Tratto da Un giorno di fuoco, Garzanti, Milano, 1963)
Beppe Fenoglio
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