LA MORETTINA
– (Brano tratto dal romanzo “Tirar mattina”) –
Umberto Simonetta
(...) I ragazzini più grandi si spingono giocando in mezzo alla pista correndosi dietro tra la gente che balla: ballano mine e sbarbati, ma anche coppiette di anziani che riprendono la mazurka, e due vecchie nase tutti ossigenati che ballan insieme seri e riguardosi come servissero messa, e poi tornano al tavolo dove ce ne son altri tre di loro che fanno chiaramente il filo a due pivelli lusingatissimi. Nessuno ci fa caso: regolari e irregolari, festa per tutti. Un organino a manovella suona stonandola Vieni c’è una strada nel bosco: lo fa girare con impegno una vecchia mezza zingara vestita di nero, con un faccino da castagna gialla: contenta anche lei. Salta fuori all'improvviso Lilì Marlen ma un coro di urli e di fischi da tutte le parti la coventrizza subito: e la mezza zingara spaventata si mette a girare più in fretta e fa dei gran gesti per avvertire che non ne ha colpa lei: per carità, lei non c'entra: e chi ce l'avrà messo lì dentro Lilì Marlen? Ecco: c'è Caminito adesso: e tutti quanti sbattiamo le mani. La Doris e il Luciano senza dirsi niente si alzano per ballare: stretti appiccicati, coi passi lunghi all'argentina, la camminata di traverso, il fermarsi di colpo e il kaské: bravura finale. Arriva il Pinun col salame i sottaceti il pane bianco: “Adesso vi porto il vino, un po' di calma!, cos'è che ci avete oggi?”
Lo sa anche lei.
“Siete stati a piazzale Loreto? li avete visti?” chiede il Pomona, con la bocca piena: “Buono davvero sto salame!”
“Sì”, risponde il Kimi e ingoia anche lui: “ma non ti lasciano avvicinare”.
“Io non volevo che ci andasse”, fa la Marisa, lamentosa: “non mi piace di vedere quelle robe lì!, invece: figuriamoci! mi ci ha portato anche a me, mi ci ha portato!: un'impressione!”
Il Mariolino ondeggia sulla sedia sputa un nocciolo d'oliva e sta zitto, con l'aria di non seguire il discorso: ha qualche colpa da farsi perdonare: e continua a dondolarsi, in bilico, anche se la Graziella, la sua donna, lo prega di piantarla che ha paura che finirà per cascare. Ma è il Pomona a tirarlo in ballo: con quel suo tono aggressivo, un tono che lui ci ha sempre con tutti, anche quando ti chiede l'ora o ti domanda se lo fai accendere: “Uéi per vincere ci vogliono i leoni, l'hai visto tu il tuo Mussolini?”
Ma cosa me ne frega a me di Mussolini! mi fa un baffo
a me Mussolini!” scatta pronto il Mariolino che se l'aspettava: e sputa un altro nocciolo d'oliva lontano, con rabbia. La Graziella è partita decisa a difenderlo: “Cosa c'entra il Mariolino con quello che è suo padre? lui di politica non ne capisce un tubo!” Ride, poi tutta affettuosa gli passa le braccia attorno al collo e gli dà una fila di bacetti sul cranio: “È un pistola lui in fatto di politica!”
La Doris e il Luciano che s'erano alzati di nuovo per farsi un lento come vedono che il Pinun sta avvicinandosi col vino fanno un rapido ritorno alla base: un po' di sfottimento perché hanno interrotto il ballo: “La miseria come siete materiali!, appena vedete una caraffa...”.
Ci pensan le donne a versarlo, noi in attesa come sultani. Si è appena seduta e già la Doris serve subito per primo il Luciano, la Graziella versa al Mariolino che è un po' schifato per la storia del padre, e adesso uno per uno ci abbiamo i bicchieri tutti pieni. È bianco e scende giù bello bello ma alla fine uno se lo ritrova nelle gambe.
“Va' là va' là che t'è andata ancora bene a te!” ricomincia violento il Pomona: ha messo sotto tiro il povero Mariolino e per ora non ha intenzione di mollarlo. Ma l'altro non gli risponde nemmeno e alza le spalle.
“Dài dài non parliamo di politica!” propongo, “è una bella giornata, cosa ci interessa a noi? pensiamo a mangiare!”
Per un po' otto bocche si fan sentire senza delicatezza. “Non c'è più salame”, si preoccupa la Doris.
“Ce l'ho io un bel salame per te!” sghignazza pronto il Kimi.
“Non so cosa farmene: ci ho già quello del mio Luciano”, ride lei, beata.
“Ah dev'essere proprio un salammo quello lì!” rimanda il Kimi, e la Marisa, la sua Marisa, con gli occhi truci fingendo che le stanno nascendo dei sospetti: “E tu, uéi!, cosa ne sai? non sarai mica...”.
Un'occhiata divertita alle due nase ossigenati che adesso sempre molto compresi e disinvolti stan mostrando un valzerino senza sbagliare un passo.
“Ma la Ferida e il Valenti perché li han fatti fuori?” chiede la Marisa che ogni tanto torna a essere sotto l'impressione dei morti appesi ai ganci.
“An fà ben!” scatta il Pomona, pesante, “bisogna farli fuori tutti quegli schifosi! Tutti, tutti... uéi passate un po' di vino qua!”
“Io invece dico proprio il contrario: che non bisogna ammazzare più nessuno”, sostiene lei, facendo la buona e girando la faccia intorno in cerca di approvazioni: o di ammirazione per la sua sensibilità. Il Mariolino ha finito le olive e passa un braccio attorno alla Graziella: quel movimento di quel braccio m'è rimasto impresso: più per cercare protezione credo che l'abbia fatto che non per offrirne. Anche il vino è finito, asciugato dalla nostra voglia che non è una sete giusta, ma adesso ne facciamo portare altri due litri.
“Però la Petacci mi fa pena”, mormora la Marisa con un filino di solidarietà, “poveretta, mi fa proprio pena.”
“È una vacca, le sta bene!” sbotta ancora il Pomona.
Ho pensato in quel momento che anche la Marisa era una vacca e naturalmente anche la Graziella e la Doris: proprio del mestiere, su e giù per i marciapiedi e i viali del parco, dentro e fuori dalle pensioncine e dai piedattér: non ho mai capito se il Pomona quella frase lì l'abbia detta apposta o se in quel momento gli è venuta fuori così, senza riflettere. Ma credo proprio senza malizia perché lui è sempre stato un impulsivo: altrimenti non avrebbe neanche fatto la fine che ha fatto. Ancora due litri, e il Pinun però si raccomanda – una raccomandazione che vienfuori come un ordine: “Uéi sbarbati andateci piano con questo, eh!: non è mica gassosa!”
Di nuovo le donne veloci prendono in mano le due caraffe – rimane senza la Marisa... o la Graziella... ma la Doris senz'altro riesce a versare per primo al Luciano che non parla quasi mai: attaccato a lei se la spolpa con gli occhi e se la fissa in testa millimetro per millimetro: è il grande amore quello lì, filano da tre mesi.
“II Valenti non era antipatico”, ci ripensa, testona, la Marisa: “l'avete visto nella Cena delle beffe?, non era mica bravo? era bravissimo!”
“Basta porca eva col Valenti e con quei luridi lì!” grida il Pomona: e intorno, agli altri tavoli, quelli che han sentito si voltano in qua verso di noi e si mettono a batter le mani, uomini e donne, e arriva da là in fondo un: “Giusto, giusto!” e tutti che approvano allegri. E come una spinta per il Pomona che si esibisce: alza il suo bicchiere pieno in alto e attacca a cantare fortissimo e stonato: “Avanti popolo alla riscossa bandiera rossa bandiera rossa!” poi butta giù d'un fiato e si guarda in giro con la sua faccia prepotente e un ghignetto di trionfo indirizzato alla Marisa.
“Sì”, gli fa lei, scettica, mentre intorno continuano a batter le mani e qualcuno va avanti a cantare, “vedrai che fine fai tu quando arriveranno i comunisti! voglio proprio vederti!”
Il Pomona si batte il petto con una mano, più forte del necessario, e aggredisce: “Io? cosa ci ho da perdere, io?!”
“Ah da perdere poco... ma se vengono quelli li è la volta che ti fanno lavorare!”
“A chi fanno lavorare?”
“A te, a te!”
“A me?” si ferma un attimo in pensiero, spalanca gli occhi esagerato, sta per scoppiare in un sorrisino dritto ma si trattiene e come se avesse fatto bene e alla svelta tutti i suoi calcoli, attacca, sottovoce, in caricatura: “Battaglioni del duce battaglioni...”.
Sbottiamo tutti quanti a ghignare ancora, anche il Mariolino, rassicurato; poi il Kimi ha come un ricordo e un po' per scherzo un po' per davvero, con l'indice sulle labbra: “Mùchela fesso! vuoi farci fucilare in massa? se ti sente qualcuno ci mettono al muro!”
“Va bene: eseguite!” risponde lui: si alza in piedi si mette sull'attenti e chiude gli occhi: “Forza, sparate! Voglio morire!”
“Ta-ta-ta-tà...” gli grida il Kimi, fingendo d'imbracciare un mitra. Il Pomona apre gli occhi: “Sbagliato mira”, dice, calmo, e torna a sedersi.
Una morettina grassottella s'è fermata come per sbaglio davanti al cancello aperto e sta guardando dentro tutta curiosa. Ha gli occhi che le ridono e guarda anche in qua adesso, verso di me che siedo a capotavola. Deve aver su il vestito bello della festa: un giallo arancione con dei piccoli fiori rotondi, blu, alla fine della gonna. Le pianto gli occhi addosso, apposta, senza che gli altri presi dal parlare e dal bere se ne accorgano: e lei non gira subito la faccia come m'aspettavo che facesse, come fan di solito: sostiene lo sguardo invece, per un bel po', poi con l'aria finta annoiata si rimette a curiosare tra quelli che ballano; e l'indifferenza le sparisce subito: torna a avere gli occhi che le ridono. Al tavolo han ripreso a discutere: il Kimi sta dicendo che adesso, tra poco, tutto cambia: la guerra è finita, incomincia un periodo nuovo: e secondo lui dovremmo star bene tutti quanti. Son discorsi che ha sentito fare anche in casa, sono sicuro: li ho sentiti anch'io dai miei una mezza dozzina di volte: in sti giorni non si fan altro che progetti e progetti: si son scatenati tutti di colpo e non c'è che la smania di pensare al futuro, a quello che si combinerà domani: “Mio padre”, continua il Kimi, “ha l'intenzione di mettersi in proprio...”. Si corregge: “Cioè in proprio: s'è messo con un socio”.
Aspetta un secondo e dà l'annuncio: “Vogliono aprire una piccola tipografia, han già trovato anche il locale: dalle parti di via Cantù, al centro. Dovrebbero cominciare a fine maggio se riescono a rimediare tutto il grano che ci vuole per la buonuscita... Così io andrei a lavorare lì con loro...”.
“Sola me ne vo' per la città...” la morettina sul cancello s'è messa a cantarellare per conto suo, mentre l'organino suona un'altra aria. Avrà diciottanni forse neanche: senza essere uno splendore il faccino è simpatico: le labbra grosse magari un tantino troppo pitturate, ma è la moda. Le gambe son dritte, fatte bene, e il seno da quello che si capisce da qua è tutto a posto. S'è accorta, mica scema, che la continuo a fissare e ogni tanto le scappa un'occhiata di straforo: le sto sorridendo ora, e le vien da ridere a bocca chiusa: ma si ricompone subito e vigliacca finge d'interessarsi un po' troppo a quelli in pista.
“Ci sarà grano per tutti a saperci fare”, sta dicendo il Pomona euforico: e per via del vino e perché pensa che ci son grosse novità nell'aria, e anche perché siamo tutti un bel po' su di giri quest'oggi. Racconta che a Napoli uno sciuscià ha guadagnato un milione a forza di mille lire, e solo lustrando le scarpe agli americani. Dice che se n'è accorto per caso: dopo aver contato il suo pacco di biglietti ha chiesto a uno: “Signurì quanto fanno mille volte mille lire?”. “Un milione.” “Aaah! allora sono milionario! Ci sarà da guadagnare a saperci fare...” continua.
“Anche per noi?” chiede la Graziella: vuole associare le sue speranze personali a quelle degli altri.
“Ma per voi è sempre andata bene”, le rinfaccia il Pomona ghignando senza compassione: “Io parlo per noi: da domani io mi metto in giro a cercar qualcosa...”.
“Qualcosa come?” sento che domando, senza interesse.
“Mah, non so: qualcosa di serio. Vedremo. Trovare si trova oggi, lo dicono tutti... E tu che progetti ci hai?”
“Boh. Secondo i miei dovrei andare a sgobbare: in qualche fabbrica in qualche stabilimento: adesso riaprono i più importanti, ne verran su anche di nuovi: ma di fare l'operaio non me la sento mica troppo: a me dovessi scegliere mi andrebbe di far il commesso in qualche negozio.”
“La presenza ce l'hai”, fa la Marisa, gentile.
“Non basta la presenza: bisogna saper anche parlare”, ci tiene a precisare il Pomona.
“Se è solo per questo”, lo assicuro, e sorrido verso la morettina.
“E tu, stella?” chiede la Graziella al Mariolino che si stringe nelle spalle magre e prima di rispondere fa una mezza pernacchietta: “Boh. Credo che mio padre voglia trasferirsi in provincia. Ho sentito che parlavano di Bergamo”.
“Già, Bergamo è piena di fascisti!” ghigna il Pomona, ma il Mariolino non raccoglie. La morettina continua a cantarellare coi toni alti, sempre la stessa canzone: “Sola me ne vo' per la città... Passo tra la folla che non sa...”. Mi alzo con uno scatto: voglio proprio invitarla a ballare. Mi guarda che m'avvicino, s'aspetta che vada lì, ma insiste civetta nel canto come se con le mie manovre non c'entrasse: “Dove sei perduto amore... Pensando a te soltanto a te...”.
“Una bella voce”, attacco, Piloso.
“Mio primo amooor...” conclude, con un tentativo d'acuto.
“Complimenti”, riattacco.
Si mette a ridere con tutta la faccia:
“Grazie”.
“Sai che canti bene?”
Fa un piccolo inchino con la testa
“Grazie, lo so”.
“Sai anche ballare?”
“Sì, ma non ci ho voglia.”
“Perché?”
“Perché non ci ho voglia.”
“Uéi un carattere deciso, eh?”
“Perché non balli con quelle lì che ci hai assieme?”
“Perché non sono assieme a me, sono insieme ai miei amici.”
“Non ci ho voglia di ballare, eppoi adesso devo tornare a casa.”
“Abiti lontano? se vuoi ti accompagno in bici.”
“Non c'è bisogno, grazie. Abito qua vicino.”
“Va bé, d'accordo, ma un giro in bici si può sempre fare lo stesso, no?”
Si mette a ridere di nuovo e le luccicano gli occhi e tutto il viso: “Ohi ma lo sai che sei un bel tipo tu?, tutte le ragazze che vedi fai così?”.
“Tutte tutte no: solo con quelle che mi piacciono.”
“Dovrei sprofondarmi a ringraziarti? va' che non son mica il tipo io che ci casca coi complimenti!”
“No? Peccato. Pensavo proprio di sì. Che tipo saresti tu invece?”
“Eh...” ci pensa su un momento, poi ridendo ancora una volta, divertita: “Un po' come te”.
“E cioè come sarebbe un po' come me?”
“E cioè sarebbe che sono... mah, non so... sono un po' così io, sono... Mah... Decisa... Si, sono decisa!”
“Questo me ne sono accorto, te l'ho detto anch'io prima.”
“ No, ma io intendevo in un altro modo... Faccio un po' anch'io come fai tu: quando un ragazzo mi piace glielo faccio capire e buonanotte: anche se poi quello mi ride dietro.”
“E io ti piaccio?”
Mi squadra pignola dai piedi alla testa, come se guardasse qualcosa d'inanimato: una sedia, un bicchiere. Poi, un tantino sfottente: “Sei carino. Però non lo so ancora se mi piaci. Devo pensarci un po' su”.
“Bé pensaci su mentre balliamo, dài!”
La prendo per mano e la trascino verso la pista senza trovar resistenza, sento che la sua mano è già roba mia. L'organino sta giusto suonando un lento. Da principio sto distante poi sdruscio sempre più vicino. Mi piace sta ragazza: ci ha qualcosa, ci sa fare: è rapida nel capire. Dò un'occhiata al mio tavolo: immagino i commenti. Il Luciano e la Doris intanto, sempre incollati, si stanno alzando per ballare anche loro. Gli altri stan guardando in qua, non m'importa in che modo.
“Senti”, dico, finito il ballo, “lo vogliamo fare sto giro in bici?”
“Non mi hai neanche detto come ti chiami.”
“Aldo. Tu?”
“Giannetta.”
“Allora Giannetta dài, aspettami lì al cancello che prendo su la bici.”
Il Pomona come vede che gliela sto portando via protesta: “ Uéi, dov'è che hai intenzione di andare con la mia spicciola?”.
“A fare un giro, stai tranquillo: torno subito.”
“Non mi farai mica rientrare a casa a piedi, eh?, va' che non è neanche mia, è di mia madre!”
“Ah giusto, non ci avevo pensato! ci si sta scomodi su sta qua: prendo quella del Luciano.”
“Quando si è belli”, sfotte la Marisa: ma con un tale tono di convinzione che il suo Kimi rimane un po' imbarazzato.
Monta in canna senza dire una parola, aggiustandosi per benino il vestito giallo arancione: e quando s'è sistemata, che le sembra che sia a posto, si volta per farmi un piccolo segno ch'è pronta. Comincio a pedalare di forza sullo stradone tutto polvere che costeggia il Naviglio: più avanti, un chilometro, finite le case popolari e le botteghe ci dev'essere ricordo un sentierino che sbuca nei campi. Il sole già freddo se ne sta andando via del tutto e così l'acqua del Naviglio perde quel suo luccicare metallico e torna a farsi verde scura: le volte che ci ho fatto il bagno lì dentro! è come nuotare nel fango. Pedalo sempre più svelto, e siamo gli unici su sta strada. Eccolo finalmente il sentierino, sulla sinistra: nella terra gialla battuta c'è rimasto il segno di altre ruote di bicicletta. Come sto per inforcarlo la Giannetta che per quei cinque minuti buoni di strada è sempre stata zitta, solo attenta a tenersi giù la sottana, come sapesse già quello che si andava a fare e fosse d'accordo senza tante storie, ha un attimo di ripensamento: “Dov'è che mi porti?” chiede.
Le sorrido, appoggio la testa vicino alla sua e continuo a pedalare verso l'interno: ancora un cento metri e lì possiamo stare tranquilli.
“Dov'è che mi porti?” torna a domandare, con voce calma, senza nessuna paura; vuol proprio sapere dov'è situato il posto, nient'altro. Le dò un bacetto nell'orecchio: “ Là così”, rispondo, tenero tenero. Si rimette a cantare la canzone di prima: “Sola me ne vo' per la città... Passo tra la folla che non sa... Che non sente il mio dolore...”.
Lì così sotto quell'albero penso che potrebbe andare. Freno e smonto: “Ecco, siamo arrivati: vieni: sediamoci qua”.
“Ma tu sei proprio matto! qua?!”
“Non ci vede nessuno, non passa mai un'ombra da ste parti!”
“Sei pratico eh, ci sei già stato?”
“No, che c'entra... dài Giannetta fai la brava, siediti giù anche tu, dammi la mano.”
Si siede e non fa caso alla gonna. Si sporcherà. Ci avevamo voglia tutti e due: ma abbiamo fatto tutto troppo in fretta. Davvero, se ci ripenso. M'ha chiesto il pettine, subito dopo. Avevo un pettine fregato al Luciano, in un astuccio di pelle: magnifico. Ha appena finito di rimettersi le mutandine e si sta dando un'aggiustata ai capelli. È già tutto buio ormai e siamo ancora qui in mezzo al prato che gocciola: chissà il Luciano e la Doris come sacramentano. Mi son tirato su in piedi ma mi prende una mano: la stringe come una naufraga: “Siediti giù ancora un momento, ti devo dire una cosa”: aveva cambiato il tono di voce, sembrava in pensiero. Torno a mettermi lì, inginocchiato vicino a lei: “Cosa c'è?”.
“Sai perché l'ho fatto?” chiede, guardandomi bene in faccia.
“Non starei lì a ripensarci troppo, l'abbiamo fatto perché ci faceva piacere di farlo.”
“Si, d'accordo, chi dice niente, certo che mi faceva piacere... ma anche per un altro motivo.”
Accetto che me lo spieghi: ho un po' di premura a dir la verità, vorrei tornare dal Pinun per via di quelli là che si lamenteranno. E poi è umido adesso a star qui così, eppoi è finita.
“L'ho fatto perché non voglio perdere niente”, dice chiarissima, continuando a guardarmi tutta seria.
“Si capisce, fai bene: non bisogna mai perdere niente!” condivido, frettoloso e allegro. Insiste: “No, no, mio padre lo diceva l'altra sera: non bisogna più perdere un minuto. Perché non è mica finita così”.
Chi l'ha mai capita quella!
“Come sarebbe non è finita così?”
“La guerra”, va avanti, convinta, “dice mio padre che questo non è che il principio: tutti quanti s'illudono che sia la fine: non è mica vero. Per questo non bisogna perdere niente finché siamo in tempo...”
Erano i suoi soliti discorsi da ciula.
“Bé... certo: ha ragione tuo padre.”
Dev'essere un po' matta, pensavo.
“Tu non ci credi, vero? dì la verità.”
“Ma sai, io... Io non so, io non me ne intendo mica troppo di ste cose: io penso all'oggi, al domani ci penserò solo quando sarà il momento, ti pare?, mica giusto?”
“Mio padre non ne ha sbagliata una, sai? fin dall'inizio lui era sicuro di come sarebbe andata a finire: ha previsto ogni cosa, punto per punto.”
“Che mestiere fa tuo padre?”
“Il maestro, insegna alle elementari di via Crocifisso, sai dove si trovano?”
“Sì, più o meno... Bisognerà che andiamo adesso...”
“È tardi anche per me: ma non mi dicono mai niente in casa: si fidano. Quanti anni ci hai tu?”
“Diciotto. Tu quanti ne hai?”
“Uno di meno: diciassette. Li ho compiuti il diciassette di sto mese. Tu sei superstizioso?”
“Mah, io no. Perché? per via del diciassette e diciassette?”
“Non trovi che è strano?”
“Io? no: il prossimanno son diciotto e... basta, è superato.”
“E ai gatti neri tu ci credi?”
“Ma io no, son tutte balle! dài, bisogna che andiamo adesso: quelli là son là che aspettano che gli riporti la bici...”
Si alza: una spazzolata con le mani al vestito, due dita che passano sopra le labbra a controllare, poi, debole: “Se vuoi che ci vediamo qualche altra volta...”.
Sorriso dolce: “Naturale che ci dobbiam vedere...” dico, poi con intenzione: “non è mica finita così”.
Rimontiamo finalmente sulla bici, lei torna a mettersi a posto la gonna per benino e io ho una gran fretta. C'è la dinamo che funziona poco, non si vede quasi niente e bisogna stare attenti: ai lati ci sono i fossi. Per un po', come all'andata, stiamo zitti, si sente solo il rumore viscido delle ruote sul sentierino, poi lo sbalzo che facciamo passando sullo stradone. Adesso si gira: le son tornati gli occhi che ridono: muove le labbra in un bacetto, poi, tranquilla: “Non devi far complimenti con me: se ci hai voglia di rivedermi me lo dici chiaro altrimenti pazienza: tanto io innamorarmi non m'innamoro di nessuno. Son fatta così”. (...)
(Brano tratto dal romanzo Tirar mattina, di Umberto Simonetta, Mondadori, Milano, 1963)
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