I VIAGGI IN AFRICA
( – racconto tratto del libro Racconti di adulteri disorientati – )
Juan José Millás
Julia volle abilitare nella propria memoria un angolo speciale per immagazzinare i ricordi di quel Natale, il primo dal suo matrimonio. Un Natale tinto, più che dalla nostalgia del passato, dalla malinconia di un futuro la cui solidità pareva fuor di dubbio. Il trenta di dicembre le analisi avevano confermato la gravidanza, benché lei non avesse comunicato la notizia a Enrique, suo marito, fino all'alba del primo gennaio, in parte per godersi la notizia da sola per un poco, ma in parte perché avrebbe costituito un regalo originale per l'Anno Nuovo.
Dopo l'Epifania, la normalità era ritornata nel salotto di casa, e a Julia piaceva quella routine imposta dal trascorrere dei giorni e regolata dai viaggi di Enrique nel continente africano, dove si sviluppava buona parte del suo lavoro come rappresentante di componenti elettrici. Nell'ultimo viaggio, a proposito, era arrivato ad accordi importanti con il Ministero dell'Industria di un paese il cui nome Julia non era riuscita a tenere a mente, perché fin dagli anni della scuola l'Africa le era parsa un insieme disordinato di governi, in cui i Paesi cambiavano continuamente luogo, nome o regime. Ricordava che un professore di geografia le aveva segnalato allora che l'instabilità di quel continente rendeva molto difficile la composizione di carte geografiche che non risultassero subito antiquate. Questo le era servito da scusa per non prestare troppa attenzione alla materia che ora si dispiaceva di ignorare quasi del tutto, in quanto le sarebbe piaciuto seguire suo marito con l'immaginazione da una città all'altra, da un paese all'altro, nei lunghi pomeriggi silenziosi in cui pianificava il suo futuro. In ogni caso, la firma di tali accordi significava che i viaggi di Enrique in Africa sarebbero aumentati durante quell'anno. E anche se era una buona notizia dal punto di vista delle entrate economiche, poteva risultare pernicioso per l'evoluzione dei suoi timori notturni, che erano notevolmente aumentati in quantità e orrore da quando c'era dentro di lei l'eccitante promessa di un figlio.
Adesso era venerdì sera e Enrique era in viaggio dal lunedì. Se tutto andava bene, sarebbe tornato quella notte e lei avrebbe potuto dormire tranquilla per la prima volta in tutta la settimana. Si diresse in bagno per controllare l'evoluzione del suo aspetto e notò l'apparizione di due macchie violacee sotto gli occhi. Sicuramente erano occhiaie, quell'alterazione del colore delle palpebre inferiori e di cui sua madre – pure lei moglie di un agente di commercio – si era tanto lamentata in vita. Per quello che la riguardava, il volto le si era leggermente affilato e sul collo le era uscito un piccolo sfogo. Ma queste alterazioni non la infastidivano, perché aveva letto che erano frequenti nei primi mesi di gravidanza; tuttavia, le occhiaie costituivano un punto dolente di somiglianza con quella persona alla quale meno avrebbe voluto somigliare negli istanti in cui in fondo si materializzava il suo futuro.
Enrique tornò alle undici e mezza e la casa si riempì d'improvviso del suo odore, della sua voce, delle sue risate. Non tornava mai stanco dai viaggi. La sua entrata produceva nell'animo di Julia un effetto simile a quello dei tranquillanti che, prima della gravidanza, era solita prendere quando rimaneva sola. Di fronte alla presenza di Enrique, i fantasmi si ritiravano verso la periferia della paura dissolvendosi nell'atmosfera interiore come un cavaliere sul punto di raggiungere la linea dell'orizzonte.
Come sempre, dopo aver baciato Julia ed essersi interessato della sua salute, si chiuse in camera e non ne usci fin dopo aver disfatto le valigie. Questa volta aveva portato come regalo degli strani strumenti musicali, due maschere e un pezzo di stoffa dipinto a mano con cui sua moglie si sarebbe fatta un vestito.
Le pareti della casa erano piene già da tempo di arte africana e di oggetti di uso quotidiano che Enrique considerava esotici e decorativi; c'erano anche avori, peli d'elefante, denti di leone e alcuni quadri dai colori molto vivaci che rappresentavano scene incomprensibili, relative alla cultura di quel continente. Julia sentiva una strana avversione per tutti quegli oggetti ma non l'aveva mai manifestata per paura di contrariare Enrique, che pareva depositare in essi la sostanza della propria carriera professionale, così come una vaga inclinazione al collezionismo che si manifestava nell'ossessione di conservare monete, fazzolettini, carte d'imbarco e sottobicchieri degli alberghi in cui trascorreva la propria esistenza di rappresentante.
– Non sappiamo più dove metterle tutte queste cose, – disse con un sorriso ambiguo in cui si poteva percepire una componente di dolore.
– Compreremo una casa più grande, – rispose Enrique mentre metteva la tovaglia e i piatti per la cena.
– Quando devi partire di nuovo? – domandò lei in tono neutro, cercando di non trasmettere l'inquietudine che quei viaggi le producevano.
– Non so, – disse lui, – forse martedì. Lunedì passo in ufficio per vedere come stanno le cose e decideremo.
– Passi così poco tempo a casa...
– È il mio lavoro, lo sai. Tra qualche anno avrò guadagnato abbastanza denaro e potrò avere una vita più ordinata. Adesso non mi posso fermare. C'è un momento della vita in cui bisogna vivere così, dev'essere una questione biologica. Poi verrà il riposo. Comunque, non ti preoccupare, quando nascerà il bambino io sarò qui e non programmerò nessun viaggio nelle due o tre settimane successive. Bisognerà cercare qualcuno che ti dia una mano con il piccolo.
Julia annuì senza entusiasmo. Fino a quel momento si era rifiutata di assumere un'aiutante, malgrado le insistenze di Enrique, perché temeva che l'arrivo di una persona estranea a casa sua avrebbe moltiplicato gli argomenti su cui si poggiava la sua diffusa inquietudine. Ma pensò che dopo il parto non avrebbe avuto ragioni convincenti per continuare a rifiutare un aiuto. Forse allora, per la prima volta, lamentò la morte di sua madre e nell'esserne cosciente provò dispiacere. Era mancata già due anni prima, e Julia non era ancora riuscita a pensare a quell'assenza perché credeva che il cattivo rapporto che avevano avuto la liberasse da qualsiasi possibile rimorso. Tuttavia, ora calcolò che la presenza di una madre doveva essere importante quando si affrontava per la prima volta la rappresentazione di quella stessa parte.
Intanto, i giorni, spingendosi l'uno con l'altro, raggiunsero il mese di febbraio, che risultò essere un periodo quieto, in parte perché fu molto soleggiato, ma in parte anche perché Enrique dovette viaggiare di meno e perché iniziava a far buio più tardi, cosa che ebbe qualche influenza positiva sull'orario cui erano sottomessi i timori di Julia.
Marzo, tuttavia, spuntò con violenza. La pioggia e il vento colpirono le finestre di casa con una frequenza poco comune, facendo sprofondare Julia in una vaga malinconia che ripartiva tra la cucina, il bagno e il salotto. Pensò, per distrarsi, di tenere un diario della gravidanza che avrebbe conservato per regalarlo a suo figlio quando fosse diventato grande. Ma appena scritte due pagine dovette smettere, poiché intuiva che quel quaderno si sarebbe potuto trasformare in un testimone scomodo se le cose si fossero complicate e il parto, per qualsiasi ragione, non fosse andato in porto.
Intanto, man mano che i liquidi del suo ventre si ispessivano fino a conseguire quella forma arbitraria che definisce i corpi, anche gli umori del suo cuore si facevano più densi; in questo modo, l'inquietudine trovò un punto di sutura che permise a Julia di collocare i propri timori in diversi angoli della casa, dove verso il mese d'aprile, in maniera gratuita, iniziarono a confluire i frammenti, fino allora dispersi, dell'orrore.
Il primo di questi angoli da cui pareva provenire la paura, benché si limitasse solo a rifletterla, fu la porta di casa, la cui fragilità, tra l'altro, era evidente. Con l'arrivo della primavera, Julia iniziò a fare la guardia allo spioncino per osservare i movimenti che si producevano sul pianerottolo della scala e a controllare il ritmo con cui si utilizzava l'ascensore. A volte, trattenendo il respiro fino a estremi insopportabili, vedeva avvicinarsi un povero – deformato dalla prospettiva della piccola lente – e aspettava in tensione che costui suonasse il campanello per poi osservare, durante interminabili secondi, quel volto non rasato, i cui occhi naufragavano intorno allo spioncino, fino a che lo scoraggiamento lo obbligava a voltarsi per tentare la sorte in un altro appartamento. A volte vendevano qualcosa o erano ragazzi che facevano interviste, ai quali Julia, se insistevano, finiva per gridare di non potergli aprire, che se ne andassero.
Il problema si risolse, almeno provvisoriamente, con l'acquisto di una porta blindata che trasformò l'entrata di casa in una cassaforte impossibile da forzare. Ma quasi immediatamente, Julia iniziò a non fidarsi delle finestre. È vero che abitava al quinto piano e che, di conseguenza, sarebbe stato impossibile entrare in casa scalando la facciata. Tuttavia, l'ossessione crebbe a livelli insopportabili in solo due settimane, sicché Enrique decise di installare griglie a tutte le finestre e una persiana di metallo al terrazzo del salotto.
Così l'ansia di Julia, senza scomparire, si ridusse notevolmente. La notte non dormiva meglio di prima, ma le sue veglie erano più tranquille o almeno lo furono fino a quando si rese conto che, nel caso in cui fosse scoppiato un incendio, avrebbe avuto serie difficoltà a fuggire dalle fiamme. Temette che questa preoccupazione si aggravasse con la nascita del bambino e avrebbe dovuto vegliare per la salvezza di entrambi, ma non disse nulla a Enrique, il quale aveva già iniziato a dare segni di stanchezza di fronte alle ossessioni di sua moglie.
Un giorno di giungo Enrique le telefonò da un paese centroafricano e le chiese di cercare dei documenti, che da quanto le indicò, dovevano trovarsi nella scrivania del piccolo studio che aveva ricavato accanto alla camera da letto. Erano nel cassetto centrale e Julia li trovò senza difficoltà. Dopo aver comunicato al marito i dati di cui aveva bisogno, tornò nello studio e si intrattenne a guardare nei cassetti della scrivania fino a trovare uno spazio segreto in cui c'era una raccolta di fotografie. Le guardò svogliatamente, in quanto parevano installazioni elettriche e centri industriali che per lei erano privi di significato. Tuttavia, mescolate a quelle foto, ne trovò altre in cui si vedeva Enrique nudo insieme a due donne negre in quella che sembrava una camera d'albergo. Una delle donne indossava solo della provocante biancheria intima di colore rosso, e l'altra pareva avere un vestitino leggero disegnato per l'esercizio del piacere. Il gruppo sembrava rappresentare una scena sessuale in cui non era difficile apprezzare alcuni ingredienti che Julia qualificò come masochisti.
Ripose le fotografie nello stesso ordine con cui le aveva trovate cercando di dimenticarne l'esistenza, ma quelle immagini la perseguitarono dal bagno alla cucina e dalla cucina alla camera da letto.
Tornò in bagno e iniziò a spazzolarsi i capelli con movimenti compulsivi. Poco dopo, si rese conto di stare ansimando e che negli ultimi minuti era stata presa da una strana agitazione che tendeva a concentrare i propri effetti nel grembo. Allora, il bimbo cambiò posizione all'interno dell'utero e Julia patì un leggero mancamento che non le impedì, tuttavia, di raggiungere la sua camera e di lasciarsi cadere sul letto. Per qualche secondo ebbe un accesso di sudore, dopo di che iniziò a sentirsi un po' meglio. Poco dopo, tuttavia, i nervi tornarono a bloccare i suoi poteri decisionali e il suo ventre produsse un paio di contrazioni che potevano costituire l'annuncio di un parto prematuro. Era al settimo mese di gravidanza e ricordò che lei stessa era stata settimina, da quanto le aveva detto sua madre quando aveva compiuto la maggiore età. Tornò in bagno e prese dall'armadietto un tubetto di ansiolitici di cui era solita fare uso prima di rimanere incinta. Ingoiò due capsule con un po' d'acqua e si sedette sul bordo della vasca in attesa che la chimica producesse i suoi benefici.
Presto le giunse un'ondata di calma che l'aiutò a concentrarsi sulla forma del lavandino, dolce e tesa come il suo ventre, ma bianca e fragile come il suo equilibrio nervoso. Dopo un altro paio di ondate la calma divenne una pienezza di perfezione incomprensibile. Il mondo pareva perfetto e la sua casa aveva il pavimento di legno lucido e verniciato; le pareti del salotto erano decorate con colori che invitavano al riposo, e la disposizione delle stanze sembrava concepita dagli impulsi di un'intelligenza sconosciuta che aveva trovato questo modo per comunicare con Julia. Le contrazioni non si ripeterono, di modo che il parto, probabilmente, non sarebbe stato prematuro.
Passeggiò lentamente per la casa, soffermandosi sui minimi dettagli di ogni oggetto: un granello di polvere che si era posato sul coperchio del giradischi, uno scricchiolio del mobile di legno in cui custodiva le stoviglie, una mosca che cercava di entrare attraverso la finestra chiusa... L'atmosfera pareva sottomessa a un'attività incessante e comunicatrice, ma tutto veniva eseguito in armonia con un piano invisibile in cui l'ansia non aveva né un posto né un senso. S'accorse allora che gli oggetti africani che arredavano la casa erano pure portatori di un'attività interna dal carattere malvagio, ma capi che bastava averlo scoperto perché quelle forze passassero dalla sua parte. Le maschere, i peli d'elefante, gli avori, i quadri, si allearono con lei grazie al modo in cui Julia, in quegli istanti, riuscì a comunicare con essi.
Tornò dunque nello studio del marito e riguardò le fotografie senza l'apprensione precedente. Pensò che il moto di terrore che le avevano prodotto si doveva al fatto di vedere suo marito trasformato in un altro, perché fino allora, per lei, era stato un uomo buono, innamorato, lavoratore e devoto. Le immagini delle fotografie, tuttavia, mostravano un tipo libertino, dallo sguardo liquido e il sorriso sgangherato. Era possibile che entrambe le personalità convivessero sotto la stessa pelle?
Pensò che se ne sarebbe andata di casa, che si sarebbe separata da lui e avrebbe cresciuto il figlio da sola, ma immediatamente calcolò pure che non sapeva dove andare. I suoi genitori erano morti, il suo unico fratello viveva in un'altra città e da tempo non si scrivevano. Inoltre, lei non aveva risorse economiche per mantenersi né nessun tipo di conoscenze specifiche che le permettessero di trovare un buon lavoro.
Camminò verso il bagno con aria assorta e riempì la vasca di acqua calda versandovi dei sali e una dose di sapone liquido che produsse subito una schiuma abbondante. Quando stava per immergersi nell'acqua suonò il telefono, ma avevano sbagliato numero. Chiedevano di un certo Fresneda. Julia, tuttavia, rispose che quel tipo era vissuto li fino a due mesi prima, ma che poi si era trasferito a New York. Mentre tornava in bagno le parve strano quello che aveva fatto, ma sentì un'ondata d'intima soddisfazione per essere stata capace di improvvisare una bugia con tanta naturalezza.
Quella notte dormì otto ore filate e si svegliò con una sorta di depressione, che si manifestava nella fiacchezza dei muscoli e i cui frutti immediati parevano benefici. In effetti, mentre prendeva il primo caffè della mattina avvertì che l'ansia era scomparsa. Notò anche che la vitalità era molto bassa, ma che in quello stato avrebbe potuto riflettere meglio sulla vita. La sua percezione della realtà, inoltre, era ancora la stessa del giorno prima. Al momento, dunque, non aveva bisogno di altre pastiglie.
A metà mattina telefonò a un'amica con cui in altri tempi aveva scambiato qualche confidenza. Le disse che il marito la tradiva, anche se non raccontò i particolari né la scoperta delle fotografie.
– Lo fanno tutti gli uomini, – rispose l'amica. – È meglio farsene una ragione. La prima volta che me ne sono accorta ho avuto un dispiacere, ma adesso quasi quasi lo ringrazio, così mi lascia in pace.
Julia cercò di spiegarle che ciò che la preoccupava era aver scoperto un volto di suo marito di cui fino a quel momento aveva ignorato l'esistenza.
– Quando tornerà a casa, – aggiunse, – lo guarderò come un estraneo, come si trattasse di qualcuno che sta soppiantando Enrique, e questo mi fa paura.
La sua amica aveva fretta, o non capi ciò che Julia cercava di spiegarle; di fatto Julia non trasse alcun profitto da quella conversazione.
Dopo pranzo si addormentò davanti al televisore e sognò qualcosa che aveva a che fare con una caffetteria in cui lei era allo stesso tempo cameriera e cliente. Il sogno la stupì, ma non le parve inquietante. In realtà, dal giorno prima tutto aveva smesso di essere inquietante. Decise che al ritorno del marito si sarebbe comportata come se non fosse successo nulla, come se ignorasse l'esistenza di quell'altra parte della sua vita che in qualche modo l'aveva trasformato in un estraneo. Ma questa determinazione la portò a pensare che anche lei si sarebbe potuta trasformare in un'altra e mentre faceva merenda con un appetito inusuale le parve che quel progetto avrebbe potuto giustificare il resto della propria vita. Così, Enrique e lei sarebbero stati due perfetti estranei – camuffati dentro ai rispettivi corpi – che avrebbero condiviso uno spazio comune per la cui conquista avrebbero lottato silenziosamente negli anni successivi. Il terrore di vivere con un estraneo, dalle reazioni ovviamente imprevedibili, veniva minimizzato dal fatto che anche lei sarebbe stata un'altra, da cui non avrebbe potuto, dunque, aspettarsi un comportamento lineare.
Ebbe, all'improvviso, un'idea che annunciava l'inizio della metamorfosi. Andò in bagno e per darsi coraggio prese una pastiglia come quella del giorno prima. Poi, in camera, cercò una macchina fotografica istantanea che le aveva regalato Enrique e, dopo essersi spogliata, si mise davanti allo specchio e iniziò a farsi delle foto in pose oscene che la presenza della macchina e del ventre gonfio trasformarono in qualcosa tra il terrificante e il grottesco.
Dopo aver osservato le fotografie con la distanza creata dall'ansiolitico, sorrise malignamente e andò nello studio del marito, dove le ripose insieme alle fotografie in cui Enrique appariva con le due donne negre.
Gli anni trascorsero senza che Enrique facesse mai allusione a quei fatti. Vissero come estranei, ma strettamente uniti dall'atmosfera di quell'appartamento invaso da oggetti provenienti dall'Africa. A Natale e il Primo dell'Anno andavano a pranzo con i genitori di lui e d'estate affittavano una casa sulla costa.
Quanto al bambino, nacque bene, senza problemi, ma risultò essere negro.
Mah.
(Tratto dalla raccolta Racconti di adulteri disorientati , Einaudi, Torino, 2004, traduzione di Paola Tomasinelli)
Juan José Millás (Valencia 1946) alterna al lavoro di giornalista quello di scrittore, e in ambedue le professioni ha vinto importanti premi.
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