THE NIGHT
SOUPER
Eduard
Limonov Sono
un uomo solitario, e i miei divertimenti sono quelli di un uomo solitario. E anche
se nella mia vita ho avuto diverse donne, sono stato e continuo ad essere un uomo
solitario. Giunto
a New York, a distanza di alcuni decenni dal mio primo atterraggio, mi sistemai
per curiosità all'hotel Latham, lo stesso in cui avevo passato la mia prima
notte nel continente americano, quella tra il 18 e il 19 febbraio del 1975; attraversai
i corridoi, assaporando il gusto del passato come un sonnambulo. Non telefonai
ai vecchi amici. L'affetto che avevo per loro continuava a vivere nel profondo
del mio cuore, ma non mi andava di vederli. Preferisco che i personaggi della
mia vita passata se ne restino tranquilli al loro posto e non mi stiano tra i
piedi, non spuntino fuori senza preavviso, inopportunamente, nel presente.
Proprio perché mi ero ritrovato nella città della mia seconda giovinezza,
forse senza nemmeno averne coscienza, tendevo a riprendere le vecchie abitudini
e perfino i miei orari divennero frammentati, febbrili e disordinati come lo erano
stati anni prima. Mi svegliavo improvvisamente alle due del mattino, mi vestivo,
mi immergevo nella città di New York e vagavo per le strade fino all'alba.
All'alba andavo al supermercato, compravo una confezione di lattine di birra,
un pezzo di salame polacco a forma di ‘u’ e tornavo in hotel. Accendevo
la tivù, mi sdraiavo sul letto, bevevo le sei birre e mangiavo il salame.
Quello che in teoria doveva essere un salame, mi viene ora il sospetto che fosse
in realtà un concentrato di ormoni; in ogni caso rivelava al primo morso
un colore rosa fluorescente. Altrettanto fluorescenti erano i colori rosa e verde
sullo schermo della vecchia tivù. Sdraiato sul letto del Latham, con
la birra, la tivù e il salame polacco, scoprii con piacere di essere assolutamente
felice. Le `stiupid sop' che mi piacevano un tempo, continuavano o venivano replicate,
e non ci volle neppure molto tempo per orientarmi tra i personaggi che popolavano
le soap nuove. Certamente le soap erano stupid, ma questo non mi impediva
di essere serio e profondo quando ne facevo l'oggetto delle mie riflessioni. Fissando
le facce pasciute dei protagonisti, pensavo bonariamente che gli 'americans' avevano
un'aria da extraterrestri. Che avevano molte meno rughe degli europei: se il viso
degli europei era un pezzo di carne fibrosa che si ramificava nelle occhiaie,
negli afflosciamenti delle guance, nelle sacche vicino alla bocca e alle orecchie,
la faccia degli americani era invece un pezzo di carne più compatto. Era
un plastico nudo e impudente, non macellato dalla storia, non segnato dai sottili
arabeschi della cultura. Mi venne in mente quel film sui Body Snatchers, gli Ultracorpi,
extraterrestri che erano `clouns' e non persone. Se si guardano attentamente gli
attori di Dinasty o di Dallas (li chiamo in causa non per giudicarli con il disprezzo
dell'intellettuale spocchioso, ma per il fatto che queste soap sono conosciute
in tutto il mondo e ciascuno può farne esperienza), ci si accorge facilmente
della non umana levigatezza dei loro visi, delle non umane chiome fluenti senza
la più lieve imperfezione che fanno pensare a parrucche o alla peluria
di alcuni cani castrati e ben pasciuti. I tele-americani assomigliano pure a psicopatici
imbottiti di insulina (molti anni fa ero circondato da omuncoli tranquilli, psicopatici
insulinici, all'ospedale psichiatrico di Char'kov. Quindi so di cosa parlo, è
stato oggetto di una mia ricerca). I nostri `bradars' americani sembrano ‘pipol’,
ma a squartargli, per dire, un piede o una mano (come in Terminator dove Schwarzenegger-robot
si ripara una mano), chissà che non vi si scopra uno scheletro meccanico
e circuiti stampati come in un computer. Per fortuna la gente vera che abita nelle
città e nelle cittadine americane è meno levigata dei tele-americani.
‘Quella’ fu una giornata calda. Ma verso sera cominciò
a fare fresco e quando scese il buio si fece ancora più fresco. Il vento
spazzò via le nuvole calde dal firmamento di New York e apparve la luna,
grande, e tutti gli elementi della natura circostante si composero in un paesaggio
autunnale. Un freddo simile era inconsueto per la stagione (tradizionalmente l'inizio
di settembre a New York è pesantemente umido e rovente), perciò
mi sentivo strano. Verso mezzanotte mi ritrovai a Broadway, in un bar del middle-town.
Una ragazza seduta al piano cantava canzoni jazz. Bevvi nella penombra un
certo numero di Guinness, una dietro l'altra, e tentai di attaccare discorso con
la cantante. Lei mi respinse. Questo incidente non si sarebbe rivelato fatale
come il fucile nell'ultimo atto di Cechov, ma comunque diede un'impronta decisiva
alla serata e poi alla nottata. Sentendomi simbolicamente respinto, non solo dalla
cantante ma anche da New York, fui preso dall'ardente desiderio di essere nuovamente
accettato nel grembo della mia amata città, e vedrete più in là
dove mi portò questo desiderio. Il motivo del rifiuto era stato formulato
dalla cantante con tale chiarezza che mi permetto di riportare per intero la nostra
breve conversazione. Quando le chiesi, durante l'intervallo, a che ora avrebbe
finito di cantare e se avessi potuto offrirle un drink in un altro bar, la ragazzona
estrasse dalla borsetta un paio di occhiali con la montatura rossa, li inforcò
e, senza sorridere, tutta seria, con gli occhiali, disse: "Sorry, no. Ho
già abbastanza uomini nella mia vita. Un boyfriend fisso e tre occasionali.
Se tu fossi nello show business, potresti tirarmi fuori da questo `buco malsano'
– e strisciò il tacco sulla segatura sparsa sul pavimento. –
Tu, poi, non sei neanche americano. Sono sicura che sei un tipo in gamba, ma sono
stanca degli uomini." Sfilò gli occhiali e li ripose nella borsetta.
Dissi che avevo solo intenzione di invitarla per un drink perché mi era
piaciuto come lei, una bianca, aveva eseguito il repertorio di Billie Holiday.
"Come no, tutto il repertorio finisce a letto," disse lei stanca. "Qualcuno
le avrà fatto qualcosa di brutto a letto" pensai "e ora è
nemica di qualsiasi letto." Uscii dal bar, svoltai e m'incamminai istintivamente
in su. Infatti avevo abitato lì, nella zona alta di Broadway, nel 1977.
Le gambe mi portarono automaticamente all'hotel Embassy. C'ero già passato
durante il mio soggiorno. Sapevo che i giapponesi, dopo aver comprato l'edificio,
avevano trasformato quell'hotel meravigliosamente fatiscente e puzzolente, occupato
da alcune centinaia di poveracci (tranne Limonov, erano tutti neri), in un insulso
e costoso complesso residenziale, l'Embassy-Tower... Giunto all'angolo East della
Settantaduesima strada, indugiai un attimo, incerto sul da farsi... Allora pensai
che non aveva senso andare più in su, che avevo bisogno come minimo di
una birra e forse anche di mezzo anello di salame polacco. Una Guinness in un
piano bar non era una cosa che si addiceva alle mie finanze, e tanto meno tre
Guinness... Se avessi comprato il salame e la birra non avrei magari riequilibrato
il bilancio, ma avrei almeno arrestato quello sperpero sistematico che mi stava
portando alla rovina. Potevo rigirarmi e ripercorrere Broadway nella direzione
opposta, oltrepassare alcuni incroci più in giù fino all'Anzonia
Post Office Station dove c'era il supermercato I and P aperto tutta la notte.
Se esisteva ancora. Il supermercato era al suo posto ed era aperto, e il giallo
dei suoi appannati vetri antiproiettile sprigionava allegria. Commosso, varcai
la soglia del mio vecchio amico. Mi arrivò sul viso una zaffata dei soliti
cattivi odori... Quante volte, di notte, avevo comprato lì il mio `menù',
salame, birra, schifosi hamburger di macinato da quattro soldi, con il pane che
sembrava cotone idrofilo... Lo stesso grassone messicano, la guard col manganello
(era lui o non era lui? era lui) spettegolava con la cassiera nera, lo stesso
direttore delle vendite (con la stessa faccia grigio-verde) se ne andava avanti
e indietro sistemando i carrelli, con la pancia floscia che straripava dagli stessi
pantaloni. La medesima carne macinata rosso fiamma che trasudava sotto la confezione
di plastica chiedeva di essere tramutata in hamburger. Una stragrande quantità
di cibo nocivo ed economico, rozzamente confezionato... Un paradiso per i poveri.
Polli coperti da blocchi di ghiaccio; un rivolo d'acqua sporca da sotto il congelatore
della carne si spandeva sulle mattonelle. Oh, supermarché della mia giovinezza
newyorkese, non sei stato ricostruito come l'Embassy, sei rimasto lo stesso locale
sgradevole e malsano di sempre. Di solito i miei vicini, gli inquilini dell'Embassy,
alcolizzati del welfare state, a quell'ora di notte si facevano strada barcollanti
fra le tue meraviglie da quattro soldi per scegliere uno dei tanti malt liquor
con l'etichetta blu fluorescente. I lidi di Broadway, dalle parti dell'Anzonia
Post Office Station, erano stati invasi da gente benestante, ora c'erano meno
neri... Presto il supermarket sarebbe stato ristrutturato, sterilizzato e i prezzi
sarebbero aumentati... Non trovando il salame, acquistai della carne di maiale
in scatola e una confezione di panini. Adesso avevano anche l'hard liquor! A parte,
in un angoletto chiuso da una gabbia metallica; ci mancava solo che lo proteggessero
con il vetro antiproiettile. Ai miei tempi solo la birra e i micidiali malt liquor
erano sottoposti all'attenzione del consumatore. Mi interrogai di sfuggita sulla
funzione del vetro antiproiettile (forse a causa delle bande di Harlem che facevano
incursione nei supermarket aperti tutta la notte per rubare alcolici? Poco probabile...),
acquistai una bottiglia di porto a buon mercato e, dopo aver sistemato la spesa
nel brown bag, lasciai il supermarket. La notte era sempre più notte.
Pensai ai quaranta interminabili isolati che mi separavano dall'hotel Latham,
respinsi fermamente l'ipotesi di un viaggio in subway in quanto poco allettante,
palpai la bottiglia di porto nel brown bag, accartocciai il sacchetto insieme
ai panini e decisi di organizzare un supper notturno all'aria aperta. Un picnic.
Ma dove? Se non ci si faceva prendere dalla pigrizia e da Broadway si prendeva
la strada per Central Park, ci si poteva sdraiare sull'erba e fare un bel supper
sotto la poetica luna di New York. Come ai vecchi tempi... A questo punto
mi permetto una digressione sul mio rapporto con Central Park. Si capisce, i newyorkesi
hanno paura a girare nel parco di notte (i bianchi non si avventurano quasi mai
nella parte occidentale, che confina con Harlem, neanche di giorno, figuriamoci
di notte...) Però io sono un tipo particolare. Conosco la paura come tutti,
ma ho sempre una voglia matta di trasgredire i divieti. E cerco in tutti i modi
di dimostrare a me stesso e agli altri il mio coraggio. D'altra parte, la prima
volta non è stato il coraggio a spingermi ad attraversare Central Park,
ma una grande stanchezza. Avevo bevuto un bel po' dall'amico Bachéanjan,
sull'East Ottantatreesima e, non avendo più i soldi per l'autobus o la
metro (dopo essere stato da questo amico che frequentavo spesso in quegli anni,
di solito facevo ritorno girando intorno a Central Park, lungo il suo perimetro,
cioè percorrevo l'East in giù fino alla Cinquantanovesima che si
chiama anche Central Park South, svoltavo e proseguivo verso Central Park West,
poi imboccavo Central Park West e andavo in su fino all'Embassy), mi ero detto:
"e perché no?" Mi ero arrampicato sul muro del parco (si poteva
passare anche da una delle entrate che rimanevano sempre aperte, ma avevo preferito
scavalcare il muro come si addiceva a un ladro-delinquente, nel caso che qualcuno
mi avesse visto) e mi ero diretto verso il lato West, avanzando con accanimento
di albero in albero, di cespuglio in cespuglio, senza nascondermi, facendo rumore.
Mi muovevo come si muovono i banditi, gli indigeni, i padroni del territorio.
Continuavo a ripetermi: "Edvard, sei tu il malfattore, una tetra figura nella
notte che passeggia spensierata nel suo territorio. Sei tu l'essere più
terribile della notte, i tuoi scopi sono oscuri o imprevedibili. Dovresti essere
tu a incutere paura..." Un ciclista ritardatario che forse aveva creduto
ai miei scongiuri era sceso spaventato dal marciapiede e, accodandosi ad alcuni
taxi che attraversavano il parco dall'East al West, aveva spinto sui pedali. Forse
c'era veramente da aver paura di uno che era così, come me nel `77. Ero
in crisi, non avevo nulla da perdere, non avevo ancora trovato nulla... Ero diventato
sfrontato e avevo preso l'abitudine di attraversare il Park ogni volta che mi
capitava di tornare dall'Upper East Side o di dirigermi verso l'Upper East Side.
Ogni volta avevo provato una certa paura, ma quel thrill di venti-venticinque
minuti era diventato per me indispensabile. Mentre ripensavo alle mie imprese
passate e sorridevo della mia incoscienza, sbucai davanti al Park all'altezza
della Settantesima. Brown bag in mano, jeans bianchi, stivali, giacca chiara.
Senza guardarmi intorno, senza aspettare il momento propizio, mi diressi verso
la panchina, salii in piedi sul sedile, poi sul bordo dello schienale e da lì
sul muro di cinta di Central Park. E mi buttai giù. Il muro, abbastanza
basso se visto dalla strada, all'interno del parco si estendeva in profondità
per altri due metri. La terra era più lontana di quanto mi aspettassi.
Per fortuna lo strato d'erba su cui atterrai si rivelò pasciuto come la
pancia dell'americano medio. Però si stava bene. La luna. Odori acri
di piante che avevano appena cominciato a marcire, nonostante lo smog misto ai
sentori di benzina che copriva tutti gli altri. Il ballo in maschera degli alberi,
ognuno con la sua ombra profonda e impenetrabile. Mi mossi facendo frusciare l'erba.
Decisi comunque di non addentrarmi troppo nel parco. Rimasi sul territorio conosciuto.
Ai miei tempi, dalla parte della Settantaduesima sedevano gli abitanti della zona
con i loro cani e gli sportivi, pure quelli della zona, che si facevano scherzi
e si dicevano parolacce. Anche noi dell'Embassy bazzicavamo il posto. Erano proprio
i nostri a venire qui con i tamburi e a mettere in piedi concerti notturni di
musica africana. Chi batteva sui tamburi adesso? Erano quelli andati ad abitare
sulle Centocinquantesime, quelli che un tempo erano dei nostri, a venire qui con
i tamburi? Avere i suoni familiari dei familiari tam tam come accompagnamento
al mio supper notturno mi sembrava d'obbligo. "Non avrai mica paura, Edvard?"
mi interrogai mettendomi sotto un pino insolitamente rigoglioso. "Ti sei
elevato nella scala sociale e hai paura dei divertimenti della classe a cui appartenevi,
così ti rannicchi vicino all'uscita?..." Il fusto del pino si
trovava sul pendio di un piccolo colle, mentre la chioma dai rami imponenti, come
un albero a sé stante, pendeva in basso e si spandeva sull'erba a proteggermi
da... per esempio da sguardi oziosi. Assaporando con un respiro profondo l'essenza
di pino, lasciai cadere il brown bag dritto in mezzo all'erba. Preso dal desiderio
di sentire più intensamente l'essenza di pino, spezzai un ramo pungendomi
e, dopo aver sfregato alcuni aghi, li annusai. Che meraviglia! Mi sentii un vero
amante della natura e scoppiai a ridere. Dopo il primo sorso di porto mi sentii
ancora meglio... Ebbi delle difficoltà ad aprire la scatoletta. Tirai
con forza eccessiva l'anello e così venne via solo una parte della buccia
metallica, una piccola fenditura permetteva l'accesso al contenuto. Dovetti togliere
gli aghi dal ramo e cavare i pezzetti appiccicosi della carne di maiale. Era dolce.
Non sono mai stato un buongustaio, ho sempre mangiato con appetito... Le operazioni
di estrarre i pezzettini di carne, di aprire il panino e di masticare mi avevano
stancato, posai la scatola sul brown bag, sorseggiai un po' di porto e appoggiai
la schiena al tronco. Attutito dalla distanza, si udiva lo strombazzare di mandrie
di automobili lontane, le sirene della polizia suonavano meno irritanti del solito,
la pace e la tranquillità della campagna regnavano nella comitiva di piante
dalla chioma arruffata. Attraverso i rami del pino cadevano, sul mio brown bag,
sulla scatoletta di latta deformata e sui panini, gocce di luce lunare. Quando
il vento scuoteva le fronde, le gocce schizzavano più in là, sull'erba...
Naturalmente fui assalito dai ricordi. Compaiono ogni volta che trovo una posizione
comoda, e mi rubano il presente facendolo scomparire. I ricordi scesero su di
me come nuvole rosa, ma invisibili come radiazioni. Col pensiero mi incamminai
verso i tamburi e da lì, attraverso Central Park West, arrivai fino alla
Settantunesima. Là avevo lavorato per alcuni giorni con Leonid Kosogor,
avevo installato un apparecchio radiologico al dottor... il cognome del dottore
era stato inghiottito dal tempo. Dopo l'installazione ci eravamo messi a rivestire
le pareti del gabinetto con delle spesse lastre di piombo... Perché questo
ricordo?... Evidentemente, quella sera la mia memoria era stata così sollecitata
dai metalli che era andata automaticamente a cercare le lastre di piombo. Apparvero
attraverso gli anni le immagini di quelle lastre pesanti, della loro struttura,
dei loro graffi... un martello di legno largo e rotondo si abbassava su una lastra
nera percuotendola con colpi regolari, schiacciandola sulla superficie della parete...
La seconda scelta della memoria cadde su Leonid Kosogor. Kosogor, alto e curvo,
si allacciava il cappotto moscovita imbottito di cascame, camminavamo sulla Settantunesima
in direzione Broadway, destinazione Mac Donald's... Le cavità interne del
Mac Donald's a Broadway: Kosogor, rimasto in camicia, mangiava french fries con
le mani, mi dava del testa di cazzo, affettuosamente... Kosogor si prendeva cura
di me come un padre, e anche per età poteva essere mio padre... Dov'era
il mio amico in quel momento? Ripensai alla caverna di Kosogor nel basement dell'Astorija,
i suoi strumenti... Avrei dovuto telefonargli, era un tipo in gamba... Mandai
giù un sorso di porto... e, piantando la bottiglia nell'erba, vidi, nascosta
tra i rami, una figura eretta che mi copriva la luce della luna. Il terrore
non è la paura al suo massimo grado, è uno stato particolare. Non
è possibile provare terrore in un caffè a Place de la République
a Parigi, quando, durante una discussione che si fa sempre più animata,
il vostro avversario estrae un coltello e vi minaccia. Provare paura è
normale. Il tizio col coltello può fare sul serio e allora vi dà
una coltellata in pancia. Oppure mette via il coltello. Ma intorno ci sono altri
esseri umani, il patron, il padrone del bar, potrebbe immischiarsi, voi non credete
che si deciderà davvero a usare il coltello, e non è da escludere
che riusciate a scagliargli contro un bicchiere o colpirgli una gamba con la sedia.
Non avete voglia di perdere la vostra dignità di uomo, alzate la voce,
lui vi copre di improperi... Se avete paura, siete salvi dal terrore... Un'altra
situazione: c'è la guerra, siete sdraiati insieme agli altri soldati, aspettate
il segnale d'attacco, avete in mano un mitra, la sua solidità vi infonde
coraggio. Se poi, un secondo dopo, una bomba centra in pieno il vostro reggimento,
allora non fate nemmeno in tempo a spaventarvi... Terza situazione: siete stati
fatti prigionieri da una banda, vi chiudono in uno scantinato, incatenati a un
anello di ferro: provate paura (succede raramente, ma capita che gli ostaggi vengano
uccisi), fastidio per i disagi materiali, umiliazione... Ma i vostri rapitori
mascherati vi portano del cibo, potete perfino scambiare qualche parola; in queste
condizioni, quando tutto o quasi tutto è chiaro, non ci può essere
terrore. Per provare terrore, sono necessarie le seguenti condizioni: 1. La pressoché
totale assenza di informazioni sul Pericolo; 2. Una situazione che impedisce di
ricevere informazioni sul Pericolo; 3. Il ‘momento mistico’, vale
a dire l'imprevedibile e illogico comportamento del Pericolo (Bestia, Drago, Mostro,
Frankestein, Mente Malata...) nel suo perseguire uno scopo non umano... Quello
che provavo era precisamente terrore. Lui (il Pericolo) restava in piedi in silenzio
con i suoi pantaloni chiari, la camicia bianca e... un coltello (a che cosa gli
sarà servito tenere un coltello sguainato in mano, qual era il suo obiettivo?).
Grande come quelli che si vedono a teatro, intenzionalmente eloquente come la
falce nelle rappresentazioni della Morte, il coltello ora baluginava sotto la
luce della luna, di una stella o di un lampione lontano, ora si confondeva nel
buio, fino quasi a scomparire. Lui lo teneva vicino al fianco, nella mano sinistra,
con l'altra scostava un ramo. Fermo in quella posizione, mi stava fissando.
Poteva essere un valente uomo d'affari assai burlone sbucato fuori da uno dei
costosi appartamenti-building di Central Park West per una notte di divertimenti
pericolosi (il che era poco probabile...), ma questo non cambiava le cose... Stavo
lì immobile, catatonico, la bottiglia di porto quasi attaccata alla bocca,
all'altezza del petto... Senza dire una parola, teneva fermo il ramo... E
quel coltello... Era un bianco, e in aggiunta, con tutta probabilità,
biondo. Era anche molto probabile che a imbiondirlo fossero i fasci di luce verde
che provenivano dall'erba e dagli alberi. I lineamenti del viso, poiché
la luna gli rimaneva alle spalle, erano per me indistinguibili. Di media statura,
il corpo grasso o che mi sembrava tale a causa della camicia e dei pantaloni abbondanti...
Io, come un coniglio davanti a un boa dalle fauci spalancate, lo osservavo, ipnotizzato.
Solo grazie al fatto che non vedevo i suoi occhi, trovai in me il coraggio per
gridare: "Vud iu laic tu ev e drinc con me?" e tesi verso di lui la
bottiglia che tenevo in mano. Non appena ebbi pronunciato il mio invito mi resi
subito conto che avrei fatto una sciocchezza se gli avessi dato la bottiglia,
l'unica arma che potevo usare contro il suo coltello enorme. Lui lasciò
andare il ramo, si voltò e, con un leggero fruscio d'erba, si inoltrò
nel fitto del parco. Non voleva bere, non mi aveva chiesto di dargli dei money,
apparteneva a una categoria più nobile, più terrificante: quella
degli idealisti della luce lunare. Tipi che non vogliono i vostri soldi e che
non vogliono violentarvi, con tutta probabilità vogliono mangiarvi... Altrimenti
che se ne faceva di un coltello? Un coltello così. Per ammazzare e poi
mangiare. Come me che avevo appena mangiato maiale in gelatina. Proprio sotto
quel pino. Mi sentivo come un coniglio in gabbia che, dopo essere stato osservato
dal padrone, chissà perché non viene scelto per pranzo... Seguendo
con lo sguardo la figura che si allontanava portai la bottiglia alle labbra e
buttai giù quanto potevo di quel liquido dolce e forte. Tentai di ricordare
se avessi mai provato nella mia vita una sensazione simile. Dovetti tornare indietro
fino all'età di nove anni, allo stadio iniziale della coscienza. Durante
un forte e rumoroso temporale avevo intuito di colpo che prima o poi i miei genitori
sarebbero morti e io sarei rimasto solo. La sorte degli uomini si era rivelata
a me, a un bambino, durante quel temporale. Ero scoppiato a piangere, ricordo,
nascondendo la testa nell'armadio del corridoio dove tenevamo vecchie coperte
e cianfrusaglie del tutto o quasi del tutto inutili. E un tuono aveva scosso il
cielo sulla periferia di Char'kov. E mia madre, che stava in cucina, era venuta
a consolarmi. Perché proprio durante quella tempesta ero stato invaso dal
terrore? Ma era un terrore di un genere completamente diverso: il terrore per
il destino umano. Il terrore per la morte futura, e per l'idea della morte in
generale... Dalla Settantaduesima proveniva odore di fumo. Che avessero acceso
un falò? E con la stessa onda d'aria giunse il suono dei tamburi. Presi
la scatola e introdussi un dito nella carne di maiale. La gelatina appiccicosa
rendeva complicata l'operazione di prelievo della carne con il dito. Magari avessi
avuto una forchetta... Dopo averla masticata, inghiottii la carne dolciastra...
Mi pulii le dita sull'erba. Le dita, le annusai, odoravano inaspettatamente...
di pesce. Evidentemente l'erba di settembre unita alla gelatina (bicarbonati?
cloridrati? che c'era lì dentro?) sviluppava un odore di pesce... Central
Park tremolava con tutte le sue profondità, con le macchie scure e chiare,
con tutte le gradazioni di verde, dal verde tenue della lattuga a quello scuro
degli abeti, con tutte le distanze, con tutte le forme geometriche, o meglio,
informità. E tra l'erba soffiava una bava di vento che avvertivo sulle
gambe. Come se da qualche parte ci fossero state porte aperte, come in un grande
appartamento pieno di spifferi, e questo appartamento si estendeva lungo una cinquantina
di strade da nord a sud, e lungo una decina da ovest a est. Soffiava un venticello
così tagliente... Il vento della morte?... Quel tipo, evidentemente, era
pazzo. Perché andava in giro con... quel coltellaccio smisurato, che poteva
andar bene in cucina o come accessorio di scena? Perché lo metteva in mostra
e non lo nascondeva? I teppisti neri o portoricani, per esempio, amano i coltelli
affilati, con la lama che scatta su dal manico. Oppure quelli con la lama a molla
che esce da un lato. I coltelli dei portoricani sono come i portoricani, affilati
ed efficienti. Forse perché anch'io ero mingherlino, provavo simpatia per
i portoricani? Può darsi... Il tizio non era un portoricano, la conformazione
del corpo era diversa. Era un bianco, un tipo con qualche rotella fuori posto,
a cui si erano annodati tutti i fili del cervello. Per caso i fili si erano collegati
in modo anomalo e avevano mandato quel tipo in cortocircuito, così lui
vagabondava nel parco di notte, senza meta, minotauro ungulato, chiuso in sé
stesso. Alcuni fili avevano fatto contatto con altri fili che non c'entravano
niente. Solo questo... Tuttavia... Sentii uno scricchiolio alle spalle. Qualcuno
aveva calpestato un ramo sull'erba, un sacchetto vuoto di... un... La mia schiena
si staccò automaticamente dal tronco del pino. Senza alzarmi, rimanendo
accovacciato, eseguii un'abile rotazione-piroetta, come il principe azzurro nella
favola La bella addormentata nel bosco, e Lo vidi. Adesso era sopra di me, nella
stessa posizione, con una mano scostava un ramo dal viso e con l'altra stringeva
il coltello di scena. I piedi mi si fecero di ghiaccio, sentivo i polpacci bagnarsi
di sudore... Possibile che mi sudassero i polpacci?! Vidi in questo strano fenomeno
biologico l'ultimo avvertimento di un organismo gravato dal compito di autoconservarsi,
immaginai che il mio corpo fosse una macchina sul punto di esplodere: tutte le
lancette di tutti i manometri segnavano rosso, tremavano e si muovevano a scatti.
Bisognava salvare la pelle al più presto. Mi alzai e, raccolta la bottiglia,
senza fretta sgusciai da sotto il pino, calpestando le fronde sull'erba. Sapevo
(la mia schiena percepiva sensibilmente il peso del suo sguardo) che se fossi
corso verso l'uscita, sulla Settantaduesima strada, il tizio con le rotelle fuori
posto mi sarebbe saltato addosso, poiché le sue pupille (o qualsiasi altra
parte dell'occhio usasse per il rilevamento dei dati) avrebbero registrato la
paura sulla mia schiena. E le sue reazioni erano sintonizzate sulla paura. Un
determinato calore, una determinata quantità di paura lo ‘mettevano
in moto’, e allora lui ammazzava, digrignava i denti, estraeva il fegato
e lo divorava, estraeva il cuore e lo divorava... Chissà perché,
ripensai a Capitan Cook che era stato mangiato dopo che si erano convinti che
lui non era Dio. Pensai che forse la vittima predestinata, quando era stata portata
nella caverna del minotauro, aveva provato sensazioni simili a quelle che provavo
io in quel momento: faccia a faccia con una mente malvagia (sconosciuta), circondato
da rocce, pietre e alberi... L'idea dell'uomo che coniglio, gallina, pecora e
mucca hanno è quella di un criminale. Per loro l'Uomo è lo Spirito
del Male. Il minotauro è criminale per l'uomo... Mi inoltrai senza
fretta, con la bottiglia penzoloni in mano, nel fitto del parco. Dove era più
buio e dove intricati sentieri asfaltati conducevano lentamente il viandante,
attraverso un percorso di lunghezza pari a quella di tredici isolati in fila,
sulla Central Park South. Una via piena di hotel costosi e di lunghe limousine.
Mio padre, quando ero piccolo, mi aveva inculcato la regola secondo cui non bisognava
mai scappare davanti a un cane. I tipi con le rotelle-nervi fuori posto dovevano
sottomettersi alle leggi dell'istinto, simili alle leggi dell'istinto dei grossi
cani. Le leggi della caccia. Durante i primi minuti non fu facile. Quando
il suo sguardo, indebolito dalla lontananza, non poté più arrivare
alla mia schiena, coperta da rami, cespugli, persino rocce, spigoli di rocce (Central
Park sorge su un altipiano di basalto. Prima della comparsa dell'uomo fu eroso
dal passaggio di un ghiacciaio), tirai un sospiro di sollievo. Lui non si era
mosso per seguirmi, perché nel suo programma la Meta, la Preda presentava
altre caratteristiche, Lei (Meta, Preda) si dimenava irrequieta, gridava, strillava,
scappava. I miei rumori e movimenti non avevano fatto scattare il suo meccanismo.
Di questo ero convinto. Ero anche convinto che, se mi fossi comportato diversamente,
se la mia paura fosse stata colta dai suoi sensori, a quell'ora avrei potuto essere
sotto quel pino con le dita nella gelatina di maiale, gli uccelli mi avrebbero
saltellato accanto intenti a becchettare i resti dei panini, la bottiglia di porto
sarebbe rotolata sul sentiero asfaltato, il mio sangue purissimo sarebbe stato
assorbito dal terreno e avrebbe incollato l'erba a ciuffetti come la cioccolata
incolla i capelli di un bambino... Avvicinandomi alla Central Park South,
sempre rumorosa e vivace nella notte, avvertii un senso di nausea. Sporgendomi
dal muretto rigurgitai il cibo tossico, il maiale, il porto e i panini irradiati
dallo sguardo della Mente Malata... Esiste una teoria scientifica secondo
la quale tutto è possibile, ma solo in un periodo di tempo rigorosamente
determinato. Se si vuole spiegare l'incidente a Central Park con questa teoria,
risulta che io ho invaso i tempi nuovi con un'azione proveniente dai tempi passati,
e l'incompatibilità dei due tempi per poco non ha provocato la mia distruzione.
Nel 1977 vagabondavo nella New York notturna, emanando un differente campo biologico,
forte e pericoloso. Le forze del mio campo attuale (il campo di uno scrittore
parigino), invece, malgrado il mio coraggio e la mia esperienza, erano a malapena
bastate a respingere la Mente Malata. Nel 1977 il minotauro avrebbe avuto paura
di avvicinarsi. Un minotauro contro un altro minotauro.
Traduzione di Marco Dinelli.
Racconto tratto
dall’antologia I fiori del male russi, a cura di Viktor Erofeev,
Voland editrice, Roma, 2001
Eduard Limonov
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