LA SALA D ’ATTESA


Eugenia Rico

 

Quando ritornò nella sala d’attesa aveva attraversato per sempre la sottile linea che divide l’adolescenza dalla vita adulta. Le sarebbe piaciuto fermare il tempo, invece era stato il tempo a fermare lei. E, tuttavia, quella mattina si era presentata tutta felice alla visita della sua ginecologa. Ricordava ancora la prima volta che le avevano aperto le gambe e le avevano inserito un aggeggio d’acciaio tra le cosce. Una piccola goccia rossa aveva macchiato il telo bianco di carta e tutti si erano impauriti. Ma ormai non aveva più paura. Provava, invece, piacere nel guardare i quadri impressionisti dai colori delicati nella sala d’attesa e nel pensare che a quell’ora avrebbe dovuto redigere un rapporto. Il suo capo, un uomo generoso, aveva insistito in quanto poteva fare senza di lei per una o persino due ore. La salute era più importante della carriera. Neanche lui aveva sospettato di niente.
Vide le riviste che ricoprivano i tavolini e le sedie: “Come dare il biberon a mio figlio? Essere genitori oggi, domani e per sempre.”
Ora le sembrava incredibile aver dubitato tanto, e al tempo stesso trovava terribile il fatto di non provare né amore né timore ma solo una forte eccitazione. Aspettava la notizia della sua gravidanza come avrebbe aspettato il finale di un film di paura, mangiandosi le unghie per il dolore altrui.
Le faceva un po’ male la pancia. Teneva in mano un bicchiere di plastica dal quale, a piccoli sorsi, beveva con solennità e ogni tanto si alzava per andare in bagno a riempirlo di nuovo. Doveva gonfiarsi come un palloncino perché potessero vedere chiaramente attraverso l’oscurità. L’acqua non era il requisito della pulizia ma dell’ecografia.
Avrebbero guardato attraverso di lei e lei sarebbe diventata trasparente, a quel punto avrebbero scoperto che non aveva un cuore solo ma due. Dal quel momento non si sarebbe potuta più tirare indietro. Mentre arrivava alla visita aveva provato lo stimolo di non ascoltare, di non fare domande, di proteggere il suo bambino dagli uomini cattivi dai bianchi camici. Non si spiegava perché temesse che le togliessero il suo bambino. Ora, mentre beveva l’acqua dal bicchiere di plastica, rideva di quelle idee infantili. Anche se continuava a non avere fiducia nei macchinari e nella gente che basava la propria vita su titoli attaccati ad una parete, senza dubbio si stava sbagliando. La cosa importante è che aveva lottato contro se stessa, che aveva vinto e che, ad ogni modo, si trovava lì.
Era andata con la metro. Il vagone era affollato e in un seggiolino c’era un bambino molto piccolo e molto nero. Nell’enorme seggiolino arancione il bambino sembrava ancora più piccolo e i suoi occhi ancora più grandi, tra le persone adulte e corpulente, coperte con voluminosi cappotti. All’altro lato del vagone c’era una donna nera vestita elegantemente. Quando il seggiolino di fronte al bambino si liberò i suoi occhi andavano dalla donna al bambino e dal bambino alla donna. Chiamò la donna perché potesse sedersi vicino al suo bambino. “No, grazie”, rispose con freddezza e in quel momento capì che non era sua madre, per questo aveva gli occhi così grandi e così spalancati. Provò il desiderio di strizzarlo tra le sue braccia, di portarlo con sé, ma si limitò a distendere il cappotto perché le coprisse le ginocchia, e persino il bordo dei suoi stivali. Guardò nuovamente la donna e poi il bambino. E pensò che era stato un errore cercare la somiglianza nel colore della pelle. Mentre lo pensava si rese conto perché le piaceva tanto quel bambino. Le piaceva perché era solo e perché sembrava che nessuno nel vagone si accorgesse di lui. Solo lei. Era così che si era sentita per tutta la sua infanzia. Come se avesse viaggiato da sola in un vagone della metro, con suo padre e sua madre seduti ai due estremi più lontani. Forse era per quello che, fino ad ora, non aveva mai sentito il desiderio di avere un bambino. Ma in quel momento era quasi certo che fosse incinta. Erano già tre ritardi. Avrebbe dovuto fare la prova al primo ritardo ma aveva preferito non dargli importanza. Il secondo mese non l’aveva fatta per superstizione, e, ora, al terzo mese aveva iniziato a preoccuparsi per le attenzioni di cui avrebbe avuto bisogno il suo bambino. Lei era davvero una pessima mamma. Sarebbe dovuta andare dalla ginecologa subito. Ma se lo avesse fatto non avrebbe saputo se fosse valsa la pena andare avanti. Ogni giorno che passava era una vittoria contro se stessa. Perché desiderava e al tempo stesso temeva questo bambino come non aveva mai desiderato né temuto niente al mondo.
Per il bambino si era vestita con tanta cura. Per lui si era messa cappello, guanti, stivali che le facevano male da quanto le stringevano le ginocchia e persino una camiciola di lana. Non sapeva se il freddo faceva male ai bambini non ancora nati. Sentiva che era suo dovere tenerlo al sicuro. In futuro non avrebbe potuto proteggerlo da tutto, ma perlomeno poteva risparmiargli il freddo di quell’interminabile inverno.
Ogni settimana sembrava che l’inverno stesse per finire e che la primavera alla fine sarebbe stata la padrona dei parchi e dei passerotti, ma dopo uno o due giorni di sole, tornava il vento, a volte la pioggia e sempre il freddo.
A lei non piaceva il freddo, e ancora meno le piacevano i cappotti, i guanti e tutte le cose che si collocano tra la pelle e l’aria. Per questo è tanto meravigliosa l’estate, stare vicino al mare mentre la brezza ti secca la pelle. Perché la pelle non esposta all’aria aperta si trasforma in pergamena, si accartoccia e inizia ad invecchiare. Sapeva che il giorno nel quale non avrebbe più potuto mettersi in bikini al sole, nel giorno in cui avrebbe smesso di aspettare l’estate, in quel medesimo giorno tutto sarebbe finito e pian piano, si sarebbe distaccata dalle cose.
Ma oggi, invece, non le interessavano né i cappotti né il freddo, perché non si copriva per proteggere la sua pelle ma quello che aveva ancor più dentro.
Cercava di pensare al suo bambino; di immaginarsi la faccia, la voce o il nome, o almeno il sesso. Chiuse gli occhi e vide solo un cuore che batteva e che bruciava, che batteva e bruciava come a volte brucia il ghiaccio.
Cercava anche di pensare al padre del bambino che ancora non sapeva niente. Che, in realtà, non avrebbe saputo mai niente di lei e che la vita, ancora una volta, lo avrebbe preso alla sprovvista, come era sempre stato, e come sarebbe accaduto nel giorno della sua morte.
Era un peso più leggero da sopportare da sola, come si sopportano i dubbi e le promesse. Un peso leggero che sapeva un po’ della plastica che si era appena frantumata tra i suoi denti. Aveva rotto il bicchiere, l’acqua era traboccata sulle sue cosce e l’infermiera stava accorrendo con un tovagliolo di carta. Anche lei sentiva che stava per esplodere . “Devo aspettare ancora tanto?” Avrebbe avuto bisogno di andare in bagno. “Non può andare al bagno, non ora, butteremo via così tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora.”
Strinse forte le gambe sotto la gonna umida e si chiese se l’acqua sarebbe arrivata fino al bambino, se il bambino l’avrebbe sentita o se avrebbe sentito altre sensazioni. Chissà forse tutti abbiamo avuto altri sensi e li abbiamo dimenticati. Come qualcuno che vedendo tutto in bianco e nero, scoprisse il colore, e poi ritornasse a vedere in bianco e nero, conservando però un vago ricordo che una volta aveva sognato in azzurro.
In questo momento si pentiva di aver avuto tanta paura. Ci fu un tempo in cui avevano tanto desiderato un bambino a tal punto che lei fu per andare dal medico e prendere delle pasticche che l’avrebbero resa fertile come un coniglio. Ma tutte le donne che le prendevano avevano dei gemelli e una sua conoscente che le aveva provate gli aveva parlato di strane nausee dicendogli che non era stata più la stessa. Allora gli sembrava che potesse essere quello che accadeva quando si aspettava un bambino, ossia smettere di essere noi stesse, soprattutto perché esserlo non ha più importanza.
Riempì un’altra volta il bicchiere di plastica con l’acqua piena di cloro che usciva dai rubinetti del lavandino modernista della clinica. Una rivelazione la colpì come il getto dell’acqua. Erano i grandi occhi del negretto della metro. Sentiva che quelli erano gli occhi di suo figlio, che avrebbe avuto un tenero negretto dagli occhi grandi e le manine aperte. Sapeva che era impossibile; né il padre né lei erano negri. Non c’erano africani nella sua famiglia. Ma era la pancia a dirglielo, e la pancia non gli aveva mai mentito. Esistono cose ben più difficili.
Doveva essere questo pensiero, o il picchiettare dell’acqua sullo smalto, o il fatto che si sentiva pronta a scoppiare come un palloncino pieno zeppo d’aria avvelenata. Anche se, sicuramente, tutto era male organizzato, perché per riempire il bicchiere di acqua si doveva andare al lavandino del bagno, che era spalancato come i misteri della vita.
Non si era resa conto di quello che aveva fatto fino a quando non sentì il rumore della cisterna e i colpi dell’infermiera sulla porta.
“Non può, non può; ora dovremo iniziare ancora una volta, dovrà bere tanta acqua fino a riempirsi di nuovo e tutta questa mattina non sarà servita a niente.” L’infermiera usava un tono lamentoso, come se qualcuno se ne fosse andato per non tornare più.
Ebbe voglia di piangere. Le sembrava che, in qualche modo, avesse buttato tutto a mare. Ricordò che una volta, quando aveva cinque anni, si era fatta la pipì addosso mentre era in fila per la ricreazione. In questo momento si sentiva peggio d’allora.
“Basta, non fa niente.” poi disse l’infermiera, che sembrava rammaricata: “Dovrò riorganizzare tutte le visite della mattina. C’è di peggio”.
Proprio così, ci sono cose peggiori. E temette che il bambino non fosse negretto ma malformato. Che fosse anormale, che avesse sette dita, che gli mancasse il fegato o, ancora peggio, che nascesse morto. Aveva paura che il bambino l’avrebbe punita per essere stata tanto ottusa e tanto distratta da buttare via tutta l’acqua che aveva bevuto. “Ho già immaginato il peggio”, pensava. Era un trucco da bambini. Pensava il peggio di quello che poteva accadere e nel pensarlo lo faceva sparire. La cosa brutta era che c’era sempre qualcosa di peggiore. Si immaginava che il neonato crescesse e si trasformasse in un serial killer. Che si alzava nella notte e sgozzava i genitori con la spada che aveva chiesto al Re. Allora beveva un bicchiere dopo l’altro e sperava che le dicessero che non era incinta. Vedeva un mostro dai denti affilati che la mangiava dentro, che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto mettere fuori la testa dalla sua pancia, lasciando sparpagliato una traccia di viscere e di illusioni.
Ma doveva essere così bello tenere in braccio il negretto, assicurarsi che non si sarebbe più sentito né solo né triste, che avrebbe avuto sempre chi gli dava baci e biscotti. Si calmò e cadde in un dormiveglia. Si svegliò pensando che non sapeva come fare il bagno né come cambiare suo figlio, come prendersi cura di lui, come cercargli una scuola e tenerlo al sicuro. L’inverno si era intrufolato nella tiepida sala d’attesa e stava tremando di freddo. Da quanto tempo era in quella sala d’attesa? Da una vita intera o da solo mezz’ora. Sicuramente tanto, perché all’improvviso si aprì la porta di rovere dietro cui si nascondevano tutte le buone notizie e l’infermiera fece entrare solo lei.
Quando ritornò nella sala d’attesa le sembrò di non esserci mai stata. Prima le era sembrata pulita e splendente ora, invece, vedeva chiaramente la polvere che sporcava le pesanti vetrine. Prima si era soffermata sui quadri impressionisti di fiori e bambini e non aveva fatto caso alla riproduzione di Il Grido di Munch che da un angolo presidiava il mondo e la sala d’attesa. Prima le era sembrato di essere sola nella sala mentre ora vedeva due donne, con l’aspetto di avere, anche loro, bisogno di una ripulita dalla polvere, perché sembravano essere state lì da sempre, anche se magari erano appena arrivate.
In quanto a lei, quella era l’ultima volta che calpestava la sala d’attesa. Si sentiva come quel suo amico che aveva preso l’aereo sbagliato e aveva passato due mesi nel deserto mangiando radici invece di passare una settimana in casa di sua nonna a Francoforte. L’avevano ingannata. Le avevano detto che aveva tanto tempo a disposizione e all’improvviso il tempo era finito. Il tempo non aveva importanza e venti anni erano diventati uguali a quaranta, perché tutto era una grande bugia. Era libera dal tempo. Il tempo l’aveva sconfitta ma almeno se ne era liberata per sempre. Aveva attraversato per sempre la sottile linea che separa l’adolescenza dall’età adulta e ormai non sarebbe più tornata ad essere giovane. Cercò di pensare a qualche altra cosa. Qualcosa che fosse reale.
Non ricordava quello che aveva mangiato il giorno avanti. Non poteva ricordare il contenuto della maggior parte dei libri che aveva letto e tanto meno i pasti che aveva ingerito. Gli alimenti erano caduti nel suo stomaco e le parole nella sua mente erano rimaste per poco e poi erano sparite; come se non avesse letto né mangiato niente. Le avevano permesso di arrivare da un giorno all’altro, ma non l’avevano alimentata, non avevano lasciato niente in lei che fosse diverso da sé stessa. E in quel momento quella le sembrò la più triste delle notizie.

“Menopausa precoce”, le aveva detto la ginecologa. “Può accadere a donne di ventinove anni. Lei ha qualche anno in più. Mi dispiace che non ne abbia approfittato. Ma non possiamo farci niente.” Terminò così.
Forse avrebbe dovuto sentirsi vuota, ma era piena di una rabbia che le riempiva il ventre, che la faceva sentire molto strana, come se anche lei fosse appena nata.
Uscì per strada e le piacque il freddo. Si tolse il cappello, i guanti e si aprì il cappotto perchè l’aria le graffiasse la pelle. Il sole d’inverno le fece pensare per un momento che passeggiava in una città straniera. E si sentì come se fosse in vacanza. E da qualche parte, di quella città, c’era il negretto dagli occhi grandi e, in quel momento, desiderò più che mai andarlo a cercare
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(Racconto tratto dall’antologia Que la vida iba en serio. Ed. Martínez Roca, Madrid, 2003)

Eugenia Rico (Oviedo, 1972) ha studiato Diritto e Relazioni Internazionali, prima ad Oviedo poi a Bruxelles e Tolosa. Si è occupata di critica cinematografica nel circolo degli scrittori internazionali, sotto la direzione di Fernando Trueba. Sin dall’infanzia desiderava fare la scrittrice e già all’età di undici anni pubblicò il suo primo racconto sul Diario Región. Ha visitato molte nazioni tra cui l’Argentina e l’India prima di rientrare in Spagna e stabilirsi a Madrid. Ha lavorato come segretaria, modella e fioraia fino a quando nel 2000 il suo primo romanzo Gli amanti tristi viene accolto positivamente dalla critica e tradotto in varie lingue. La sua seconda opera, La morte bianca vince il premio Azorín nel 2002. Scrive numerosi racconti editi su riviste letterarie o raccolti in antologie tematiche. Nel 2004 risulta finalista del Premio Primavera de Novela con il romanzo L’età segreta.


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