TÈ FORTE DI CAVALLO
Alice Walker
Snooks, il figlioletto di Rannie Toomer, stava morendo di polmonite doppia e tosse canina. Lei se ne stava seduta distante da lui, a fissare il debole fuoco con il labbro inferiore penzoloni, tutto coperto di croste. Non era sposata. Non era carina. Non era proprio niente di speciale. E lui era tutto quello che aveva.
“O Signore, perché dottore non venire qui?” disse sofferente, mentre le lacrime le scendevano dagli occhi appiccicosi. Non si lavava da cinque giorni, da quando Snooks si era ammalato, e lunghe strisciate biancastre, come di lumaca, le attraversavano il viso cinereo.
“Tu devi provare qualcuno di vecchi rimedi di casa, ecco cosa” insistette Sarah. Era una sua vicina, una vecchia che portava al collo delle foglie magiche, cucite su pelle d’opossum accanto a una zampa di lucertola essiccata. Di lei la gente diceva che conoscesse l’origine della magia e sapesse praticarla.
“Quello che noi avremo è dottore” disse furiosa Rannie Toomer avvicinandosi al bimbo per scacciargli dalla fronte una grassa mosca sopravvissuta all’inverno. “Io non crede in nessuna di quelle magie da palude. Tutti quei vecchi rimedi di casa che io preso quando bambina per poco non ammazzato me.”
Coperto da una pila di trapunte scolorite, Snooks faceva un piccolo tumulo sul letto. La sua testa sembrava una palla di stucco nero conficcata tra le coperte sottili e il cuscino ingiallito. Gli occhietti erano semiaperti, come se stesse sbirciando per la stanza fredda da sotto il cranio duro ed emaciato, e il forte pulsare del suo respiro produceva un lieve fruscio contro le lenzuola vicino alla bocca, come quello che fa il vento quando sospinge giornali bagnati nelle acque basse di un fosso.
“A che ora tu pensa arrivare qui dottore?” chiese Sarah, senza aspettarsi che Rannie Toomer le rispondesse. Era seduta, con le gambe aperte sotto uno strato di grembiuli e sottane lunghe e scure, tutte ricoperte di macchie. Di tanto in tanto con le dita lunghe e screpolate allontanava l’orlo umido delle sottane dai carboni ardenti. Era quasi primavera, ma lei si sentiva ancora nelle ossa il freddo dell’inverno e per scaldarsi doveva mettersi a sedere quasi dentro il camino. Gli occhi profondi e penetranti, incastonati nella pelle ruvida e spessa del viso, invecchiando si erano fatti di un blu umido e incerto che rendeva il suo sguardo rapido e freddo, come quello di un falco. Adesso fissava impassibile Rannie Toomer e picchiettava col bastone sulle lastre di pietra del camino.
“Postino bianco, dottore bianco” ritmava scettica, sottovoce, come per scacciare gli spiriti.
“Loro deve venire vedere questo bambino,” disse Rannie Toomer in preda all’ansia. “Chi può non importare di bimbo piccolo e malato come mio Snooks?”
“Gente che noi non conoscere così bene come noi pensare di potere,” rispose la vecchia. “Quello che tu bisogno di dare quel tuo bambino è uno o due di vecchi rimedi di casa, ecco cosa; maranta, o sassafrasso e chiodi di garofano, oppure punta di fazzoletto imbevuto di acqua, zucchero e sangue di gatto.”
Il viso di Rannie Toomer si irrigidì.
“Noi non bisogno di tuoi rimedi di strega” gridò, afferrando il bambino per la punta dei piedi avvolti nelle coperte, massaggiandolo come per infondergli la vita, con gli stessi gesti con cui, lavorandola, riusciva a dare elasticità alla pasta.
“Faremo dare noi qualcuna di quelle punture che tutto in una volta fa guarire persone, che cura loro da tutti i loro mali, ripulisce loro e fa diventare loro forti.”
Se ne stava lì, ai piedi del figlio, e parlava con il viso rivolto verso l’alto, come se lui fosse un altare. “Tra poco dottore sarà qui, piccolo mio” gli sussurrò. Poi si alzò per guardare fuori dalla finestra sporca. “Io mandato postino”. Strofinò il viso contro il vetro, il suo naso schiacciato ancora più schiacciato mentre guardava fuori nella pioggia.
“Come andiamo, Rannie Mae”, le si era rivolto con gentilezza il postino dalla faccia rossa, come faceva ogni volta che lei gli si piantava accanto alla macchina in attesa di potergli domandare qualche cosa. Di solito voleva chiedergli che cosa fossero certi volantini che sopra avevano belle fotografie di cose che le servivano. Quei volantini volevano forse dire che poi sarebbe venuto qualcuno a portarle cappelli e valigie e scarpe e maglioni e disinfettante e una stufa per la casa e un cappellino di pelo per il suo bambino? Oppure, perché lui continuava sempre a portarle le foto se lei non poteva avere quello che c’era sopra? O ancora, che cosa volevano dire le scritte…specialmente la scritta grande in rosso: “S-A-L-D-I”?
In due parole lui le spiegava che l’unico modo in cui poteva procurarsi i prodotti fotografati sui volantini era andare in città a comprarli, e che i negozi della città si facevano pubblicità mandando alla gente fotografie dei prodotti che vendevano. Lei ascoltava e restava a bocca aperta finché lui non aveva finito. Poi, sorpresa e intontita, esclamava che lei non ce li aveva mai i soldi, e che lui lo poteva chiedere a chiunque. Non avrebbe mai potuto comprare nessuna delle cose che erano in quelle foto, lei – e allora perché i negozi continuavano a mandargliele?
Lui provava a spiegarle che i volantini li ricevevano tutti, sia che i soldi per comprare ce li avessero oppure no. Che questa era una delle leggi della pubblicità, e che lui non ci poteva fare niente. Era sicuro che non avesse mai capito quello che cercava di insegnarle sulla pubblicità, perché un giorno gli chiese tutti i volantini in più che aveva, e quando lui le domandò a che cosa le servissero – visto che non si poteva permettere di acquistare nessuno degli articoli che reclamizzavano – lei gli rispose che le servivano a rivestire le pareti interne della casa, per non far entrare il vento.
Oggi sembrava più ignorante del solito, pensò il postino quando gli ficcò in macchina la testa grondante di pioggia. Il suo alito lo fece ritrarre e lui prestò ben poca attenzione a quello che gli stava dicendo del suo bambino malato, impegnato com’era ad asciugare l’acqua che gli faceva gocciolare in macchina, sulla maniglia di plastica della portiera. “Eh sì, non ci si riesce proprio a farli stare abbastanza asciutti, voglio dire caldi, quando piove così,” mormorò distrattamente, schiaffandole in mano un pacco di volantini che pubblicizzavano asciugacapelli e creme per il viso. Non desiderava altro che si allontanasse dalla macchina e lo lasciasse libero di andarsene. Ma lei continuava a restargli lì attaccata, a blaterare di “Snooks”, e di “POLMO-nite” e di “punture” e di quanto avesse bisogno di un “dottore VERO”.
“Sul serio?” interveniva lui di tanto in tanto in tono comprensivo, e di tanto in tanto starnutiva, perché gli stava facendo entrare tutta l’umidità della pioggia, e a lui sembrava di aver già preso il raffreddore. I neri, soprattutto quelli neri come Rannie Mae, lo facevano sempre sentire a disagio, specialmente quando non avevano un buon odore, e ci se ne accorgeva subito che non l’avevano. Rannie Mae, che gli stava sopra, con la testa dentro la macchina per ripararsi dalla pioggia, aveva lo stesso odore di una capra bagnata. Quegli occhi scuri e sporchi, che gli teneva incollati alla faccia, così consumati dalla disperazione, lo rendevano nervoso. Perché la gente di colore vuole sempre che tu faccia qualcosa per loro?
Subito si schiarì la voce e, piegandosi in avanti, fece per tirare su il finestrino. “Oh, mi dispiace davvero per quel ragazzino,” disse, mentre con le mani cercava la manovella del finestrino. “Vedremo che possiamo fare!”. Le rivolse quello che sperava fosse un sorriso grande e amichevole. Dio, non voleva certo ferire i suoi sentimenti! Faceva così pena lì ferma sotto la pioggia. All’improvviso gli venne un’idea.
“Perché non prova qualcuno dei vecchi rimedi casalinghi di zia Sarah?” le suggerì pieno di entusiasmo, ancora col sorriso sulle labbra. Come chiunque altro nella contea, anche lui era quasi portato a credere che la vecchia nera dagli occhi blu possedesse la magia. Una magia che, se non riusciva ad avere effetto sui bianchi, probabilmente l’avrebbe avuto sui neri. Ma per poco Rannie Mae non gli ribaltò la macchina, e un vigoroso “NO!” la scosse tutta, dalla testa ai piedi. Infilò in macchina una mano bagnata e incrostata e gli afferrò la spalla.
“Noi volere dottore, dottore vero!” urlò. Aveva cominciato a piangere e le sue lacrime gli cadevano addosso. “Tu portare noi dottore da città” sbraitò, scuotendogli la spalla robusta che gli sporgeva dal cappotto nuovo di tweed.
“Come ho detto,” disse lui balbettando e strascicando le parole, sebbene cominciasse ad essere furioso con lei, “faremo quello che possiamo!”. Si affrettò a tirar su il finestrino e ripartì a tutta velocità, rabbrividendo al pensiero che gli avesse messo le mani addosso.
“Vecchi rimedi casalinghi! Vecchi rimedi casalinghi!” Rannie Toomer maledì quelle parole, mentre con la lingua raccoglieva le lacrime calde che le scorrevano lungo il viso, il solo calore che avesse. Tornò indietro verso il viottolo che portava a casa sua, calpestando i volantini bagnati sotto i suoi piedi. Passò sotto lo steccato e si ritrovò in un pascolo, circondata dalle tante mucche grasse dei bianchi, da un vecchio cavallo grigio e da uno o due muli. Lì nel pascolo tutt’intorno alla sua casa vivevano gli animali, e nella casa vivevano lei e Snooks.
Fu meno di un’ora dopo aver parlato con il postino che, in attesa del dottore, alzò la testa e vide la vecchia Sarah avanzare pesante nell’erba, appoggiata al bastone. Con il fumo che usciva dal comignolo non poteva far finta di non essere in casa, così la fece entrare, costringendola a lasciare la borsa con le sue diavolerie sotto il portico di fronte all’ingresso.
Donna vecchia come quella dovrebbe smettere di provare curare altre persone con sua magia di negra… dovrebbe usare un po’ di quella su se stessa, pensò. Non le avrebbe fatto toccare Snooks nemmeno con un dito e l’avvisò che se ci avesse provato le avrebbe dato in testa il suo bastone.
“Lui venendo, va bene?” disse sicura Rannie Toomer, scrutando, sforzandosi gli occhi per vedere attraverso la pioggia.
“Lascia me dire te, figliola” disse la vecchia quasi con gentilezza, “lui non venire”. Stava sorseggiando qualcosa di caldo da un piatto. Quando l’avrebbe capito quella lì, si domandò, che poteva contare solo su quelli che venivano davvero.
“Ma io detto te”, disse Rannie Toomer esasperata, come se stesse spiegando qualcosa a una bambina ritardata. “Io chiesto postino portare dottore per mio Snooks!”
Dalle fessure nel telaio della finestra un vento freddo soffiava forte tutt’intorno a lei, volantini sbiaditi volavano via dalle pareti. La tetra predizione della vecchia la fece tremare.
“Lui andato chiamare dottore,” disse Sarah, strofinando il piatto con la mano. “Che cosa tu credere che portato me fin qui con questo diluvio? Certo non desiderio di vedere arcobaleno, questo io può dire te”.
Rannie Toomer impallidì.
“Io è dottore, figliola.” Sarah guardò Rannie Toomer con i suoi occhi saggi e impassibili. “Con tuo messaggio postino non andato oltre di strada davanti a mia casa. Fortuna che avuto buoni polmoni – zorda come io è, io messo tempo a provare di capire che cosa lui stare urlando.”
Rannie cominciò a piangere, gemendo.
Dal letto improvvisamente il respiro di Snooks parve coprire il rumore dell’acquazzone proveniente dall’esterno. E Rannie Toomer sentì che il battito del suo cuoricino faceva tremare la casa intera.
“Ecco,” gridò afferrando il bambino e passandolo a Sarah. “Fare lui stare bene. Oh Signoremio, fare lui stare bene!”
Sarah si alzò dal suo posto accanto al fuoco e prese il piccolo, che intorno alla bocca e agli occhi stava già diventando bluastro.
“Noi non disturbare questo ragazzino nutilmente,” disse, rimettendo il bambino sul letto. Delicata cominciò a esaminarlo, continuando per tutto il tempo a mugolare e a canticchiare una lieve melodia pagana che per la sua forza malinconica riusciva a imporsi sul rumore del vento e della pioggia. Lo spogliò di tutti i vestiti, gli picchiettò con un dito le piccole costole sfibrate, gli soffiò sul petto. Lungo la minuta schiena floscia fece scorrere le sue vecchie dita molli. Il bambino restava immerso in un sonno rauco e profondo, e gli occhietti vitrei non si aprivano del tutto né del tutto si chiudevano.
Rannie Toomer si dondolava sopra il letto mentre guardava la vecchia toccare il bambino. Pensava al tempo che aveva sprecato ad aspettare il dottore vero. Il suo senso di colpa era una pietra.
“Io fare qualunque cosa tu dice me di fare, zia Sarah”, esclamò, asciugandosi il naso con il vestito. “Qualunque cosa. Ma, ti prego Dio, fare lui stare meglio.”
Zia Sarah rivestì il bambino e si mise a sedere di fronte al fuoco. Per un po’ rimase assorta nei suoi pensieri. Rannie Toomer fissò prima il volto silenzioso di lei, poi il bambino, il cui respiro sembrava essersi calmato un po’ da quando Sarah l’aveva preso in braccio.
Sarah, tu fare qualcosa presto, la incitava col pensiero, desiderosa di credere totalmente nei suoi poteri. Tu fare qualcosa che fa lui alzare e chiamare la sua mamma!
“Bambino sta morendo”, disse bruscamente Sarah, mettendo in chiaro in anticipo che esisteva un limite alla sua arte. “Ma potere essere ancora qualcosa che noi può fare”.
“Cosa, zia Sarah, cosa?” Rannie Toomer era in ginocchio davanti alla sedia su cui sedeva la vecchia, e si torceva le mani e piangeva. Fissò gli occhi colmi di ansia sulle labbra di Sarah.
“Che cosa io può fare?” la incalzò con forza, nell’udire il respiro debole e difficoltoso che proveniva dal letto.
“Occorrerà stomaco forte,” disse Sarah lentamente. “Stomaco davvero forte. E oggi giorno, questo maggior parte di voi giovani non avere.”
“Snooks ha stomaco forte” disse Rannie Toomer, guardando angosciata il volto vecchio e serio.
“Non lui deve avere stomaco forte” disse Sarah, guardando in basso verso Rannie Toomer. “Tu deve avere stomaco forte, ecco chi… lui non sapere cosa lui bere.”
Rannie Toomer cominciò a tremare fin giù nel profondo del suo stomaco. Era debole sul serio, pensò. Se tremava a quel modo. Ma che cosa intendeva far bere al suo Snooks? Non sangue di gatto! E non uno di quegli intrugli con dentro ali di pipistrello che, a quanto aveva sentito, Sarah preparava per i malati di testa.
“Che cosa è?” mormorò, accostando la testa al ginocchio di Sarah. Sarah si chinò e le appoggiò all’orecchio la bocca sdentata.
“Unica cosa che potere salvare questo bambino essere buon tè forte di cavallo,” disse, tenendo gli occhi fissi sul viso della ragazza. “Unica cosa. E se tu volere lui fuori di quel letto, tu fare meglio andare subito a prendere un po’.”
Rannie Toomer prese con sé il cappotto bagnato e, attraversato il portico, andò nel pascolo. Le gocce di pioggia le cadevano sul viso con la forza di piccoli chicchi di grandine. Cominciò a camminare in direzione degli alberi, dove riusciva a scorgere le grosse sagome chiare delle mucche. Le sue scarpe di plastica leggera venivano risucchiate dal fango, ma lei si spingeva avanti in cerca della solitaria giumenta grigia.
Tutti gli animali si mossero e ruotarono i loro occhi grandi e scuri verso Rannie Toomer. Lei cercò di fare meno rumore possibile e, appoggiata a un albero, si mise ad aspettare.
Un tuono risalì il cielo con lo stesso fragore delle gomme di un grosso autocarro che percorra una strada sterrata e accidentata. Poi restò sospeso nel cielo una frazione di secondo prima di esplodere come un gigantesco petardo, per rotolare via di nuovo come un barile vuoto. Un fulmine rigò il cielo, sbiancando l’aria e caricandola di elettricità.
Bagnata fradicia, Rannie Toomer se ne stava lì, in piedi sotto il suo albero, ad augurarsi di non essere colpita. Teneva gli occhi fissi sul di dietro della giumenta grigia che, dopo circa un’ora, cominciò a divaricare con disinvoltura le zampe infangate.
In quel momento Rannie Toomer si rese conto di non aver portato niente per raccogliere il prezioso tè. Un fulmine colpì qualcosa poco lontano da lì e il crepitio e lo scricchiolio che produsse nel bosco fecero uscire gli animali dai loro ripari. Rannie Toomer scivolò nel fango mentre cercava di togliersi una delle scarpe di plastica per raccogliervi il tè. E la giumenta grigia, facendone scendere un po’, prese a dirigersi verso un gruppo di cedri diversi metri più in là.
Rannie Toomer era abbastanza vicina per raccogliere il tè se, correndo, riusciva a tener dietro alla giumenta. Così, a tratti trattenendo il respiro e a tratti cercando di riprender fiato, si mise a inseguirla. Il fango con cui si era sporcata cadendo le era rimasto attaccato ai gomiti e le attraversava in lunghe striature i capelli crespi. Inciampando e scivolando nel fango, correva dietro alla giumenta con la scarpa di plastica protesa, come se stesse chiedendo l’elemosina.
Nella casa, Sarah, tutta avvolta nei suoi maglioni e nei suoi scialli, se ne stava seduta a fregarsi le ginocchia e a borbottare sotto voce. Sentì il tuono, vide il fulmine illuminare la stanza tetra e girò il viso verso il letto, in attesa. Si avvicinò zoppicando sulle gambe rigide e non sentì alcun suono; il debole respiro era cessato con il tuono, per non riprendere mai più.
Nel pascolo inondato di fango, Rannie Toomer procedeva barcollando, allungando la scarpa di plastica perché la giumenta grigia la riempisse. In spruzzi e schizzi, mescolato all’acqua della pioggia, raccolse il suo tè. Mentre si stava allontanando, la vecchia giumenta sbuffò, sollevò la grossa zampa e, colpendola, la fece cadere di nuovo nel fango. Tremante e in lacrime, si rialzò, con in mano la scarpa, senza versarne una sola goccia dall’apertura in alto, ma accorgendosi di una perdita, una piccola fessura sulla punta della scarpa. Svelta ci mise la bocca, proprio lì, sulla fessura, e affondando fino alle caviglie nel viscido fango del pascolo, quasi congelata in quel suo cappotto logoro e bagnato, corse a casa per dare a Snooks, il suo bambino, il tè forte di cavallo ancora caldo.
(Titolo originale “Strong Horse Tea”, racconto tratto dalla raccolta In Love & Trouble. Traduzione dall’Inglese di Federica Merani)
Alice Walker è nata a Eatonton [Georgia] nel 1944. Ha trascorso l'infanzia in un villaggio di neri nel profondo Sud rurale. Ha ottenuto poi una borsa di studio per l'università di Atlanta e si è impegnata nella battaglia dei diritti civili. Nel 1964 tentò di ritrovare una patria spirituale in Africa, ma ha poi ripreso l'attività politica e sociale a Jackson [Mississippi]. Ha rievocato la sua battaglia per i diritti civili negli anni ' 60 in Meridian (1976). Ha scritto: Petunie rivoluzionarie e altre poesie (Revolutionary petunians and other poems, 1973), il romanzo La terza vita di Grange Copeland (The third life of Grange Copeland, 1973), i racconti In amore e in guai : racconti di donne nere (In love and trouble: stories of black women, 1973). Il suo credo di womanist, femminista nera, per la quale le donne della sua razza sono «le autentiche eroine d'America», si esprime anche negli eccellenti racconti di Non potete sottomettere una vera donna (You can't keep a good woman down, 1981). Nel romanzo Il colore viola (The color purple, 1981) con cui ha vinto il premio Pulitzer e che gli ha dato una vasta notorietà, ha elaborato un linguaggio altamente musicale, da lei definito «inglese nero popolare» (black folk english).
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