TRADURRE
LETTERATURA
Susan Sontag
La
traduzione letteraria è un ramo della letteratura: un compito
tutt'altro che meccanico. Ma ciò che la rende un'impresa
tanto complessa è la varietà di esigenze cui essa
risponde. Vi sono esigenze che derivano dalla natura della letteratura
in quanto forma di comunicazione. Esiste il mandato a rendere
note al più ampio pubblico possibile le opere ritenute
essenziali. C'è la difficoltà di passare da una
lingua all'altra. E c'è la particolare impervietà
di certi testi: esiste, infatti, qualcosa di inerente all'opera
e del tutto estraneo alle intenzioni o alla consapevolezza dell'autore,
una caratteristica che emerge nel momento in cui ha inizio il
ciclo delle traduzioni e che, in mancanza di un termine migliore,
chiamiamo traducibilità.
Questo intricato groviglio di questioni viene spesso ridotto all'eterno
dibattito tra i traduttori - il dibattito sulla letteralità
- che risale perlomeno all'antica Roma, quando la letteratura
greca venne tradotta in latino, e che continua (improntato da
una varietà di tradizioni e pregiudizi nazionali) a coinvolgere
i traduttori d'ogni paese. Il più antico tema di discussione
sulle traduzioni riguarda il ruolo dell'accuratezza e della fedeltà.
Ci saranno sicuramente stati nel mondo antico traduttori che si
attenevano al principio della rigorosa fedeltà letterale
(e al diavolo l'eufonia!), assumendo una posizione simile a quella
difesa con folgorante caparbietà da Vladimir Nabokov nella
sua "anglicizzazione" dell'Evgenij Onegin. Sarebbero
altrimenti inspiegabili le coraggiose posizioni di San Gerolamo
(ca. 331-420) - l'intellettuale del mondo antico che (adattando
argomentazioni introdotte da Cicerone) ha riflettuto in modo più
esaustivo, in prefazioni e lettere, sul compito della traduzione
- secondo il quale il tentativo di riprodurre fedelmente le parole
e le immagini di un autore ha come risultato inevitabile il sacrificio
del significato e dell'eleganza.
Il passo che segue è tratto dalla prefazione che Gerolamo
scrisse alla sua traduzione in latino della Cronaca di
Eusebio. (La tradusse nel 381-82 d.C. a Costantinopoli, dove risiedeva
in modo da prendere parte al Concilio - sei anni prima di trasferirsi
a Betlemme, per approfondire la conoscenza dell'ebraico, e quasi
dieci anni prima di dare inizio a quell'impresa epocale che fu
la traduzione della Bibbia ebraica in latino.) Scrive Gerolamo:
"Era
antica abitudine degli uomini eloquenti tradurre libri greci in
latino per esercitare il proprio intelletto e, quel che in sé
ha ancora maggior difficoltà, trasferire dall'una all'altra
lingua i versi di autori illustri, perché vi si aggiungeva
il vincolo del metro. Pertanto anche il nostro Tullio tradusse
parola per parola interi libri di Platone e, avendo già
pubblicato la traduzione latina di Arato in esametri, si diverti
con l'Economico di Senofonte: in questo lavoro quel fiume
dorato di eloquenza è spesso ostacolato da qualche asperità
che lo intorbida, al punto che, chi ignorasse che si tratta di
una traduzione, non la crederebbe opera di Cicerone. È
difficile che uno che segue linee tracciate da altri non se ne
allontani in qualche punto, ed è raro che quanto è
detto bene in una lingua conservi la stessa bellezza in una traduzione.
Un concetto è stato espresso ricorrendo a un solo termine:
non ne ho uno mio con cui renderlo e, nel tentativo di esprimerne
pienamente il senso, compio a fatica con un lungo giro un breve
tratto di strada. Ci sono inoltre le tortuosità degli iperbati,
le differenze dei casi, la varietà delle figure e, da ultimo,
per così dire, le caratteristiche peculiari della lingua:
se traduco alla lettera ne esce un suono assurdo, se, per necessità,
cambio qualcosa nella costruzione e nel linguaggio, sembrerà
che io sia venuto meno al mio compito di traduttore."
Ciò
che più colpisce, in questo passo in cui Gerolamo giustifica
il proprio operato, è la preoccupazione che i lettori comprendano
quanto sia scoraggiante il compito del traduttore. Quello che
leggiamo in traduzione, dichiara più avanti Gerolamo nella
stessa prefazione, è necessariamente un impoverimento rispetto
all'originale.
E se a qualcuno non pare che la grazia di una lingua risulti alterata
da una traduzione, renda alla lettera Omero in latino e - dirò
di più - lo renda in prosa nella sua lingua originaria:
vedrà che la costruzione risulta ridicola e che il più
eloquente dei poeti riesce appena a parlare.
Qual è il modo migliore per affrontare tale intrinseca
impossibilità del tradurre? Gerolamo non ha alcun dubbio
sul modo in cui procedere, come egli stesso spiega a più
riprese nelle prefazioni alle sue traduzioni. In una lettera indirizzata
a Pammachio, scritta nel 395 d.C., egli cita come maestro Cicerone,
il quale aveva dichiarato che il miglior modo di tradurre consiste
nel riproporre
[...]
le stesse frasi e le loro figure di parole e di idee con vocaboli
consoni ai nostri usi. Non ho giudicato necessario rendere parola
per parola, ma di tutte le parole ho conservato il valore e l'espressività...
Più
avanti nella stessa lettera - dobbiamo presumere che molti fossero
i critici e i cavillatori - scrive: "non solo ammetto, ma
proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le
Sacre Scritture, dove anche l'ordine delle parole è un
mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il
senso". E, citando Evagrio, dichiara provocatoriamente: "La
traduzione letterale di una lingua in un'altra nasconde il senso".
Se ciò fa del traduttore un coautore del libro, poco male.
"La verità è," scrive Gerolamo nella prefazione
a Eusebio, "che ho adempiuto in parte al compito del traduttore
e in parte a quello dello scrittore."
La questione, anche rispetto alle riflessioni a noi contemporanee,
non potrebbe essere esposta con maggiore audacia o pertinenza.
Fino a che punto un traduttore è autorizzato ad adattare
- vale a dire, a ricreare - il testo nella lingua in cui lo traduce?
Se la fedeltà parola per parola e l'eccellenza letteraria
sono incompatibili nella lingua di arrivo, quanto può essere
"libera" una traduzione coscienziosa? Il primo compito
dei traduttore è forse quello di cancellare l'estraneità
di un testo, per riformularlo secondo le norme della nuova lingua?
Non esiste traduttore serio che non si ponga tali problemi: come
il balletto classico, la traduzione letteraria è un'attività
guidata da modelli irrealistici, vale a dire da modelli tanto
rigorosi che generano fatalmente in chi vi si dedica con maggiore
ambizione un certo inappagamento, o la sensazione di non essere
quasi mai all'altezza. E, al pari del balletto classico, la traduzione
letteraria è un'arte di repertorio. Le opere ritenute più
importanti vengono regolarmente ritradotte: perché la resa
appare ormai troppo libera, o non sufficientemente accurata; perché
si pensa che le vecchie traduzioni contengano troppi errori; o
perché la lingua, che all'epoca sembrava trasparente, ora
appare datata.
I ballerini si esercitano nello sforzo di raggiungere l'obiettivo
non del tutto chimerico della perfezione: un'espressività
esemplare e priva di errori. Nel caso della traduzione letteraria,
invece, considerati i molteplici obblighi cui essa deve rispondere,
la resa può essere eccellente, ma mai perfetta. La traduzione
comporta sempre, e per definizione, una perdita della sostanza
originale. Tutte le traduzioni si rivelano, prima o poi, imperfette,
e alla fine, anche nel caso delle rese più esemplari, finiscono
per essere considerate provvisorie.
(Brano
tratto dal libro Tradurre letteratura, Archinto editrice,
Milano, 2004. Traduzione di Paolo Dilonardo)
Susan Sontag
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