L'INVENZIONE DEL PASSATO
- un brano del romanzo -
John
Banville
(...) Mi sono alzato dal divano e sono tornato in camera da letto,
dove ho scoperto con sorpresa di aver già preparato una
valigia. Dovevo averlo fatto nel cuore della notte, quand'ero
ancora ubriaco. Non me ne ricordavo affatto. Ricordavo di aver
telefonato alla compagnia aerea e di essere rimasto sorpreso nel
sentirmi rispondere non da una segreteria automatica ma da una
voce umana ben sveglia e vivace in modo irritante - non riesco
ad abituarmi al fatto che nel mondo le notti siano sempre più
brevi -, ma dopo c'era stato unicamente il confuso e appena ronzante
vuoto del sonno successivo alla sbornia. Forse non era tutta colpa
del bourbon; forse la mia testa stava proprio partendo. Come si
fa a cogliere l'insidiarsi della senilità se ciò
che viene compromesso è proprio la capacità di avvertire
le cose? Esistono degli intervalli di tregua, dei
lampi di terribile lucidità tra i vaneggiamenti, dei momenti
di sconvolgente presa di coscienza davanti allo specchio, durante
i quali si strabuzzano gli occhi per l'orrore di fronte al lembo
anteriore della camicia cosparso di gocce, alla patta dei pantaloni
macchiata di urina? Probabilmente no. Probabilmente scivolerò
del tutto inconsapevole nella senilità. L'inizio di un'età
giunta all'estremo, così come lo sto sperimentando, è
un graduale processo di accumulazione, un lento depositarsi di
una morbida sostanza grigia, come la polvere di una casa trascurata,
sotto la quale si stanno smussando i bordi un tempo aguzzi di
me stesso. E c'è anche un processo inverso, in base al
quale le cose diventano rigide e inamovibili, le feci si trasformano
in lingotti di ferro rovente, le giunture si essiccano fino a
sfregarsi tra loro come pietre pomici, le unghie delle dita dei
piedi si fanno dure come corno. E le cose del mondo esterno, gli
oggetti che dovrebbero essere inanimati, prendono parte attiva
alla cospirazione ordita ai miei danni. Metto le cose nel posto
sbagliato, perdo gli oggetti, i miei occhiali, il libro che stavo
leggendo un attimo prima, il portapillole d'argento di Mamma Vander
riscattato dal banco dei pegni - quel ninnolo c'è ancora
- che ho conservato come un talismano per più di mezzo
secolo, ma adesso sembra sparito, caduto in una crepa del tempo.
Gli oggetti mi cascano addosso da alti scaffali, i mobili si piazzano
proprio sul mio cammino. Mi taglio ripetutamente con il rasoio,
il coltello da frutta, le forbici; non passa settimana che io
al mattino non mi ritrovi chino sul lavabo a cercare di aprire
un cerotto coi denti mentre il sangue che fuoriesce da un dito
tagliato sgocciola con scioccante concretezza sulla porcellana.
Queste disavventure non sono di tipo diverso rispetto a prima?
Sono sempre stato maldestro io, persino negli anni più
efficienti, quelli della gioventù, ma mi chiedo se adesso
questa mia goffaggine possa essere qualcosa di nuovo, non solo
una scarsa abilità fisica ma una radicale forma di discontinuità,
la manifestazione esteriore di sviste e chiusure finali che si
stanno verificando nella profondità del mio cervello. Le
cose più piccole costituiscono sempre l'avvertimento più
sicuro, se solo ci si fa caso. Il primo segno che ho colto della
malattia di Magda è stata la sua improvvisa passione per
ogni tipo di cibo per bambini, popcorn, patatine fritte, caramelle
morbide, sorbetti, lecca-lecca da un centesimo. (...)
(Brano
tratto dal romanzo L'invenzione del passato, Guanda, 2003,
Parma)
John Banville
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