STUDIO
5, LE STELLE
James
G. Ballard
Durante
l'estate ogni sera a Vermilion Sands le folli poesie della mia
bella vicina vagavano attraverso il deserto sino a me da 'Studio
5, Le Stelle', frante matasse di nastro colorato che si sdipanavano
nella sabbia come fili d'una smembrata ragnatela. Tutta la notte
svolazzavano attorno ai contrafforti sotto la terrazza intrecciandosi
alle ringhiere della balconata, e al mattino, prima che le togliessi
di mezzo, penzolavano sulla facciata meridionale della villa come
una vivida buganvillea rosso ciliegia.
Una volta, dopo essermi trattenuto tre giorni a Red Beach, al
mio ritorno trovai l'intera terrazza ricolma d'una enorme nube
di veline colorate che irruppero dalle portefinestre non appena
le aprii e si spinsero in soggiorno, sparpagliandosi su mobili
e scaffali come i viticci delicati d'una immensa ma garbata pianta.
Per giorni interi, dopo, trovai frammenti di poesie dappertutto.
Diverse volte reclamai, percorrendo a piedi i neppur trecento
metri di dune per consegnare una lettera di protesta, ma nessuno
rispose mai alle mie scampanellate. Avevo visto la mia vicina
una volta sola, il giorno che era giunta guidando lungo Le Stelle
una enorme El Dorado decappottabile, la lunga chioma fluttuante
come l'acconciatura di una dea. S'era dileguata in un barbaglio
fulmineo, lasciandomi l'immagine fugace di due occhi inattesi
in un volto niveo.
Mai mi fu dato di capire perché ricusasse di rispondere
al campanello, ma notai che ogniqualvolta mi recavo a Studio 5
il cielo era pieno di mante della sabbia volteggianti e stridenti
come afflitti pipistrelli. L'ultima volta, mentre sostavo dinanzi
alla porta d'ingresso in vetro nero dilettandomi a scampanellare
a più non posso, una manta gigantesca piombò dal
cielo abbattendosi ai miei piedi.
Ma quella, come più tardi compresi, era la folle stagione
di Vermilion Sands, quando Tony Sapphire udì cantare una
manta della sabbia, e io vidi il dio Pan passarmi davanti in Cadillac.
Chi fosse Aurora Day, ora me lo domando spesso. Attraversando
velocemente il placido cielo fuori stagione come una cometa estiva,
pare abbia assunto un ruolo diverso per ciascuno di noi della
comunità lungo Le Stelle. Per me, all'inizio, fu una magnifica
nevrotica travestita da femme fatale, ma Raymond Mayo vide in
lei una delle madonne esplosive di Salvador Dalí, un enigma
tranquillamente capace di scampare all'apocalisse. Per Tony Sapphire
e il resto dei suoi spasimanti balneari fu la reincarnazione di
Astarte, una figlia del tempo dagli occhi di diamante vecchia
di trenta secoli.
Ricordo distintamente come trovai la prima delle sue poesie. Dopo
cena una sera riposavo in terrazza - non facevo quasi altro a
Vermilion Sands - quando notai sulla sabbia una stella filante
proprio sotto la ringhiera. A pochi metri ce n'erano parecchie
altre, e per mezz'ora le osservai farsi sospingere dal vento lievemente
fra le dune. Sul viale di Studio 5 brillavano i fari di un'auto,
e ne dedussi che la villa, rimasta vuota per diversi mesi, aveva
un nuovo inquilino.
Spinto infine dalla curiosità scavalcai la ringhiera, saltai
giù sulla sabbia e raccolsi uno dei nastri di rosea carta
velina. Era un frammento d'una novantina di centimetri, della
consistenza di un petalo di rosa, talmente leggero che cominciò
a sfaldarsi e dissolversi fra le mie dita.
Sollevandolo lessi: ... PARAGONARTI A UN GIORNO D'ESTATE, SEI
PIÚ LEGGIADRA...
Lo lasciai svolazzare via nel buio sotto la balconata. Poi mi
chinai e ne raccolsi delicatamente un altro dispiegandolo. Recava
stampato nel medesimo elaborato carattere neoclassico: ... VOLGI
LA CHIGLIA AI FRANGENTI. AVANZA SU QUEL MARE DIVINO...
Volsi lo sguardo dietro di me. La luce sul deserto era ormai svanita,
e a trecento metri scarsi la villa della vicina era illuminata
come una spettrale corona. Le vene di quarzo superficiali sulle
scogliere di sabbia lungo Le Stelle s'increspavano come collane
nei fari sciabolanti delle auto dirette a Red Beach.
Diedi un'altra occhiata al nastro.
Shakespeare ed Ezra Pound? Che gusti bizzarri aveva la mia vicina.
Venendo meno la curiosità, risalii sulla terrazza.
I
giorni successivi le stelle filanti continuarono a svolazzare
sulle dune; chissà perché cominciavano sempre di
sera, quando le luci del traffico illuminavano gli spezzoni di
garza colorata. Comunque le notavo appena: all'epoca dirigevo
l'edizione di Onda IX, una rivista di poesia d'avanguardia,
e lo studio era pieno di autonastri e vecchie bozze non impaginate.
E poi non mi sorprendeva in modo particolare scoprire di avere
per vicina una poetessa. Quasi tutti gli studi lungo Le Stelle
sono occupati da pittori e poeti... in maggioranza astrusi e improduttivi.
Molti di noi soffrivano in vario grado di stanchezza da spiaggia,
malessere cronico che esilia la vittima in un limbo d'incessanti
bagni di sole, occhiali scuri e terrazze pomeridiane.
In seguito, tuttavia, le stelle filanti raminghe sulla sabbia
divennero abbastanza fastidiose. Non sortendo alcun esito i reclami
scritti, mi recai alla villa della mia vicina intenzionato a incontrarla
di persona. In tale circostanza, dopo che una manta moribonda
precipitò dal cielo rischiando di trafiggermi nell'ultima
convulsione, mi resi conto di avere poche speranze di prendere
contatto con quella donna.
Sul viale un autista gobbo dal piede equino e la faccia storta
da vecchio fauno stava pulendo la Cadillac rosso ciliegia. Avvicinatomi
gli indicai le strisce di carta velina che penzolavano dalle finestre
del primo piano e cadevano nel deserto sottostante.
"Quei nastri m'invadono la villa" gli dissi. "La
sua padrona deve aver lasciato un apparecchio VT in sequenza aperta."
Lui mi scrutò attraverso l'ampio cofano della El Dorado,
sedette al posto di guida e prese dal cruscotto un piccolo flauto.
Mentre aggiravo la macchina alla sua volta si diede a suonare
certi accordi acuti, irritanti. Attesi che finisse, quindi a voce
più alta domandai: "Le spiacerebbe dirle di chiudere
le finestre?"
Le labbra strette al flauto con piglio imbronciato, mi ignorò.
Mi chinai, e stavo per gridargli all'orecchio quando una raffica
di vento vorticò sopra una duna appena oltre il viale e
in un battibaleno turbinò sulla ghiaia sollevando un minuscolo
tornado di polvere e cenere. La tromba d'aria in miniatura ci
avvolse completamente, accecandomi gli occhi e riempiendomi la
bocca di sabbia. Riparandomi il volto con le braccia mi allontanai
per il viale mentre le lunghe stelle filanti mi sferzavano attorno.
Repentinamente com'era iniziata la bufera scomparve. Il polverone
si placò e svanì, lasciando l'aria immobile com'era
pochi secondi prima. Mi accorsi di essere indietreggiato d'una
trentina di metri lungo il viale, e mi resi conto con stupore
che Cadillac e autista s'erano dileguati, sebbene la porta del
garage fosse ancora aperta.
La testa mi rintronava stranamente, mi sentivo irritabile e a
corto di fiato. Stavo per riavvicinarmi alla casa, in collera
per non esservi stato ammesso venendo invece costretto a subire
inerme l'odiosa aggressione della tempesta di polvere, allorché
udii di nuovo risuonare in aria il fievole zufolante ritornello.
Sommesso ma chiaro e stranamente minaccioso mi cantava nelle orecchie,
gli strati sonori si susseguivano quasi circondandomi. Guardandomi
attorno per individuarne l'origine notai la polvere agitarsi sulla
superficie delle dune su entrambi i lati del viale.
Senza attendere oltre, volsi i tacchi facendo ritorno in gran
fretta alla mia villa.
Furibondo
con me stesso per essermi fatto abbindolare a quel modo, e decisissimo
ad avanzare un reclamo ufficiale, percorsi innanzitutto la terrazza
in lungo e in largo raccogliendo dalla prima all'ultima le strisce
di carta velina per poi lasciarle nello scarico dei rifiuti. Scesi
quindi di sotto e recisi le aggrovigliate masse di stelle filanti.
Lessi a caso, frettolosamente, qualche nastro. Su tutti quanti
erano stampati gli stessi frammenti bizzarri, intere frasi di
Shakespeare, Wordsworth, Keats e Eliot. L'apparecchio VT della
mia vicina sembrava avere un serio difetto di memoria, e invece
di produrre varianti di un modello classico la testina selettrice
si limitava a ripetere pedissequamente inutile versioni del modello
stesso. Per un attimo pensai seriamente di telefonare alla filiale
IBM di Red Beach per chiedere l'intervento di un riparatore.
Quella
sera, comunque, riuscii finalmente a parlare di persona con la
mia vicina.
Mi ero coricato verso le undici, e circa un'ora dopo qualcosa
mi svegliò. Una fulgida luna toccava l'apogeo, navigando
dietro filacce di nubi verdechiaro che gettavano una luce fioca
sul deserto e Le Stelle. Uscito sulla veranda notai all'istante
un bagliore curiosamente luminescente spostarsi fra le dune. Al
pari della strana musica che avevo udito sgorgare dal flauto dell'autista
il chiarore sembrava privo d'una origine precisa, ma immaginai
fosse generato dalla luce lunare che filtrava entro un angusto
varco tra le nubi.
Poi la vidi, comparsa un attimo in mezzo alle dune, passeggiare
sulla sabbia di mezzanotte. Indossava una lunga veste bianca che
le fluttuava dietro, sul cui sfondo la chioma turchina si librava
libera nel vento come la coda a ventaglio di un uccello del paradiso.
Stelle filanti le ondeggiavano tra i piedi, e sopra di lei due
o tre mante purpuree volteggiavano incessantemente. Continuava
a camminare apparentemente ignara della loro presenza; dietro
di lei un'unica luce brillava a una finestra del piano superiore
della sua villa.
Allacciandomi la cintola della vestaglia mi appoggiai a un pilastro
e la osservai in silenzio, perdonandole per il momento le stelle
filanti e l'autista screanzato. Di tanto in tanto scompariva dietro
una duna adombrata di verde, col capo leggermente sollevato, procedendo
dal viale in direzione delle scogliere di sabbia sul bordo del
lago fossile.
Si
trovava a un centinaio di metri dalla scogliera più vicina,
una lunga galleria capovolta di argini sinuosi e grotte sospese,
quando qualcosa nel percorso rettilineo e nell'andatura regolare
e immutabile mi indusse a chiedermi se non potesse in realtà
essere sonnambula.
Osservando le mante che le volteggiavano sul capo ebbi una breve
esitazione, poi scavalcai la ringhiera e corsi sulla sabbia verso
di lei.
Le scaglie di quarzo mi pungevano i piedi nudi, ma riuscii a raggiungerla
proprio mentre si avvicinava al ciglio della scogliera. Rallentai
il passo affiancandola e le toccai il gomito.
Meno di un metro sopra la mia testa le mante sibilavano e vorticavano
nel buio. La strana luminosità che avevo creduto provenisse
dalla Luna sembrava invece emanare dalla veste bianca di lei.
La mia vicina non era sonnambula come avevo pensato, bensì
profondamente immersa in una fantasticheria o in un sogno. Occhi
neri dallo sguardo opaco fissi innanzi, volto sottile dalla pelle
candida immoto e inespressivo come una maschera di marmo. Si volse
a guardarmi senza vedermi, facendomi con una mano cenno di andarmene.
All'improvviso si fermò e chinò gli occhi a terra,
acquisendo repentinamente coscienza di sé e della sua passeggiata
notturna. Gli occhi le si schiarirono e vide la voragine della
scogliera di sabbia. Indietreggiò d'istinto, mentre la
luce irradiata dall'abito s'intensificava per lo sgomento.
Sopra di noi le mante s'innalzarono vertiginosamente. descrivendo
archi più ampi adesso che lei era sveglia.
"Spiacente di averla spaventata" mi scusai. "Ma
si stava avvicinando troppo alla scogliera."
Si ritrasse da me inarcando le lunghe sopracciglia nere.
"Come?" balbettò incerta. "Lei chi è?"
Poi fra sé, quasi a completare il sogno, mormorò
sommessamente: "Dio mio, Paride, scegli me, non Minerva..."
S'interruppe e mi rivolse uno sguardo feroce contraendo corrucciata
le labbra di carminio. Mentre le mante oscillavano come pendoli
sopra di lei nell'aria cupa si allontanò quindi sulla sabbia
a grandi passi portandosi via la pozza di luce ambrata.
Aspettai che giungesse alla villa e me ne andai. Guardando a terra
notai luccicare qualcosa nella piccola depressione formata da
una delle sue impronte. Chinatomi raccolsi una minuscola gemma,
un diamante di un carato dal taglio perfetto, poi ne vidi un altro
nell'orma successiva. Affrettandomi ad avanzare raccolsi una mezza
dozzina di gemme, e mi apprestavo a chiamare la sua figura in
procinto di scomparire allorché mi sentii in mano qualcosa
di umido.
Il cavo del palmo ove avevo racchiuso i diamanti traboccava ora
di gelida rugiada.
Il
giorno dopo scoprii chi era.
Stavo seduto al bar dopo colazione quando vidi la El Dorado svoltare
nel viale. L'autista dal piede equino balzò giù
dall'auto e con quella sua curiosa andatura dondolante si diresse
zoppicando all'ingresso. Nella mano inguantata di nero recava
una busta rosa. Lo lasciai attendere qualche minuto, poi aprii
la lettera sulla soglia mentre lui tornava in macchina e sedeva
ad aspettarmi col motore acceso.
Mi
spiace di essere stata così scortese ieri sera. Lei
ha fatto irruzione nel mio sogno e mi ha spaventata. Potrei
fare ammenda offrendole un cocktail? Il mio autista verrà
a prenderla a mezzogiorno.
AURORA
DAY
Guardai
l'orologio. Cinque a mezzogiorno. Cinque minuti, probabilmente,
per darmi il tempo di riprendermi.
L'autista scrutava il volante, apparentemente indifferente alla
mia reazione. Lasciando la porta aperta entrai e indossai la giacca
da spiaggia. Uscendo infilai in tasca una bozza di stampa di Onda
IX.
Giusto il tempo di salire a bordo e l'autista sospinse il grosso
automezzo giù per il viale.
"Quanto vi tratterrete a Vermilion Sands?" domandai,
rivolto alla ghirlanda di riccioli color ruggine fra il berretto
a visiera e il colletto nero.
Non rispose. Mentre percorrevamo Le Stelle si immise d'un tratto
sulla corsia opposta e con uno scatto bruciante scagliò
la Cadillac a tremenda velocità per sorpassare un'auto
che ci precedeva. Ritrovata la calma tornai a porre la domanda
e attesi inutilmente risposta, poi gli battei vivacemente sulla
spalla rivestita di sargia nera.
"Ma è sordo o semplicemente maleducato?"
Distogliendo un attimo gli occhi dalla strada si voltò
a guardarmi. Ebbi una fuggevole impressione di pupille rossovivo,
occhi triviali che mi fissarono con un misto di disprezzo e aperta
ferocia. Dall'angolo della bocca gli scaturì all'improvviso
un torrente schiamazzante di violente imprecazioni, una breve
raffica di oscenità che mi rispedì sul sedile.
Quando
giungemmo a Studio 5 balzò fuori e mi apri lo sportello,
invitandomi con un cenno a salire i gradini di marmo nero come
un ragno usciere che facesse entrare una mosca piccolissima in
una ragnatela particolarmente grande.
Quando ebbi varcata la soglia parve scomparire. Percorsi l'atrio
garbatamente illuminato in direzione di una vasca interna ove
zampillava una fontana e carpe bianche nuotavano instancabili
in cerchio. Di là da essa, in soggiorno, scorsi la mia
vicina distesa su una sdraio: la veste bianca le si dispiegava
attorno come un ventaglio, adorna di gemme scintillanti alla luce
della fontana.
Mentre sedevo mi scrutò incuriosita, posando un sottile
volume rilegato in pelle di vitello gialla che aveva tutta l'aria
di un libro di poesie in edizione fuori commercio. Sparpagliato
sul pavimento accanto a lei giaceva un assortimento di altri volumi,
in molti dei quali riconobbi raccolte e antologie stampate di
recente.
Notai un po' di colorate stelle filanti sbucare fra le tende alla
finestra, e guardandomi attorno per vedere dove tenesse il T mi
versai un cocktail dal tavolinetto basso fra di noi.
"Legge molta poesia?" domandai indicando i volumi che
l'attorniavano.
Annui. "Tutta quella che riesco a sopportare."
Risi. "La capisco. Io invece debbo sorbirmene più
di quanto vorrei." Tolsi di tasca la copia di Onda IX
e gliela porsi. "Le è mai capitata tra le mani?"
Diede un'occhiata al frontespizio con aria imbronciata e altezzosa.
Mi chiesi perché mai si fosse presa la briga d'invitarmi.
"Sì. Orrenda, vero?" Poi: "Paul Ransom"
notò. "È lei? Dirige lei la rivista? Interessante."
Lo disse con un'inflessione particolare, quasi stesse decidendo
come regolarsi. Per un attimo mi osservò con aria meditabonda.
La sua personalità sembrava completamente dissociata, la
percezione che aveva di me mutava bruscamente di livello, come
variazioni luminose in un film malfatto. Tuttavia, nonostante
l'impassibilità di quel volto simile a una maschera, avvertii
un risveglio d'interesse.
"Bene,
mi parli del suo lavoro. Deve saperla lunga su quel che non va
nella poesia moderna. Come mai è tutta quanta così
brutta?"
Mi strinsi nelle spalle. "Immagino che sia soprattutto un
problema d'ispirazione. Anni fa ne scrissi anch'io un bel po',
ma l'impulso svanì non appena potei permettermi un apparecchio
VT. Onde padroneggiare il suo mezzo espressivo un poeta doveva
fare non pochi sacrifici, ai vecchi tempi. Oggi che l'abilità
tecnica è semplicemente questione di premere un pulsante,
di scegliere metro, rime e assonanze su un quadrante, non c'è
più bisogno di sacrificarsi e neppure necessità
d'inventarsi un ideale che giustifichi il sacrificio..."
M'interruppi. Mi osservava con aria straordinariamente vigile,
quasi come se si apprestasse a ingoiarmi.
Prendendola in contropiede dichiarai: "Ho letto anche molte
delle sue poesie. Mi scusi se glielo dico, ma ritengo ci sia qualcosa
che non va nel suo Versitrascrittore."
Si aggrondò di colpo e distolse irritata lo sguardo dalla
mia persona. "Lungi da me il possedere una di quelle macchine
abominevoli. Santo cielo, pensa forse che io ne farei uso?"
"Allora da dove vengono i nastri?" obiettai. "Le
stelle filanti che ogni sera vagano nel vento. Sono ricoperte
di frammenti poetici."
Non avrei potuto essere più perplesso. A quanto ricordavo,
gran parte delle poesie presenti sui nastri erano state già
scritte. Alzò gli occhi e mi rivolse un sorriso smagliante.
"Gliene manderò qualcuna."
Le
prime giunsero la mattina successiva. Mi furono consegnate dall'autista
in Cadillac rosa, nitidamente stampate su pergamena in quarto
legata con nastro floreale. Quasi tutte le poesie proposte alla
rivista mi giungevano per posta su nastri perforati da calcolatore
arrotolati come biglietti per distributori automatici, ed era
indubbiamente piacevole ricevere manoscritti tanto eleganti.
Le poesie, di contro, si rivelarono oltremodo brutte. Sei in tutto:
due sonetti petrarcheschi, un'ode e tre composizioni più
lunghe in versi sciolti. Tutte scritte nel medesimo tono aggressivo,
minaccioso e oscuro a un tempo come i sibillini vaneggiamenti
di una strega pazza. Il loro significato era nel complesso stranamente
inquietante, non tanto per il contenuto in sé quanto in
relazione alla mente squilibrata che le aveva ideate. Aurora Day
viveva evidentemente in un mondo tutto suo e lo prendeva estremamente
sul serio. Giunsi alla conclusione che si trattava di una ricca
nevrotica in grado di abbandonarsi senza remore alle proprie fantasie
personali.
Sfogliai le pagine, annusando l'aroma di muschio che ne esalava.
Donde aveva esumato quello stile bizzarro, quei manierismi arcaici,
quel 'sorgete, veggenti terreni, temprando all'ingiuria del tempo
l'acciaro di voti veraci'? Mischiate ad alcune metafore si coglievano
curiose eco miltoniane e virgiliane. Un tono che tutto sommato
mi ricordava più che altro la sacerdotessa che nell'Eneide
erompe in roventi monologhi ogni volta che Enea si siede un attimo
a riposare.
Mi stavo ancora chiedendo cosa esattamente farne di quelle poesie
- la mattina dopo, nove in punto, l'autista aveva consegnato una
seconda mandata - quando passò Tony Sapphire per aiutarmi
a comporre il nuovo numero della rivista. Trascorreva gran parte
del tempo nella sua villetta sulla spiaggia a Laguna Ponente dedicandosi
alla programmazione di un romanzo automatico, ma ogni settimana
dedicava un giorno o due a Onda IX.
Arrivò che stavo controllando le successioni di rime interne
in una raccolta di sonetti IBM di Xero Paris. Mentre sovrapponevo
il diagramma di codifica ai sonetti verificando la configurazione
delle rime, lui prese i rosei fogli in quarto su cui erano stampate
le poesie di Aurora.
"Che profumo delizioso" commentò, sventolando
i fogli in aria. "Bel sistema per ingraziarsi un direttore."
Cominciò a leggere la prima poesia, poi accigliato la posò.
"Straordinaria. Sarebbero?"
"Non ne sono del tutto sicuro" ammisi. "Echi in
un giardino di pietra."
Tony lesse la firma in calce ai fogli. "Aurora Day. Una nuova
abbonata, immagino. Probabilmente pensa che Onda IX sia
il VT Times. Ma che vuoi dire 'né salmi, né
inni, né vacuo inventario per celebrare la regina della
notte'?" Scosse il capo. "Allora, si può sapere
che roba è?"
Gli sorrisi. Come moltissimi altri scrittori e poeti aveva passato
tanto di quel tempo seduto davanti al suo apparecchio VT da dimenticare
che in passato la poesia veniva realizzata a mano.
"Sono poesie... in un certo senso, ovviamente."
"Vuoi dire che le ha scritte da sé?"
Annuii. "Proprio così. Un metodo rimasto in voga per
venti o trenta secoli, a dire il vero. Utilizzato da Shakespeare,
Milton, Keats e Shelley... un tempo funzionava piuttosto bene."
"Ma non al giorno d'oggi" replicò Tony. "Non
da quando è entrato in uso l'apparato T. Come si può
competere con un elaboratore analogico logomatico IBM ad alte
prestazioni? Guarda qua, santo cielo. Sembra T.S. Eliot. Non è
una cosa seria."
"Forse hai ragione. Può darsi che la ragazza mi stia
prendendo in giro."
"Ragazza? Probabilmente ha sessant'anni e sbevazza l'acqua
di colonia. Che tristezza. Magari secondo una loro folle logica
potrebbero anche significare qualcosa."
"Su, al lavoro" gli dissi. Stavo montando uno dei pastiche
satirici di Rupert Brooke realizzati da Xero e mancavano sei versi.
Porsi a Tony il nastro originale e lui lo inserì nell'IBM,
regolò il metro, lo schema delle rime, le coppie verbali,
poi accese. aspettò che il nastro spuntasse frusciando
dalla testina di uscita, strappò sei versi e me li diede.
Non ebbi nemmeno bisogno di leggerli.
Lavorammo
sodo un paio d'ore. Al crepuscolo avevamo completato oltre mille
versi e ci interrompemmo per una meritata bevuta. Uscimmo in terrazza
e sedemmo nella quieta luce serotina a guardare i colori stemperarsi
sul deserto, ad ascoltare le strida delle mante della sabbia nell'oscurità
che avvolgeva la villa di Aurora.
"Cosa sono tutte queste stelle filanti sparse qui in giro?"
domandò Tony. Ne trasse una a sé, afferrò
le volute mentre gli si sfaldavano in mano e le poggiò
sul piano in vetro del tavolo.
"... né inni, né vacuo inventario..."
Lesse il verso, poi lasciò andare la carta velina abbandonandola
ai capricci del vento.
Attraverso le dune ammantate d'ombra volse lo sguardo su Studio
5. L'unica luce come al solito accesa in una delle stanze al piano
superiore illuminava i nastri che si sdipanavano sulla sabbia
nel muoversi verso di noi.
Tony annui. "Dunque abita là." Raccolse un'altra
stella filante che attorcigliatasi alla ringhiera gli fluttuava
accanto al gomito. "Non c'è che dire, vecchio mio,
sei letteralmente sotto assedio."
Proprio
così. I giorni seguenti dovetti subire un incessante bombardamento
di poesie ancor più oscure e bizzarre, sempre in due rate:
la prima ogni mattina scodellata dall'autista alle nove in punto,
la seconda alla sera quando il vento del crepuscolo cominciava
a portarmi le stelle filanti. I brani di Shakespeare e Pound erano
terminati, e le strisce recavano adesso frammentarie versioni
delle poesie consegnate al mattino, quasi ne rappresentassero
stesure provvisorie. Esaminando attentamente i nastri mi resi
conto che, come affermato da Aurora Day, non erano prodotti da
un apparecchio VT . Erano troppo delicati per essere transitati
attraverso le bobine e le camme ad alta velocità di un
meccanismo guidato dal computer, e quanto recavano scritto non
risultava stampato bensì impresso con un sistema che non
riuscivo a identificare.
Ogni giorno leggevo le ultime novità e le riponevo accuratamente
nel cassetto centrale della scrivania. Infine, quando ebbi raccolto
la produzione di una settimana, la infilai in una busta indirizzata
ad 'Aurora Day, Studio 5, Le Stelle, Vermilion Sands', e vergai
una cortese lettera di rifiuto in cui sostenevo che in definitiva
lei si sarebbe sentita più soddisfatta se i suoi lavori
fossero apparsi su un'altra delle tante riviste di poesia.
Quella notte feci il primo di una serie di sogni estremamente
sgradevoli.
Preparandomi
un caffè forte la mattina dopo attesi appannato che mi
si schiarisse la mente. Uscii in terrazza, chiedendomi cosa fosse
stato a scatenare l'incubo feroce che mi aveva tormentato tutta
la notte. Erano anni che non sognavo affatto: uno degli aspetti
positivi della stanchezza da spiaggia è un sonno profondo
e senza sogni, e l'improvvisa irruzione di una notte prepotentemente
onirica m'induceva a domandarmi se Aurora Day, e in particolare
le sue pazzesche poesie, non stessero cominciando a logorarmi
la mente più di quanto mi rendessi conto.
L'emicrania impiegò molto a placarsi. Rimasi disteso a
osservare villa Day con le finestre chiuse, le serrande abbassate,
i tendoni ripiegati, come una corolla rinserrata. Ma insomma,
m'interrogavo, chi era costei, e cosa voleva veramente?
Cinque minuti dopo vidi la Cadillac uscire dal viale e percorrere
Le Stelle alla mia volta.
Un'altra consegna no! Quella donna era instancabile. Attesi all'ingresso,
incontrai l'autista a metà scale e ne ricevetti una busta
sigillata con la ceralacca.
"Ascolti" gli dissi in tono confidenziale. "Non
vorrei scoraggiare un talento emergente, ma ritengo che lei farebbe
bene a esercitare tutto l'ascendente che ha sulla sua padrona
e, diciamo pure, in senso lato..." Lasciando l'idea in sospeso
aggiunsi: "A proposito, tutte quelle stelle filanti che continuano
a svolazzare fin qui stanno diventando una grossa seccatura."
L'autista mi scrutò con quei suoi occhi volpini cerchiati
di rosso, la faccia adunca contorta in un sogghigno mostruoso.
Scuotendo mestamente il capo tornò zoppicando alla macchina.
Mentre ripartiva aprii la busta. Dentro c'era un foglio solo.
Signor
Ransom,
mi sorprende che lei abbia rifiutato le mie poesie. Le consiglio
seriamente di tornare sui suoi passi. Non sottovaluti la situazione.
Mi aspetto di vedere le poesie pubblicate sul prossimo numero.
AURORA
DAY
Quella
notte feci un altro sogno pazzesco.
La silloge successiva giunse che ero ancora a letto, intento a
un delicato tentativo di recupero di un po' d'equilibrio psichico.
Abbandonato il giaciglio mi preparai un abbondante Martini. ignorando
la busta che sbucava sotto la porta come la punta di una lancia
di carta.
Rimessomi in sesto l'aprii ed esaminai le tre brevi poesie ivi
contenute.
Erano orrende. Mi domandai vagamente in qual modo convincere Aurora
che le mancava l'indispensabile talento. Col Martini in una mano
e scrutando le poesie che stringevo nell'altra uscii lentamente
in terrazza e mi abbandonai su una sedia.
Schizzai su con un grugnito e il bicchiere mi sfuggi rovinosamente
di mano. Mi ero seduto su qualcosa di grosso e spugnoso. le dimensioni
di un cuscino ma contorni irregolari e ossuti.
Chinando lo sguardo vidi un'enorme manta della sabbia giacere
morta nel bel mezzo della sedia con l'aculeo dalla punta bianca,
ancora attivo, sporgente di quasi tre centimetri dalla guaina
sopra la cresta cranica.
Digrignando i denti inferocito andai difilato nello studio e schiaffai
le tre poesie dentro una busta con un prestampato di rifiuto su
cui scarabocchiai: 'Spiacente, assolutamente inadatte. La prego
di rivolgersi ad altre pubblicazioni.'
Mezz'ora dopo andai in macchina a Vermilion Sands e spedii personalmente.
Al ritorno mi sentivo tranquillamente soddisfatto di me stesso.
Nel pomeriggio mi germogliò sulla guancia destra un colossale
foruncolo.
Tony Sapphire e Raymond Mayo mi fecero visita la mattina seguente
per condolersi. Mi ritenevano entrambi testardo e pignolo.
"Pubblicane una" mi consigliò Tony sedendosi
ai piedi del letto.
"Il diavolo mi porti se lo farò" replicai. lo
sguardo teso a varcare il deserto per inchiodarsi su Studio 5.
Si muoveva di tanto in tanto una finestra rimandandomi un raggio
di sole, ma a parte questo nessun segno della mia vicina.
Tony scrollò le spalle. "Non devi far altro che accettarne
una e si accontenterà."
"Proprio sicuro?" obiettai, poco incline all'ottimismo.
"Potrebbe essere solo l'inizio. Può anche darsi che
abbia una decina di poemi epici in fondo alla valigia, per quel
che ne sappiamo."
Raymond Mayo venne accanto a me davanti alla finestra, inforcò
gli occhiali scuri ed esaminò la villa. Notai che appariva
ancora più azzimato del solito, coi capelli scuri lisciati
all'indietro e il profilo armonizzato per ottenere il massimo
effetto.
"L'ho vista ieri sera allo psico i" disse meditabondo.
"Aveva un palco privato al mezzanino. Assolutamente straordinaria.
Hanno dovuto interrompere lo spettacolo due volte." Annui
fra sé. "Ha qualcosa d'informe e d'inespresso che
mi ricorda la 'Venere cosmogonica' di Dalí. Mi ha fatto
riflettere a quanto in effetti le donne siano assolutamente terrificanti.
Fossi in te farei tutto quel che mi chiede."
Irrigidii le mascelle per quanto possibile e scossi caparbio la
testa. "Andatevene. Voi scrittori state sempre a disprezzare
i direttori di riviste, ma quando le cose si mettono male siete
i primi a calare le brache. So bene io come gestire una situazione
del genere, tutta la mia preparazione e il mio autocontrollo mi
suggeriscono istintivamente cosa fare. Quella pazza nevrotica
sta tentando di stregarmi. Crede che basti scatenarmi addosso
qualche flagello a base di incubi, mante morte e foruncoli per
indurmi a rinnegare la mia coscienza."
Scuotendo tristemente il capo dinanzi a tanta ostinazione, Tony
e Raymond mi lasciarono solo con me stesso.
Misteriosamente com'era comparso, due ore dopo il foruncolo s'era
riassorbito. Stavo cominciando a chiedermene il motivo allorché
un furgoncino scoperto della Graphis Press di Vermilion Sands
mi consegnò le cinquecento copie di saggio del nuovo numero
di Onda IX.
Portai le scatole in soggiorno e strappai l'involucro, pensando
soddisfatto alla pretesa di Aurora Day di vedere ospitate le sue
poesie su questo numero. Non si era resa conto che avendo licenziato
le ultime pagine due giorni prima non avrei potuto pubblicare
tali poesie nemmeno volendo.
Sfogliai sino alla pagina dell'editoriale, un'altra delle mie
indagini sul malessere affliggente la poesia contemporanea. ma
invece della solita mezza dozzina di paragrafi in corpo 10 quale
non fu il mio sbalordimento nel trovare una sola riga in corpo
24 che proclamava in corsivo maiuscolo:
INVITO
ALLA GRANDEZZA!
Trafitto,
scoccai un'occhiata fulminea alla copertina per accertarmi che
la Graphis mi avesse mandato le copie della rivista giusta, poi
diedi una rapida scorsa alle pagine.
Riconobbi immediatamente la prima poesia. L'avevo respinta appena
due giorni innanzi. Anche le successive tre le avevo già
viste e rifiutate, poi una sequela che mi giungeva nuova: tutte
firmate 'Aurora Day', avevano preso il posto delle poesie da me
approvate in bozza impaginata.
L'intero numero era stato contraffatto! Non si era salvata neppure
una delle poesie originali, e l'impaginazione risultava completamente
alterata. Aprii una decina di copie. Tutte identiche.
Dieci minuti dopo avevo portato le tre scatole all'inceneritore,
rovesciato il contenuto all'interno, inzuppato le copie di benzina,
e gettato un fiammifero al centro della pira. Contemporaneamente,
a qualche chilometro di distanza la Graphis Press stava facendo
lo stesso col resto della tiratura di cinquemila copie. Non furono
in grado di spiegare da dove fosse scaturito l'errore. Trovarono
l'originale, interamente dattiloscritto su carta da lettere di
Aurora ma con annotazioni redazionali di mio pugno! Il mio originale,
invece, era scomparso, e di lì a poco negarono di averlo
mai ricevuto.
Mentre le fiamme palpitavano alte nella calda luce solare, attraverso
il denso fumo scuro mi parve di vedere fervere un'improvvisa attività
nella casa della mia vicina. Sotto i tendoni si spalancavano le
finestre, e la sagoma gobba dell'autista arrancava sulla terrazza.
Ritta sul tetto, la veste bianca ondeggiante attorno a sé
come un enorme vello d'argento, Aurora Day mi guardava.
Non
saprei dire se per colpa della gran quantità di Martini
ingurgitata quella mattina, del foruncolo che mi aveva di recente
molestato la guancia, o delle esalazioni della benzina in fiamme:
fatto sta che al momento di rientrare in casa mi sentii vacillare
e sedetti stordito sull'ultimo scalino, chiudendo gli occhi mentre
la testa mi girava.
Dopo qualche secondo la mente tornò a schiarirsi. Poggiato
com'ero alle ginocchia mi cadde lo sguardo fra i piedi sul gradino
di vetro azzurro. Inciso sulla superficie a chiare lettere vidi:
Perché
sì pallido ed esangue, dolce amore?
Di grazia, perché quel pallore?
Ancora
troppo debole perché quell'atto di vandalismo suscitasse
in me qualcosa più di un istintivo moto d'indignazione,
feci lo sforzo di alzarmi e ripescai la chiave di casa nella tasca
della vestaglia. Mentre l'infilavo nella serratura notai, vergato
sul basamento in ottone della stessa:
Gira
la chiave con destrezza nella toppa oliata.
Incise
nel medesimo corsivo nitido altre iscrizioni istoriavano da cima
a fondo la pannellatura in cuoio nero della porta; le linee s'intersecavano
a casaccio come una decorazione a filigrana intorno a un vassoio
barocco.
Chiusa la porta m'inoltrai fino in soggiorno. Le pareti sembravano
più scure del solito, e mi accorsi che la loro superficie
era completamente ricoperta d'innumerevoli file di parole finemente
impresse, infiniti frammenti poetici dilaganti dal soffitto al
pavimento.
Presi il bicchiere dal tavolo e lo portai alle labbra. La coppa
d'azzurro cristallo s'epigrafava anch'essa del solito corsivo
chiaro e regolare, che spiraleggiando giù per lo stelo
raggiungeva la base.
Brinda
a me solo con gli occhi.
Ogni
cosa nel soggiorno era coperta dai medesimi frammenti: la scrivania,
i lampadari e i paralumi, gli scaffali, i tasti del pianoforte
a mezza coda, persino il bordo del disco sul piatto dello stereo.
Sbalordito sollevai una mano al volto e inorridii al vedere intrecciarsi
sulla superficie della mia pelle migliaia di tatuaggi che guizzavano
e s'attorcevano su mani e braccia come serpenti impazziti.
Lasciando cadere il bicchiere corsi allo specchio sopra il caminetto
e mi vidi la faccia coperta degli stessi tatuaggi, un manoscritto
vivente sul quale l'inchiostro continuava a scorrere e le lettere
fluivano e mutavano come se la penna le stesse ancora tracciando.
Serpenti
pezzati con lingua forcuta...
E voi ragni tessitori, via di qui.
Balzai
lontano dallo specchio e mi precipitai in terrazza scivolando
sulle caterve di policrome stelle filanti che il vento della sera
trasportava sulla loggia, poi scavalcai con un volteggio la ringhiera
e mi calai sul terreno sottostante.
Traversai la distanza fra le due ville in pochi secondi, divorai
il viale che si rabbuiava raggiungendo l'ingresso principale.
Mentre tendevo la mano al campanello la nera porta si aprì
e varcai d'impeto la soglia piombando nell'atrio di cristallo.
Aurora Day mi attendeva sulla sdraio presso la vasca, intenta
a pasturare i longevi pesci bianchi che si raccoglievano vicino
a lei. Avvicinandomi la vidi sorridere tranquillamente agli animali
e bisbigliare loro.
"Aurora!" esclamai. "Per amor del cielo, mi arrendo!
Prendi tutto quel che vuoi, tutto, ma lasciami in pace!"
Per qualche istante mi ignorò continuando senza scomporsi
a nutrire i pesci. All'improvviso un pensiero spaventoso mi traversò
la mente. Le enormi carpe bianche che si accalcavano adesso alle
sue dita erano state un tempo suoi amanti?
Sedevamo
assieme nel crepuscolo luminescente. mentre le lunghe ombre si
trastullavano col paesaggio violaceo della 'Persistenza della
memoria' di Dalí sulla parete alle spalle di Aurora e i
pesci nuotavano lenti in cerchio nella fontana accanto a noi.
Lei aveva dettato le sue condizioni: nientemeno che il completo
controllo della rivista, libertà di imporre la propria
linea, di scegliere il materiale secondo i suoi criteri. Nulla
sarebbe andato in stampa senza la sua previa approvazione
"Non preoccuparti" mi aveva detto dolcemente. "Il
nostro accordo varrà per un numero solo." Sorprendentemente
non aveva intenzione di pubblicare le proprie poesie: il numero
contraffatto era stato un mero espediente per indurmi alla resa.
"Pensi che un solo numero basterà?" domandai,
chiedendomi che intenzioni avesse in realtà.
Levò pigramente lo sguardo su di me, arabescando la liquida
superficie della vasca con un dito dall'unghia laccata di verde.
"Dipende tutto da te e dai tuoi amici. Quando vi deciderete
a rinsavire e a ritornare poeti?"
Osservavo i disegni tracciati dal dito nella vasca. In virtù
di chissà quale miracolo rimanevano incisi sull'acqua.
Nelle ore, lunghe come millenni, che eravamo rimasti seduti assieme,
mi sembrava di averle raccontato tutto di me, senza tuttavia apprendere
quasi nulla di lei. Soltanto una cosa era chiara: la sua fissazione
per l'arte poetica, del cui attuale declino si riteneva, chissà
perché, personalmente responsabile, sebbene l'unico rimedio
da lei proposto apparisse del tutto retrogrado.
"Devi venire a conoscere i miei amici della comunità"
proposi.
"Ci verrò" promise. "Spero di poterli aiutare.
Hanno tutti tanto da imparare."
Quell'affermazione mi indusse al sorriso. "In ciò
li troverai tutt'altro che bendisposti, temo. Si considerano in
gran parte raffinati specialisti. Per loro la ricerca del sonetto
perfetto si è conclusa da anni. Il computer non produce
altro."
"Non sono poeti ma semplici meccanici" replicò
Aurora sprezzante. "Guarda queste raccolte di cosiddetti
versi. Tre poesie e sessanta pagine di istruzioni per l'uso. Nient'altro
che voltaggi e amperaggi. Quando dico che hanno tutto da imparare
intendo a proposito del loro cuore, non su questioni tecniche;
mi riferisco all'anima del verso, non alla sua forma."
S'interruppe per sgranchirsi, e il suo corpo stupendo si snodò
come un pitone. Poi si protese e infervorandosi disse: "Se
al giorno d'oggi la poesia è morta non è per colpa
di queste macchine, ma perché i poeti non cercano più
la vera ispirazione."
"Che sarebbe?"
Aurora scosse il capo mestamente. "Ti consideri un poeta
e me lo chiedi?"
Chinò sulla vasca uno sguardo apatico. Le traversò
per un attimo il volto un'espressione di estrema tristezza, e
compresi che doveva provare un senso profondo di colpa o di inadeguatezza,
come se una sua pecca fosse davvero responsabile dell'attuale
malessere. Forse era tale senso di inadeguatezza che mi consentiva
di non avere paura di lei.
"Hai mai sentito parlare della leggenda di Melandria e Coridone?"
mi domandò.
"Vagamente" risposi, frugando nei ricordi. "Melandria
era la musa della poesia, se la memoria non m'inganna. E Coridone
non era un poeta di corte che si uccise per lei?"
"Bene" approvò Aurora. "Non sei completamente
incolto, dopotutto. Esatto, i poeti di corte scoprirono di aver
perso l'ispirazione e si accorsero che le loro dame li disdegnavano
preferendo la compagnia dei cavalieri. Si rivolsero quindi a Melandria,
la musa, la quale rivelò di averli colpiti con quel sortilegio
perché davano per scontata la loro arte dimenticando da
quale fonte in realtà scaturisse. Quelli, si capisce, affermarono
solennemente - sfacciata menzogna - di pensare sempre a lei, ma
la musa rifiutò di crederci e dichiarò che non avrebbero
riacquistato l'ispirazione fin quando uno di loro non avesse sacrificato
la vita per lei. Ovviamente nessuno era disposto a farlo, a eccezione
di un giovane poeta di gran talento chiamato Coridone, che amava
la dea ed era l'unico ad aver serbato la sua creatività.
Per il bene degli altri poeti egli dunque si uccise..."
"... con sempiterno dolore di Melandria" conclusi io.
"La musa non si aspettava che lui desse la vita per l'arte.
Un bel mito" ammisi. "Ma temo che qui non troverai alcun
Coridone."
"Chissà" disse Aurora in un sussurro. Agitò
l'acqua nella vasca, e la superficie increspata proiettò
un'ondulazione luminosa sulle pareti e sul soffitto. Vidi allora
che tutt'intorno alla stanza correva una lunga serie di fregi
raffiguranti proprio la leggenda narrata da Aurora. Il primo pannello,
in fondo alla mia sinistra, mostrava poeti e trovatori adunati
attorno alla dea, un'alta figura biancovestita il cui volto somigliava
notevolmente a quello di Aurora. Seguendo la vicenda sui pannelli
successivi mi accorsi che la somiglianza si faceva ancora più
spiccata, e immaginai che Aurora avesse posato per l'artista nelle
vesti di Melandria. Non poteva darsi che si fosse in qualche modo
identificata con la dea del mito? Nel qual caso, chi era il suo
Coridone? Forse l'artista stesso. Cercai sui pannelli il poeta
suicida, un giovane snello dalla folta capigliatura bionda che
non riuscii a identificare, sebbene il suo viso mi fosse leggermente
familiare. Comunque, dietro i personaggi principali, riconobbi
senz'altro in tutte le scene l'autista dalla faccia di fauno,
raffigurato qui con zampe d'asino e rustica siringa a impersonare
nientemeno che il fedele Pan.
Avevo quasi individuato un'altra somiglianza tra le figure dei
fregi allorché Aurora si accorse che stavo esaminando i
pannelli. Smise di agitare l'acqua. Cessando le increspature,
i pannelli ripiombarono nel buio. Per qualche secondo Aurora mi
fissò come se avesse dimenticato chi ero, taciturna e immusonita
quasi che raccontare il mito avesse evocato personali ricordi
di dolore e stanchezza. Contemporaneamente l'atrio e il portico
a vetri parvero divenire oscuri e tetri riflettendo l'incupirsi
del suo umore: a tal punto dominante era la sua presenza che l'aria
stessa impallidiva di concerto con lei. Sentii ancora una volta
che il suo mondo, nel quale ero entrato, si componeva completamente
di illusioni.
Aurora
dormiva. Attorno a lei la stanza era quasi al buio. Le luci della
vasca erano svanite, le colonne di cristallo che avevano sfavillato
intorno a noi gravavano fosche e spente come tronchi di vetro
opaco. L'unica luce proveniva dal gioiello simile a un fiore che
le riposava tra i placidi seni.
Mi alzai, mi avvicinai a lei in silenzio, chinai lo sguardo su
quel volto strano dalla pelle levigata e grigia, sembrava la sposa
di un faraone immersa in un sogno di basalto. Non lontano, sulla
porta, notai la sagoma gibbosa dell'autista. La visiera del berretto
gli celava il volto, ma due occhi vigili erano fissi su di me
come piccoli tizzoni.
Quando uscimmo centinaia di mante addormentate costellavano il
deserto inondato di luna. Camminammo fra loro per raggiungere
la Cadillac e ci allontanammo in silenzio.
Una volta alla villa mi diressi immediatamente allo studio, pronto
a mettermi al lavoro per comporre il numero successivo.
Strada facendo avevo rapidamente deciso i principali spunti tematici
e le immagini chiave da inserire negli apparecchi T. Programmandoli
tutti sul massimo d'iterazione, entro ventiquattr'ore avrei avuto
un in folio di trasognati, sfrenati ditirambi che avrebbero sbalordito
Aurora Day con la loro profonda schiettezza e genuina ispirazione.
Entrando nello studio inciampai in qualcosa di appuntito. Chinatomi
al buio trovai una dilaniata scheda elettronica incastrata nel
pavimento di cuoio bianco.
Accesa poi la luce vidi che qualcuno aveva fracassato i tre apparecchi
T riducendoli con violenza selvaggia a un contorto guazzabuglio.
La mia attrezzatura non era stata l'unico bersaglio. La mattina
dopo, mentre sedevo alla scrivania contemplando i tre elaboratori
distrutti, squillò il telefono per recarmi notizia che
analoga devastazione s'era abbattuta da un capo all'altro delle
Stelle. L'IBM da 50 watt di Tony Sapphire era stato fatto a pezzi,
e dei quattro nuovi Philco Versomatic di Raymond Mayo non restavano
che rottami impossibili da riparare. Venni insomma a sapere che
non un solo apparato T era rimasto intatto. La sera prima, fra
le sei e mezzanotte, qualcuno aveva velocemente percorso Le Stelle
penetrando in studi e appartamenti per annientare con implacabile
determinazione l'intero parco T.
Non mi fu difficile attribuire la responsabilità di quello
scempio. Di ritorno dalla villa di Aurora, scendendo dalla Cadillac
avevo notato, sul sedile accanto all'autista, due pesanti chiavi
inglesi. Decisi tuttavia di non avvertire la polizia e di non
sporgere denuncia. Tanto per cominciare il problema di riempire
Onda IX appariva adesso pressoché insolubile. Quando
telefonai alla Graphis Press scoprii, ma più o meno me
l'aspettavo, che il materiale di Aurora era andato misteriosamente
smarrito.
Arduo dilemma: cosa mettere in quel numero? Non potevo permettermi
di saltarlo, perché i miei abbonati si sarebbero dileguati
come fantasmi.
Telefonai ad Aurora e le esposi a chiare lettere la situazione.
"Dobbiamo tornare in stampa entro una settimana, altrimenti
il nostro contratto scade e non ne otterrò mai un altro.
E se dovessi rimborsare un anno di abbonamenti anticipati andrei
fallito. Dobbiamo semplicemente trovare un po' di materiale. In
qualità di nuovo direttore editoriale hai qualche suggerimento?"
Aurora ridacchiò. "Pensi forse che possa chissà
come rimettere in sesto quelle macchine sfasciate?"
"Sarebbe un'idea" convenni, facendo un cenno di saluto
a Tony Sapphire appena entrato. "Temo altrimenti che risulterà
impossibile procurarsi del materiale."
"Proprio non ti capisco" replicò Aurora. "C'è
di sicuro un modo semplicissimo."
"Davvero? E quale?"
"Scrivetelo da voi!"
Prima che potessi protestare si abbandonò a uno scroscio
di risa. "Mi risulta che a Vermilion Sands esistono circa
ventitré gagliardi versificatori e cosiddetti poeti..."
(esattamente il numero di luoghi violati la sera prima) "...
be', vediamo un po' se qualcuno di loro li sa scrivere davvero,
questi versi."
"Aurora!" insorsi. "Non puoi dire sul serio. Ascolta,
per amor del cielo, qui non stiamo scherzando..."
Ma
aveva riabbassato. Mi girai verso Tony Sapphire, poi sedetti affranto
a rimirare una bobina intatta recuperata da uno degli apparecchi.
"A quanto pare sono spacciato. L'hai sentita? Scrivetelo
da voi!..."
"Quella è matta" fu d'accordo Tony.
"Tutta colpa della sua tragica ossessione" spiegai abbassando
la voce. "E davvero convinta di essere la musa della poesia,
tornata sulla Terra per restituire l'ispirazione alla languente
razza dei poeti. Ieri sera mi ha parlato del mito di Melandria
e Coridone. Credo stia davvero aspettando che un giovane poeta
sacrifichi la vita per lei."
Tony annui. "Comunque non ha capito nulla. Cinquant'anni
fa c'era ancora qualcuno che scriveva poesie, ma nessuno le leggeva.
Oggi non c'è nemmeno più qualcuno che le scriva.
L'apparecchio T non fa altro che semplificare il processo."
Ero d'accordo con lui, anche se Tony ovviamente parlava un po'
per partito preso, essendo una di quelle persone convinte che
la letteratura, in fondo, non si possa né leggere né
scrivere. Il romanzo automatico che stava "scrivendo"
era lungo oltre dieci milioni di parole, e ambiva ad ascriversi
al novero di quelle gigantesche opere paradossali che torreggiano
sulle vie maestre della storia della letteratura terrorizzando
l'incauto viandante. Malauguratamente non si era mai preso la
briga di farlo stampare, e il cilindro mnemonico recante la codifica
elettronica era andato in malora nel pogrom della sera precedente.
Io ero altrettanto irritato. Uno dei miei apparati T era costantemente
impegnato nel produrre una traslitterazione dell'Ulisse
di James Joyce secondo un'ambientazione greca classica, un piacevole
esercizio accademico che avrebbe offerto una verifica oggettiva
del capolavoro di Joyce secondo il grado di esattezza con cui
la traslitterazione avrebbe corrisposto all'Odissea originale.
Distrutto anche quello.
Scrutammo Studio 5 nella fulgida luce mattutina. La Cadillac rosso
ciliegia era scomparsa chissà dove: era quindi probabile
che Aurora stesse scorrazzando per Vermilion Sands davanti agli
occhi attoniti dei sempre numerosissimi avventori dei caffè.
Presi il telefono installato in terrazza e sedetti sulla ringhiera.
"Immagino tanto valga chiamare tutti e sentire un po' cosa
possono fare."
Composi il primo numero.
Raymond Mayo disse: "Scrivere qualche poesia da me? Paul,
tu sei matto."
Xero Paris disse: "Da me? Come no, Paul, coi piedi."
Fairchild de Mille disse: "Sarebbe piuttosto chic, però..."
Kurt Butterworth disse stizzito: "Tu ci hai mai provato?
Come si fa?"
Marlene McClintic disse: "Caro, non oserei. Potrebbe svilupparmi
i muscoli sbagliati o roba del genere."
Sigismud Lutitsch disse: "No, no. Siggy adesso in nuova zona.
Scultura elettronica, plasma in collisioni supercosmiche. Ascolta..."
Robin Saunders, Macmillan Freebody e Angel Petit dissero: "No."
Tony
mi portò da bere e io continuai senza tregua a saggiare
l'elenco. "Niente da fare" esclamai alla fine. "Nessuno
scrive più versi, parliamoci chiaro. Neanche tu, nemmeno
io."
Tony indicò il taccuino. "C'è ancora un nome...
tanto vale far piazza pulita prima di partire per Red Beach."
"Tristram Caldwell" lessi. "Quel giovanotto timido
col fisico da calciatore. Il T non gli ha mai funzionato bene.
Ma si, già che ci siamo proviamo anche con lui."
Rispose sommessa al telefono una ragazza dalla voce dolcissima.
"Tristram?" flautò. "Be', si. Credo che
ci sia."
Si udì rumor di zuffa sopra un letto e il telefono cadde
più volte a terra, poi Caldwell rispose.
"Ciao, Ransom, qual buon vento?"
"Tristram" dissi "immagino che ieri sera sia toccata
pure a te la visitina a sorpresa. O non te ne sei accorto? In
che condizioni è il tuo T?"
"Il VT?" ripeté lui. "È a posto,
nessun problema."
"Cosa?" gridai. "Vuoi dire che il tuo non ha subito
danni? Tristram, fai mente locale e stammi bene a sentire."
Gli spiegai in fretta il nostro problema, ma Tristram d'un tratto
scoppiò a ridere.
"Be', ma questa è proprio buffa, non credi? Da sbellicarsi.
Secondo me quella donna ha ragione. Torniamo ai vecchi sistemi..."
"Lascia perdere i vecchi sistemi" replicai seccato.
"M'interessa soltanto mettere insieme un po' di materiale
per il prossimo numero. Se il tuo apparecchio funziona siamo salvi."
"Be, ecco, aspetta un momento, Paul. Ultimamente sono stato
un po' preso e non ho avuto occasione di controllare l'apparecchio."
Attesi in linea mentre lui si allontanava. Dal suono dei suoi
passi e da un richiamo impaziente della ragazza, al quale egli
rispose da lontano, mi parve che fosse uscito in cortile. Da qualche
parte si spalancò rumorosamente una porta e vi fu un vago
rovistare. Strano posto per tenerci un apparecchio VT, pensai.
Poi si udì un sonoro martellare.
Finalmente Tristram tornò al telefono. "Mi spiace.
Paul, ma quella donna a quanto pare è passata anche da
queste parti. L'apparecchio è ridotto a un rottame."
Tacque un momento mentre io imprecavo fra me, poi soggiunse: "Senti,
comunque, quella dice sul serio riguardo al materiale fatto a
mano? E per questo che hai chiamato, no?"
"Certo" risposi. "Credimi, sono disposto a stampare
qualunque cosa. Previo assenso di Aurora, beninteso. Ce l'hai
un po' di vecchio materiale pronta consegna?"
Tristram ridacchiò. "Paul, sai che ti dico? Credo
proprio di sì. Non speravo più di vederlo pubblicato,
ma ora sono contento di averlo conservato. Senti, lo riordino
un po' e te lo faccio avere domattina. Qualche sonetto, un paio
di ballate, dovresti trovarlo interessante."
Poco ma sicuro. Il mattino seguente, cinque minuti dopo avere
aperto il pacchetto, ebbi la certezza che stava cercando d'imbrogliarci.
"Niente di nuovo sotto il sole" spiegai a Tony. "Quell'Adone
furbacchione. Guarda queste assonanze, queste rime piane, la cesura
mobile... il marchio inconfondibile di Caldwell, nastri logori
nei circuiti rettificatori e un condensatore difettoso. La sua
produzione sono anni che mi tocca limarla e risistemarla. Evidentemente
quel suo macinino funziona ancora."
"Che intendi fare?" domandò Tony. "Lui negherà."
"Ovviamente. Comunque è materiale utilizzabile. Chi
se ne frega se sarà un numero tutto targato Tristram Caldwell..."
Avevo cominciato a infilare i fogli in una busta per portarli
ad Aurora quando mi venne un'idea.
"Tony, ho appena avuto uno dei miei lampi di genio. Il modo
perfetto per curare quella strega dalla sua fissazione e gustare
al tempo stesso il dolce sapore della vendetta. Supponiamo di
stare al gioco di Tristram e diciamo ad Aurora che queste poesie
le ha scritte lui di suo pugno. Ha uno stile assolutamente antiquato.
e quanto a soggetti, Aurora non potrebbe chiedere di meglio...
senti qua: 'Omaggio a Clio', `Minerva 23F, Il silenzio si addice
a Elettra'. Lei darà il suo assenso, noi stamperemo in
settimana e poi... la sorpresa!, riveleremo che queste poesie
a prima vista sgorgate dal petto veemente di Tristram Caldwell
altro non sono che un centone di stereotipate trascrizioni sfornate
da un malconcio apparecchio T, vaneggiamenti automatici della
peggior specie."
Tony lanciò un grido di giubilo. "Formidabile! Quella
se ne ricorderà finché campa. Ma credi che ci cascherà?"
"Perché no? Renditi conto che lei si aspetta veramente
che noi ci mettiamo tutti lì d'impegno a partorire una
serie di raffinate esercitazioni su classici temi tipo 'Giorno
e notte', 'Estate e inverno' e via dicendo. Dal momento che soltanto
Caldwell produrrà qualcosa, lei sarà felicissima
di concedergli il suo imprimatur. Ricorda, il nostro accordo riguarda
esclusivamente questo numero e la responsabilità è
tutta sua. Dovrà pur trovare del materiale da qualche parte."
Mettemmo
dunque in atto il nostro piano. Tutto il pomeriggio assillai Tristram
dicendogli che Aurora aveva immensamente apprezzato la prima consegna
e attendeva con ansia nuove poesie. Il giorno dopo arrivò
puntualmente la seconda mandata: tutto materiale, per fortuna,
scritto a mano, benché stranamente sbiadito per essere
uscito il giorno prima dal suo apparecchio T. Qualunque cosa servisse
a rafforzare l'illusione, comunque, mi giungeva gradita. Aurora
era sempre più soddisfatta, e sembrava non nutrire alcun
sospetto. Pur avanzando qui e là qualche piccola critica,
pretese che nulla venisse alterato o riscritto.
"Ma noi riscriviamo sempre, Aurora" le dissi. "Non
ci si può aspettare un assortimento infallibile di immagini.
Il numero dei sinonimi è smisuratamente grande." Temendo
di essermi spinto troppo oltre mi affrettai ad aggiungere: "Che
l'autore sia umano o robotico non importa, il principio è
lo stesso."
"Davvero?" replicò Aurora maliziosa. "Credo
comunque che lasceremo queste poesie esattamente come le ha scritte
il signor Caldwell."
Non mi presi la briga di farle notare l'irrimediabile fallacia
del suo atteggiamento; limitandomi a ritirare i manoscritti siglati
tornai di fretta a casa. Seduto alla mia scrivania, attaccato
al telefono, Tony torchiava Tristram per avere altro materiale.
Tappò con una mano il microfono e mi rivolse un cenno.
"Fa il modesto, probabilmente cerca di alzare il prezzo a
due centesimi al migliaio. Sostiene di essere a corto di materiale.
Vale la pena di fargli scoprire le carte?"
Scossi il capo. "Troppo pericoloso. Se Aurora capisse che
siamo coinvolti nell'imbroglio sarebbe capace di tutto. Lascia
che gli parli io." Presi il telefono. "Che succede,
Tristram? La produzione è in ribasso. Ci serve altro materiale,
ragazzo mio. Accorcia i versi, perché sprecare nastri con
tutti quegli alessandrini?"
"Ransom, di che diavolo parli? Sono un poeta. mica una dannata
fabbrica, scrivo quando ho qualcosa da dire e nell'unico modo
appropriato per dirlo."
"Va bene, va bene," replicai "ma ho cinquanta pagine
da riempire e solo pochi giorni per farlo. Me ne hai date circa
dieci, quindi devi mantenere il ritmo. Oggi cos'hai prodotto?"
"Be', sto lavorando a un nuovo sonetto con dentro delle cosine
graziose... dedicato ad Aurora, in effetti."
"Splendido" gli dissi "ma attento con quei selettori
lessicali. Ricorda la regola aurea: la frase ideale contiene una
sola parola. E poi che altro?"
"Che altro? Niente. Questo probabilmente mi richiederà
tutta la settimana, forse tutto l'anno."
Per poco non mi andò di traverso il telefono. "Tristram,
si può sapere che succede? Santo cielo, non hai pagato
la bolletta della corrente o che? Ti hanno staccato i fili?"
Prima che riuscissi a scoprirlo lui comunque riattaccò.
"Un sonetto al giorno" dissi a Tony. "Buon Dio,
deve averlo messo in manuale. Razza d'imbecille, non si rende
mica conto di quanto siano complicati quei circuiti!"
Tenemmo
duro e aspettammo. La mattina dopo neanche un verso, e così
pure la mattina successiva. Fortunatamente, però. Aurora
non rimase affatto sorpresa; anzi, semmai era soddisfatta che
il ritmo produttivo di Tristram stesse rallentando.
"Una poesia" mi disse "è quanto di più
vicino a un'enunciazione completa. Non occorre dire altro, un
intervallo d'eternità si chiude per sempre."
Pensierosa, raddrizzò i petali di un giacinto. "Forse
ha bisogno di un piccolo incoraggiamento" decise.
Capii che desiderava conoscerlo.
"Perché non lo inviti qui a cena?" suggerii.
Lei s'illuminò immediatamente. "Ottima idea."
Prese il telefono e me lo porse.
Mentre componevo il numero di Tristram provai un'improvvisa fitta
d'invidia e delusione. Intorno a me i fregi narravano la favola
di Melandria e Condone, ma ero troppo preoccupato per prevedere
la tragedia che si sarebbe consumata la settimana successiva.
Nei
giorni che seguirono Tristram e Aurora stettero sempre insieme.
Accompagnati dall'autista al volante dell'enorme Cadillac, la
mattina si recavano in genere ai set cinematografici di Laguna
Ponente. La sera, mentre sedevo da solo in terrazza osservando
le luci di Studio 5 brillare nella calda oscurità, udivo
giungermi valicando la sabbia frammenti delle loro voci, fievoli
suoni d'una musica cristallina.
Mi piacerebbe pensare che la loro relazione mi irritasse, ma in
tutta franchezza, superata la delusione iniziale me ne importava
ben poco. La stanchezza da spiaggia di cui soffrivo ottundeva
insidiosamente i sensi, smorzando in egual modo disperazione e
speranza.
Quando, tre giorni dopo il loro primo incontro, Aurora e Tristram
proposero di andarcene tutti a pesca di mante a Laguna Ponente,
accettai volentieri, ansioso di osservare più da vicino
la loro tresca.
Mentre
ci avviavamo lungo Le Stelle niente lasciava presagire quanto
sarebbe accaduto. Tristram e Aurora viaggiavano sulla Cadillac
insieme a Tony Sapphire, mentre Raymond Mayo e io stavamo alla
retroguardia nella Chevrolet di Tony. Li vedevamo attraverso il
lunotto azzurro della Cadillac; Tristram leggeva il sonetto ad
Aurora or ora ultimato. Quando smontammo dalle auto a Laguna Ponente
e avanzammo verso i vecchi scenari astratti presso le scogliere
di sabbia, loro due camminarono mano nella mano. In scarpe e abito
bianchi da spiaggia Tristram sembrava proprio un damerino edoardiano
a una gita in barca.
L'autista portava i panieri da picnic, Raymond Mayo e Tony i fucili
lanciarpione e le reti. Sulle scogliere sottostanti si vedevano
mante annidate a migliaia, schiere innumerevoli di corpi resi
lucidi dal letargo di bassa stagione.
Dopo che ci fummo sistemati sotto i teloni, Raymond e Tristram
decisero il da farsi, poi riunirono il gruppo. Disposti in fila
cominciammo a scendere lungo una scogliera, Aurora al braccio
di Tristram.
"Mai stato a pesca di mante?" mi domandò Tristram
mentre entravamo in una delle gallerie inferiori.
"Mai" risposi. "Stavolta resterò a guardare.
Ho saputo che sei un esperto."
"Be', con un po' di fortuna non ci lascerò la pelle."
Indicò le mante aggrappate alle cornici sopra di noi, che
al nostro approssimarsi spiccavano il volo volteggiando in cielo,
fischiando e stridendo. Nella luce fioca le punte bianche degli
aculei si flettevano entro le guaine. "A meno che non siano
veramente spaventate si terranno alla larga" ci disse. "L'abilità
consiste nell'evitare che si spaventino, sceglierne una e accostarsi
tanto lentamente che quella resti ferma a guardarti finché
non sei abbastanza vicino da colpirla."
Raymond Mayo aveva individuato una grossa manta purpurea acquattata
in una stretta fenditura circa dieci metri alla nostra destra.
Le si appressò in silenzio osservando l'aculeo sporgere
dalla guaina e agitarsi minaccioso, sostando quel tanto che bastava
perché si ritraesse, cullando l'animale con un sommesso
suono mormorante. Infine, giunto a circa un metro e mezzo, sollevò
l'arma e prese accuratamente la mira.
"Sembra una cosa da niente" sussurrò Tristram
ad Aurora e a me "ma in effetti al momento è completamente
in balla della manta. Se l'animale decidesse di attaccare, lui
non potrebbe difendersi." In quel mentre il dardo eruppe
dal fucile e colpi la manta sulla cresta dorsale, stordendola
all'istante. Avvicinatosi senza esitare Raymond la raccolse nella
rete, dove la preda si riebbe entro pochi secondi e dimenò
impotente le nere ali triangolari per poi giacere inerte.
Avanzammo per canali e gallerie, col cielo ridotto a un angusto
varco sinuoso sopra di noi, seguendo i tortuosi sentieri che scendevano
verso la base della scogliera. Ogni tanto le mante che s'innalzavano
volteggiando sul nostro cammino sfioravano la concrezione e cascatelle
di sabbia fine ci inondavano. Raymond e Tristram colpirono diverse
altre mante, lasciando all'autista il compito di portare le reti.
Pian piano il nostro gruppo si divise in due: Tony e Raymond scelsero
un percorso insieme all'autista, mentre io rimasi con Aurora e
Tristram.
Mentre procedevamo notai che il viso di Aurora si era fatto più
teso, i suoi movimenti leggermente pia guardinghi e controllati.
Avevo l'impressione che osservasse Tristram attentamente, lanciandogli
occhiate in tralice mentre gli teneva il braccio.
Entrammo nel fornice terminale della scogliera, un profonda sala
che ricordava una cattedrale e da cui si dipartivano un gran numero
di gallerie, spiraleggianti verso la superficie come le braccia
di una galassia. Nell'oscurità circostante migliaia di
mante penzolavano immobili, con gli aculei fosforescenti che si
flettevano e si ritraevano come stelle ammiccanti.
A
una sessantina di metri da noi, in fondo alla sala, Raymond Mayo
e l'autista emersero da una galleria. Si fermarono qualche istante
in attesa. D'un tratto udii Tony gridare. Raymond lasciò
cadere il lanciarpione e scomparve nella galleria.
Mi scusai e traversai di corsa la sala. Li trovai nello stretto
corridoio intenti a scrutare nelle tenebre.
"Ti dico di si" stava insistendo Tony. "Ho sentito
cantare quella bestiaccia."
"Impossibile" replicò Raymond. Discussero un
po', quindi abbandonarono la ricerca della fantomatica manta canterina
ed entrarono nella sala. Mentre riprendevamo il cammino mi parve
di vedere l'autista rimettersi qualcosa in tasca. Con la faccia
adunca e gli occhi folli, la figura gibbosa oberata di reti piene
di mante che si contorcevano, sembrava uscito da un quadro di
Hieronymus Bosch.
Scambiate poche parole con Raymond e Tony mi girai per tornare
dagli altri, ma avevano lasciato la sala. Chiedendomi quale galleria
avessero preso percorsi alcuni metri entro l'imboccatura di ciascuna,
e finalmente li vidi su una delle rampe che s'inarcavano sopra
di me.
Stavo per tornare sui miei passi e raggiungerli quando intravidi
il profilo di Aurora e colsi di nuovo quell'espressione vigile
e risoluta. Cambiando idea mi avviai silenziosamente, col fruscio
della sabbia cadente a mascherare i miei passi, lungo la spirale
proprio sotto di loro, senza perderli di vista nei varchi fra
le colonne incombenti.
Trovandomi a un certo punto a pochi metri da loro udii Aurora
dire distintamente: "Non c'è una teoria secondo cui
si possono catturare le mante col canto?"
"Ipnotizzandole?" domandò Tristram. "Proviamo."
Si allontanarono, e la voce di Aurora risuonò sommessa,
in tono cupo e cantilenante. Poco a poco quel suono crebbe, echeggiando
e riecheggiando in alto fra le volte, e le mante si agitarono
nell'oscurità.
Man mano che ci avvicinavamo alla superficie il loro numero aumentava.
A un certo punto Aurora si fermò e guidò Tristram
verso un esiguo spiazzo pieno di sole, cinto da pareti alte trenta
metri aperte verso il cielo.
Avendoli persi di vista tornai nella galleria e risalii il pendio
interno fino al livello successivo, dal quale poi raggiunsi la
piattaforma superiore. Mi accostai al margine della galleria,
donde potevo adesso agevolmente osservare lo spiazzo sottostante.
Mi ero intanto accorto che un rumore strano e penetrante, inespressivo
e onnipervasivo a un tempo, riempiva l'intera scogliera, simile
ai suoni acuti percepiti dagli epilettici prima di un attacco.
Giù nello spiazzo Tristram, la testa stretta fra le mani,
scrutava le pareti cercando di identificare la fonte del rumore.
Aveva distolto lo sguardo da Aurora, che ritta dietro di lui teneva
le braccia abbandonate immobili lungo i fianchi con i palmi leggermente
sollevati, come una medium in trance.
Stavo lì a osservarla affascinato in quell'atteggiamento
singolare quando venni bruscamente distratto da uno stridio atterrito
proveniente dai livelli inferiori della scogliera. Lo accompagnava
un confuso pergamenaceo sbatter d'ali, e quasi immediatamente
un nugolo di mante scaturì a volo dalle gallerie sottostanti
nel frenetico tentativo di fuggire dalla scogliera.
Mentre irrompevano nello spiazzo, volando basse sulla testa di
Tristram e Aurora, parvero smarrire il senso dell'orientamento,
e in un attimo lo slargo fu stracolmo di una moltitudine di mante
roteanti che svolazzavano senza meta.
Urlando di terrore per le mante che le sfrecciavano davanti al
viso, Aurora usci dalla trance. Tristram si era tolto il cappello
di paglia e le percuoteva furiosamente, facendo scudo ad Aurora
con l'altro braccio. Indietreggiarono assieme in direzione di
un'angusta fenditura nella parete posteriore dello spiazzo, che
offriva una via di fuga verso le gallerie interne. Facendo scorrere
lo sguardo al ciglio della rupe sovrastante fui sorpreso di scorgere
la tarchiata sagoma dell'autista che liberatosi di reti ed equipaggiamento
osservava la coppia in basso.
Ormai le centinaia di mante che si accalcavano nello spiazzo quasi
sottraevano alla vista Tristram e Aurora. Lei ricomparve dalla
fenditura scuotendo disperatamente il capo. La via di fuga era
sbarrata! Tristram le fece immediatamente cenno d'inginocchiarsi,
poi balzò in mezzo allo spiazzo, schiaffeggiando selvaggiamente
le mante col cappello nel tentativo di allontanarle da Aurora.
Per qualche secondo vi riuscì. Come un nugolo di giganteschi
calabroni le mante rotearono via disordinatamente. Poi, inorridito,
le vidi ridiscendere su di lui. Prima che potessi gridare Tristram
era caduto. Le mante si avventarono e volteggiarono sul suo corpo
disteso, quindi turbinarono via librandosi alte in cielo, evidentemente
libere dal vortice.
Tristram giaceva bocconi, i biondi capelli sparsi sulla sabbia,
le braccia scompostamente contorte. Fissai il suo corpo, sbalordito
dalla subitaneità della sua morte, poi volsi lo sguardo
su Aurora.
Anche lei osservava il corpo, ma con una espressione che non manifestava
né pietà né onore. Raccogliendo la gonna
in una mano si girò e sgusciò via attraverso la
fenditura...
La via di fuga era libera, dunque! Stupefatto, compresi che Aurora
aveva intenzionalmente fatto credere a Tristram il contrario,
costringendolo in pratica ad attaccare le mante.
Un minuto dopo emerse dall'imboccatura della galleria soprastante.
Gettò un breve sguardo sullo spiazzo, l'autista in divisa
nera a fianco, scrutando il corpo immobile di Tristram. Poi si
allontanarono in fretta.
Precipitandomi al loro inseguimento presi a urlare con quanto
fiato avevo nella speranza di far accorrere Tony e Raymond Mayo.
Pervenni all'imboccatura della scogliera che la mia voce rimbombava
ed echeggiava ancora nelle gallerie sottostanti. A un centinaio
di metri Aurora e l'autista stavano salendo sulla Cadillac. L'auto
sfrecciò via ruggendo fra gli scenari, sollevando nubi
di polvere a offuscare i giganteschi disegni astratti.
Corsi verso la macchina di Tony. Quando vi giunsi la Cadillac,
già in vantaggio di quasi un chilometro, fiammeggiava attraverso
il deserto come un drago fuggiasco.
Quella
fu l'ultima volta che vidi Aurora Day. Riuscii a tallonarli fino
all'autostrada per Laguna Ponente, ma là, complice la strada
a scorrimento veloce, la potente vettura mi distanziò inesorabilmente,
e quindici chilometri più avanti, quando raggiunsi Laguna
Ponente, li avevo completamente persi. A una stazione di servizio,
dove l'autostrada si biforca per Vermilion Sands e Red Beach,
chiesi se qualcuno avesse visto passare una Cadillac rosso ciliegia.
Due benzinai giurarono di averne vista una diretta in senso opposto,
ma immagino che la magia di Aurora gli avesse confuso le idee.
Decisi di provare alla loro villa e tornato indietro uscii al
bivio per Vermilion Sands, maledicendomi per non aver previsto
l'accaduto. lo, preteso poeta, non ero stato capace di prendere
sul serio i sogni di un altro poeta. Aurora aveva preconizzato
la morte di Tristram in modo esplicito.
Studio
5, Le Stelle, era silenzioso e vuoto. Le mante avevano abbandonato
il viale, la porta di vetro nero era spalancata e i resti di qualche
stella filante indugiavano nella polvere che si ammucchiava sul
pavimento. Atrio e soggiorno erano immersi nell'oscurità,
e soltanto le carpe bianche nella vasca fornivano un barlume di
luce. L'aria era immobile, inerte, come se la casa fosse vuota
da secoli.
Passando frettolosamente lo sguardo sui fregi in soggiorno mi
accorsi che i volti dei personaggi raffigurati sui pannelli li
conoscevo tutti. La somiglianza era quasi fotografica. Tristram
era Coridone, Aurora era Melandria e l'autista era il dio Pan,
certo, ma vidi anche me stesso, Tony Sapphire, Raymond Mayo. Fairchild
de Mille e gli altri membri della comunità.
Lasciai perdere i fregi, oltrepassai la vasca. Era calata la sera,
e attraverso la porta aperta scorgevo le luci lontane di Vermilion
Sands, vedevo i fari delle macchine in corsa lungo Le Stelle riflettersi
sulle tegole di vetro della mia villa. Si era alzata una brezza
leggera che faceva rabbrividire le stelle filanti, e mentre scendevo
gli scalini una folata d'aria attraversò la casa e aggredì
la porta, chiudendomela rumorosamente alle spalle. Il forte colpo
rimbombò nell'edificio, dichiarazione finale a suggello
di quella vicenda fantastica e tragica, definitiva conferma della
partenza dell'incantatrice.
Riavviatomi nel deserto e incontrando le ultime stelle filanti
vagolanti sulla sabbia scura le calpestai risolutamente, cercando
di ricostruire la mia realtà. I frammenti delle folli poesie
di Aurora Day catturavano la luce languente del deserto nel dissolversi
ai miei piedi, agonizzanti frammenti di un sogno.
Giungendo
alla villa vidi le luci accese. Corsi dentro e trasecolai nel
trovare pigramente sdraiata su una poltrona in terrazza la bionda
figura di Tristram con un bicchiere colmo di ghiaccio in mano.
Mi squadrò affabilmente, ammiccò vistosamente prima
che potessi aprire bocca e si portò un dito alle labbra.
Mi avvicinai. "Tristram" sussurrai rauco. "Ti credevo
morto. Che diavolo è successo laggiù?"
Mi sorrise. "Spiacente, Paul, me lo sentivo che stavi guardando.
Aurora se n'è andata, vero?"
Annuii. "La loro auto era troppo veloce per la Chevrolet.
Ma non eri stato trafitto da una manta? Ti ho visto cadere, credevo
t'avesse ammazzato sul colpo."
"La stessa cosa che ha pensato Aurora. Né tu né
lei ve ne intendete granché di mante, vero? I loro aculei
sono innocui in alta stagione, vecchio mio, altrimenti nessuno
potrebbe entrare là dentro." Sogghignò. "Mai
sentito nominare il mito di Melandria e Coridone?"
Sedetti, stanco, lì accanto. In due minuti mi spiegò
l'accaduto. Aurora gli aveva parlato del mito, e un po' per compassione
un po' per gioco, lui aveva deciso di fare la propria parte fino
in fondo. Ogni volta che aveva descritto la pericolosità
e la cattiveria delle mante aveva deliberatamente istigato Aurora,
fornendole l'occasione perfetta per inscenare il suo omicidio
sacrificale.
"Si è veramente trattato di un omicidio" precisai.
"Credimi, ho visto come le brillavano gli occhi. Lei voleva
ucciderti sul serio."
Tristram diede una scrollata di spalle. "Non fare quella
faccia, vecchio mio. Dopotutto la poesia è una cosa seria."
Raymond
e Tony Sapphire non sapevano niente dell'accaduto. Tristram si
era inventato che Aurora aveva avuto un improvviso attacco di
claustrofobia ed era fuggita sconvolta.
"Chissà cosa farà adesso Aurora" si chiese
Tristram. "La sua profezia si è compiuta. Forse si
sentirà più sicura della propria bellezza. Sai,
era afflitta da un tremendo senso di inadeguatezza fisica. Come
la Melandria del mito, che rimase sorpresa quando Coridone si
uccise, Aurora confondeva la sua arte con la sua persona."
Annuii. "Spero non rimanga troppo delusa quando scoprirà
che la poesia continua a essere scritta col solito vecchio indegno
sistema. A proposito, ho da riempire venticinque pagine. Come
va il tuo apparato T?"
"Non ce l'ho più. L'ho sfasciato la mattina che mi
hai telefonato. Erano anni che non lo usavo."
Scattai sulla sedia. "Vuoi dire che i sonetti che mi mandavi
sono tutti scritti a mano?"
"Dal primo all'ultimo verso, vecchio mio. Ciascuno di essi
è una gemma germogliata dall'anima."
Mi riafflosciai gemendo. "Santo cielo, e io che contavo sul
tuo apparecchio per levarmi dai guai... Adesso che diavolo invento?"
Tristram sogghignò. "Comincia a scrivere da te. Ricorda
la profezia. Potrebbe anche avverarsi. Dopotutto Aurora mi crede
morto."
Lo maledissi chiaro e tondo. "Servisse a qualcosa, meglio
sarebbe. Ti rendi conto di quanto verrà a costarmi?"
Tolto che ebbe il disturbo andai nello studio, feci il conto del
materiale disponibile e giunsi alla conclusione che mi restavano
da riempire esattamente ventitré pagine. Strano a dirsi,
significava una pagina per ciascuno dei poeti ufficiali di Vermilion
Sands. A parte il fatto che nessuno di loro tranne Tristram era
capace di creare un solo verso.
Era
mezzanotte, ma i problemi della rivista avrebbero assorbito ogni
minuto delle successive ventiquattr'ore, dopodiché sarebbe
scaduto il termine ultimo. Avevo quasi deciso di mettermi a scrivere
qualcosa di mia mano quando squillò il telefono. Lì
per lì pensai fosse Aurora Day - voce acuta, femminea -
invece era soltanto Fairchild de Mille.
"Che diavolo fai alzato a quest'ora?" ringhiai. "Non
dovresti essere nel primo sonno?"
"Be', immagino di sì, Paul, ma il fatto è che
stasera mi è successa una cosa abbastanza incredibile.
Dimmi, stai ancora cercando versi originali confezionati a mano?
Mi sono messo a scrivere qualcosa un paio d'ore fa, e ti dirò,
non mi sembra malaccio. Su Aurora Day, per l'esattezza. Penso
che ti piacerà."
Sentendomi quasi riavere lo colmai di complimenti sperticati e
annotai il numero dei versi.
Cinque minuti dopo il telefono squillò di nuovo. Stavolta
era Angel Petit. Anche lui aveva un pizzico di versucoli manoscritti
da sottopormi, casomai. Dedicati ad Aurora Day, s'intende.
Tempo mezz'ora, il telefono aveva squillato un bel po' di volte.
Fra i poeti di Vermilion Sands sembrava scoppiata un'epidemia
d'insonnia. Ebbi buone nuove da Macmillan Freebody, Robin Saunders
e compagnia bella. Tutti, quella sera, all'improvviso avevano
misteriosamente avvertito l'incoercibile necessità di scrivere
qualcosa di originale, e in pochi minuti avevano buttato giù
un paio di strofe in ricordo di Aurora Day.
Rimuginandoci, mi alzai dopo l'ultima chiamata. Mancava un quarto
all'una e avrei dovuto essere stanco morto, ma il mio cervello
si sentiva lucido ed effervescente, percorso da un profluvio d'idee.
Mi si formò in mente una frase. Presi il blocco e la trascrissi.
Il tempo parve dissolversi. Nel giro di cinque minuti avevo creato
la mia prima poesia da dieci anni e passa a quella parte. E un'altra
dozzina riposavano appena sotto la superficie della mia mente
in attesa, come l'oro di una ricca vena, di venire portate alla
luce.
Il sonno? Che aspettasse. Nel prendere un altro foglio di carta
notai sulla scrivania una lettera indirizzata alla filiale IBM
di Red Beach con l'ordinazione di tre nuovi apparecchi T.
Sorridendo fra me la strappai in mille pezzi.
(Tratto
da Tutti i racconti (1956-1962), Fanucci editore, 2003,
Roma; titolo originale: Studio 5, The Stars [pubblicato
originalmente su Science Fantasy, 1961])
James G. Ballard
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