I PRIMI SETTE ANNI
Bernard
Malamud
Feld,
il ciabattino, era seccato che Sobel, l'aiutante, fosse così
sordo alle sue fantasticherie da non cessare per un attimo il
suo fanatico martellio sull'altro deschetto. Gli lanciò
un'occhiata, ma la testa calva di Sobel restò china sulla
forma, senza accorgersene. Il ciabattino si strinse nelle spalle
e, strizzando gli occhi, continuò a guardare dalla vetrina
parzialmente gelata la miope foschia di quella turbinante neve
di febbraio. Né la mutevole macchia bianca là fuori,
né l'improvviso profondo ricordo del nevoso villaggio polacco
dove aveva sciupato la sua giovinezza poterono distogliere i suoi
pensieri da Max lo studente (un ospite stabile della sua mente
fin da quel mattino presto, quando Feld l'aveva visto avviarsi
a scuola arrancando nella neve), che tanto ammirava per i sacrifici
compiuti in tutti quegli anni - d'inverno o col caldo più
torrido - allo scopo di migliorare la propria istruzione. Un vecchio
desiderio tornò a pungere il ciabattino: avere un figlio
anziché una figlia, ma subito la neve se lo portò
via perché Feld, se non altro, era un uomo pratico. Eppure
non poteva far a meno di contrapporre alla diligenza del ragazzo,
che era figlio d'un venditore ambulante, l'indifferenza di Miriam
per la cultura. D'accordo, stava sempre con un libro in mano;
però, quando le si era presentata la possibilità
di iscriversi a un college, aveva detto di no, che preferiva trovarsi
un lavoro. Lui l'aveva pregata di andare al college, sottolineando
come non tutti i padri possano permettersi di mandare i propri
figli all'università, ma lei aveva detto che voleva essere
indipendente. Quanto all'istruzione, aveva aggiunto, cos'era,
dopotutto, se non una serie di libri, sulla scelta dei quali Sobel,
che leggeva diligentemente i classici, l'avrebbe consigliata come
sempre? Quella risposta era stata un grande dolore per il padre.
Una figura emerse dalla neve e la porta si aprì. Al banco
l'uomo tolse da un sacchetto di carta tutto bagnato un paio di
scarpe scalcagnate da accomodare. Per un attimo il ciabattino
non ebbe la minima idea di chi fosse, poi il suo cuore tremò
quando si rese conto, prima d'averne scorto interamente il viso,
che Max in persona era là in piedi, e spiegava con imbarazzo
che cosa occorreva alle sue vecchie scarpe. Pur tendendo ansiosamente
l'orecchio, Feld non udì una parola, perché l'occasione
presentatasi tutt'a un tratto l'aveva reso completamente sordo.
Non ricordava esattamente quando gli fosse frullata per la testa
quell'idea, ma certo più di una volta egli aveva pensato
di proporre al ragazzo di uscire con Miriam. Non aveva avuto,
però, il coraggio di parlare, perché se Max avesse
detto di no, come avrebbe osato guardarlo ancora in faccia? E
se Miriam, che insisteva tanto sull'indipendenza, fosse andata
in collera e lo avesse rimproverato per quell'intromissione? Stavolta,
però, era un'occasione troppo buona per lasciarsela scappare:
non occorreva altro che una presentazione. I due avrebbero potuto
essere amici da un pezzo se si fossero incontrati da qualche parte,
perciò non era forse suo dovere - obbligo, anzi - metterli
in contatto, null'altro che un innocuo stratagemma per supplire
a un casuale incontro in metropolitana, diciamo, o alla presentazione
d'un comune amico per la strada? Bastava che lui la vedesse e
le parlasse una volta sola, perché certo la ragazza lo
interessasse. Quanto a Miriam, che cosa poteva rimetterci un'impiegata
d'ufficio, che incontrava solo rappresentanti chiacchieroni e
spedizionieri illetterati, a fare la conoscenza d'un ragazzo istruito
e perbene ? Forse avrebbe risvegliato in lei il desiderio di andare
all'università; se no - la mente del ciabattino venne finalmente
alle prese con la verità - che sposi un uomo colto e faccia
una vita migliore.
Quando Max ebbe finito di spiegare le riparazioni che voleva alle
sue scarpe, Feld le contrassegnò, - avevano tutt'e due
degli enormi buchi nelle suole che lui finse di non vedere, -
con due grandi X tracciate col gesso, e i tacchi di gomma, consumati
fino ai chiodi, li marcò con una O, anche se lo inquietava
la possibilità d'aver confuso le lettere. Max s'informò
sul prezzo, e il ciabattino si schiarì la gola e invitò
il ragazzo, alzando la voce per vincere l'insistente martellio
di Sobel, a passare per favore in corridoio dalla porta laterale.
Benché sorpreso, Max obbedì alla preghiera del ciabattino,
e Feld entrò dopo di lui. Per qualche istante tacquero,
perché Sobel aveva smesso di picchiare, e loro due sembravano
convenire che nessuno doveva dir nulla finché il rumore
non avesse ripreso. Quando ciò avvenne, empiendo il locale
di frastuono, il ciabattino spiegò rapidamente a Max perché
gli aveva chiesto di parlargli.
- Fin da quando andavi alle medie, - disse, nel corridoio dalla
luce smorta, - ti guardavo al mattino mentre passavi diretto alla
sotterranea, e mi ripetevo: ecco un bravo ragazzo che ha tanto
amore per l'istruzione.
- Grazie, - disse nervosamente Max, sul chi vive. Era alto e grottescamente
magro, con tratti molto affilati, e in particolare un gran naso
a becco. Portava, come fosse un tappeto drappeggiato intorno alle
spalle ossute, un lungo soprabito infangato che gli cadeva da
tutte le parti e gli arrivava alle caviglie, e un vecchio cappello
marrone, fradicio, malconcio come le scarpe che aveva dato da
riparare.
- Io sono un uomo d'affari, - disse bruscamente il ciabattino
per nascondere il proprio imbarazzo, - e perciò ti spiegherò
subito perché ho voluto parlarti. Ho una ragazza, mia figlia
Miriam (ha diciannove anni) una ragazza molto perbene e anche
tanto carina che quando passa per la strada tutti si voltano a
guardarla. E intelligente, sempre con un libro in mano, e ho pensato
che un ragazzo come te, un ragazzo istruito... ho pensato che
forse ti piacerebbe fare la conoscenza di una ragazza così
-. Rise un po' quand'ebbe finito e fu tentato di dire di più,
ma ebbe il buon senso di tacere.
Max fissava il pavimento come un falco. Per un attimo, pieno di
disagio, tacque, poi domandò: - Ha detto diciannove anni?
- Sì.
- È permesso chiederle se ha una sua fotografia?
- Un momento -. Il ciabattino andò in negozio e ritornò
subito con un'istantanea che Max accostò alla luce.
- Mica male, - disse.
Feld rimase in attesa.
- Ed è una ragazza assennata... non di quei tipi volubili?
- È molto assennata.
Dopo un'altra breve pausa, Max disse che lui non aveva niente
in contrario a fare la sua conoscenza.
- Ecco il mio numero di telefono, - disse il ciabattino, porgendogli
frettolosamente una strisciolina di carta. - Chiamala. Rincasa
dal lavoro alle sei.
Max piegò il foglietto e lo ripose nel logoro portafoglio
di pelle.
- Per le scarpe, - disse. - Quanto ha detto che mi verranno a
costare?
- Non preoccuparti del prezzo.
- Vorrei solo averne un'idea.
- Un dollaro... un dollaro e cinquanta. Un dollaro e cinquanta,
- disse il ciabattino.
Si pentì subito, perché di solito un lavoro del
genere se lo faceva pagare due e venticinque. Avrebbe dovuto chiedere
il prezzo regolare oppure fargli la riparazione gratis.
Più tardi, entrando in negozio, fu sorpreso da un violento
fragore metallico e alzò gli occhi in tempo per vedere
Sobel che picchiava con tutte le sue forze sulla forma nuda. Questa
si ruppe, il ferro sbatté sul pavimento e rimbalzò
contro il muro, ma prima che l'infuriato ciabattino potesse aprire
bocca per gridare, l'aiutante aveva strappato cappello e cappotto
dall'attaccapanni ed era corso fuori nella neve.
Così Feld, che aveva tanto desiderato di sapere come sarebbe
andata tra sua figlia e Max, si trovò invece improvvisamente
assillato da una grande preoccupazione. Senza il suo suscettibile
aiutante era perduto, soprattutto perché da anni, ormai,
non mandava più avanti il negozio da solo. Da molto tempo
il ciabattino era malato di cuore, e doveva evitare ogni strapazzo
eccessivo che lo avrebbe certamente portato al collasso. Cinque
anni prima, dopo un attacco, si trovò in condizione o di
mettere all'asta la bottega e vivere d'elemosina per il resto
dei suoi giorni, o di porsi alla mercé di qualche dipendente
senza scrupoli che alla fine probabilmente lo avrebbe rovinato.
Ma proprio nel momento della sua disperazione più nera,
quel profugo polacco, Sobel, era sbucato fuori una sera dal buio
della strada implorando lavoro. Era un uomo tarchiato, miseramente
vestito, con una testa calva che un tempo era stata bionda, un
viso grave e brutto e dolci occhi azzurri pronti a lacrimare sui
tristi libri che leggeva, un giovane già vecchio: nessuno
gli avrebbe dato trent'anni. Pur confessando di non intendersi
affatto di scarpe, egli disse che era sveglio e avrebbe lavorato
per molto poco se Feld gli avesse insegnato il mestiere. Pensando
che, dopo tutto, da un compatriota avrebbe avuto meno da temere
che da un perfetto estraneo, Feld lo prese alle sue dipendenze
e in capo a sei settimane il profugo sapeva risuolare una scarpa
bene quanto lui, e non molto tempo dopo mandava avanti abilmente
il negozio per il ciabattino che poté finalmente tirare
un sospiro di sollievo.
Di lui Feld poteva fidarsi ciecamente e così, dopo un'ora
o due in negozio, spesso se n'andava a casa lasciando tutti i
soldi in cassa, sapendo che Sobel li avrebbe custoditi fino all'ultimo
centesimo. La cosa più strana era che quell'uomo chiedeva
così poco. Scarsi erano i suoi bisogni; i soldi non gli
interessavano; pareva che gli importasse solo dei libri, che prestava
a Miriam, uno a uno, insieme ai commenti di suo pugno, strani
e abbondanti, composti durante le sue solitarie serate in una
camera ammobiliata, fitti quaderni d'appunti che il ciabattino
sfogliava, alzando le spalle in segno di perplessità, mentre
sua figlia, dall'età di quattordici anni, li leggeva pagina
per pagina, religiosamente, come se recassero inciso il verbo
di Dio. Toccava a Feld provvedere a che Sobel ricevesse più
di quanto chiedeva. Però gli rimordeva la coscienza per
non aver convinto l'aiutante ad accettare un salario migliore,
anche se onestamente gli aveva detto che avrebbe potuto guadagnare
una buona paga se avesse lavorato altrove, o magari aperto un
negozio in proprio. Ma Sobel rispondeva, piuttosto sgarbatamente,
che non aveva nessuna voglia di andare altrove, e sebbene Feld
si fosse chiesto sovente: cos'è che lo tiene qui? perché
rimane? Alla fine si era persuaso che Sobel, senza dubbio a causa
delle sue terribili esperienze di profugo, aveva paura del mondo.
Dopo l'incidente della forma fracassata, infastidito dall'atteggiamento
di Sobel, il ciabattino decise di lasciarlo per una settimana
a cuocere nel suo brodo, nella camera ammobiliata, anche se questo
comportò una grave prova per la sua salute e gli affari
ne soffersero. Però, dopo vari acerbi rimbrotti da parte
della moglie e della figlia, andò finalmente in cerca di
Sobel, come aveva fatto già una volta, pochissimo tempo
prima, quando per un immaginario affronto - Feld lo aveva solo
pregato di non dare a Miriam tanti libri da leggere perché
i suoi occhi erano rossi e affaticati - l'aiutante l'aveva piantato
in asso pieno di stizza; un incidente che, come al solito, era
finito in una bolla di sapone perché dopo un colloquio
col ciabattino, Sobel era tornato a prendere il proprio posto
al deschetto. Ma questa volta, dopo che Feld si fu fatto a fatica
largo nella neve fino alla casa di Sobel - aveva pensato di mandare
Miriam ma subito l'idea gli era parsa ripugnante - la corpulenta
padrona di casa sulla porta lo informò con voce nasale
che Sobel non era in casa, e sebbene Feld sapesse che era una
bugia bella e buona (dove poteva mai andare il profugo?), tuttavia
per qualche ragione di cui lui stesso non si rese ben conto -
poteva essere colpa del freddo e della sua stanchezza - decise
di non insistere per vederlo. Tornò a casa, invece, e assunse
un nuovo aiutante.
Così la faccenda era sistemata, anche se non in modo del
tutto soddisfacente. Feld, infatti, aveva assai più da
fare di prima, e al mattino, per esempio, non poteva più
poltrire a letto, dovendo andare ad aprire al nuovo aiutante,
un uomo bruno e taciturno con un irritante respiro affannoso,
al quale non poteva fidarsi di dare la chiave come aveva sempre
fatto con Sobel. Per giunta era un tipo capace di fare bene le
riparazioni, ma che non s'intendeva affatto di prezzi o di qualità
del cuoio, e così Feld doveva occuparsi personalmente degli
acquisti; e ogni sera al momento di sospendere il lavoro era necessario
contare il danaro nel cassetto e chiudere tutto a chiave. Però
Feld non era malcontento, perché passava gran parte della
giornata pensando a Max e Miriam. Lo studente le aveva telefonato,
e avevano fissato un appuntamento per la sera del venerdì
successivo. Il ciabattino avrebbe preferito il sabato, che secondo
lui ne avrebbe fatto una data di prima grandezza, ma venne a sapere
che era stata Miriam a scegliere il venerdì, e non disse
nulla. Il giorno della settimana non contava. Quel che contava
era il seguito. Si sarebbero piaciuti, avrebbero desiderato diventare
amici ? Sospirò pensando a tutto il tempo che sarebbe passato
prima che lui potesse saperlo con certezza. Spesso era tentato
di parlarne con Miriam e di domandarle se pensava che il giovane
le sarebbe piaciuto - le aveva detto soltanto che Max gli sembrava
un bravo ragazzo e che gli aveva suggerito lui di telefonarle
- ma l'unica volta che ci si provò lei gli rispose soltanto,
e seccamente, come faceva a saperlo?
Finalmente giunse il venerdì. Feld non si sentiva molto
bene e rimase a letto, e la signora Feld ritenne opportuno restare
in camera con lui quando Max suonò alla porta. Miriam fece
gli onori di casa, e i suoi genitori udirono le loro voci (quella
di lui era gutturale), mentre parlavano. Un attimo prima di uscire,
Miriam accompagnò Max sulla soglia della stanza da letto
e lui vi si fermò un momento, una figura allampanata, leggermente
curva sotto l'abito pesante, sformato, e apparentemente disinvolta
mentre salutava il ciabattino e la moglie, il che era senz'altro
di buon augurio. E Miriam, pur avendo lavorato tutto il giorno,
aveva un'aria fresca e graziosa. Era una ragazza dall'ossatura
robusta con un corpo ben fatto, un bel viso aperto e capelli morbidi.
Facevano, pensò Feld, una coppia di prim'ordine.
Miriam tornò dopo le undici e mezza. Sua madre dormiva
già, ma il ciabattino scese dal letto e dopo aver rintracciato
a tentoni la vestaglia andò in cucina, dove, con grande
sorpresa, trovò Miriam che leggeva seduta al tavolo.
- E allora, dove siete andati? - chiese affabilmente Feld.
- A fare quattro passi, - rispose lei, senza alzare lo sguardo.
- Gliel'ho consigliato io, - disse Feld, schiarendosi la gola,
- di non spendere troppo.
- Oh, per me...
Il ciabattino mise su un po' d'acqua per il tè e poi si
sedette a tavola davanti alla tazza piena, con dentro una spessa
fetta di limone.
- E allora, - sospirò, dopo un sorso, - ti sei divertita
?
- È andato tutto bene.
Lui tacque. Lei dovette avvertire il suo disappunto, perché
aggiunse: - Non si può dire molto, la prima volta.
- Lo rivedrai?
Voltando pagina, lei disse che Max le aveva chiesto un altro appuntamento.
- Per quando?
- Sabato.
- E tu che hai detto?
- Che ho detto ? - domandò lei, per prender tempo: - Ho
detto di sì.
Poi gli chiese notizie di Sobel, e Feld, chissà perché,
disse che l'aiutante s'era trovato un altro posto. Miriam non
disse nulla e riprese la lettura. Al ciabattino non rimordeva
la coscienza; era soddisfatto dell'appuntamento per il sabato.
Durante la settimana, infilando qua e là un'abile domanda,
riuscì a cavare da Miriam qualche informazione su Max.
Lo sorprese la notizia che il ragazzo non studiava da medico o
avvocato ma frequentava un corso commerciale per prendere un diploma
in ragioneria. Feld rimase un po' deluso perché considerava
i ragionieri dei contabili e avrebbe preferito "una professione
più elevata". Però, poco dopo s'informò
sull'argomento e scoprì che i ragionieri in possesso di
regolare diploma erano persone degne del più alto rispetto,
e così ritrovò tutta la sua contentezza mentre il
sabato si avvicinava. Ma poiché il sabato era un giorno
di molto lavoro, passò quasi tutto il tempo in negozio
e non vide Max quando venne a prendere Miriam. Seppe dalla moglie
che non c'era stato nulla di particolarmente significativo nel
loro incontro. Max aveva suonato il campanello e Miriam s'era
messa il cappotto ed era uscita con lui: nient'altro. Feld non
indagò oltre, giacché sua moglie non aveva molto
spirito d'osservazione. Attese invece il ritorno di Miriam con
un giornale sulle ginocchia, al quale diede appena una scorsa
tanto era assorto nei suoi pensieri sull'avvenire. Si svegliò
in tempo per vedersela nella stanza, mentre si toglieva il cappello
con un gesto stanco. Salutandola, lo prese un'improvvisa, inesplicabile
paura di chiederle della serata. Ma poiché lei non gli
dava spontaneamente nessuna notizia fu infine costretto a domandarle
se s'era divertita. Miriam cominciò un vago discorso ma
evidentemente cambiò idea, perché disse dopo un
istante: - Mi sono annoiata.
Quando Feld si fu ripreso dalla sua angosciata delusione tanto
da chiedere perché, lei rispose senza esitare: - Perché
non è altro che un materialista.
- Che significa questa parola?
- È senz'anima. Gli interessano soltanto le cose. Lui rifletté
a lungo su questa dichiarazione ma poi disse: - Lo rivedrai?
- Lui non me lo ha chiesto. E se te lo chiedesse?
- No.
Non si provò a discutere; però, col passare dei
giorni crebbe la sua speranza che lei cambiasse idea. Si augurò
che il ragazzo telefonasse, perché era certo che valeva
più di quanto Miriam, nella sua inesperienza, potesse immaginare.
Ma Max non si fece vivo. Prese anzi un'altra strada per andare
a scuola, senza più passare davanti al negozio del ciabattino,
e Feld rimase profondamente ferito.
Poi un pomeriggio Max entrò per ritirare le sue scarpe.
Il ciabattino le tolse dallo scaffale dove le aveva messe, separate
dalle altre paia. Aveva eseguito il lavoro personalmente e le
suole e i tacchi erano solidi e ben fatti. Le scarpe erano state
perfettamente lucidate ed erano tornate nuove. Il pomo d'Adamo
di Max andò su e giù quando le vide, e gli brillarono
gli occhi.
- Quanto fa? - domandò, senza guardare in faccia il ciabattino.
- Come ti ho già detto, - rispose tristemente Feld. - Un
dollaro e cinquanta.
Max gli porse due biglietti stropicciati e ricevette in cambio
una moneta d'argento da mezzo dollaro nuova di zecca.
Uscì. Di Miriam. non aveva fatto parola. Quella sera il
ciabattino scoprì che il suo nuovo aiutante l'aveva derubato
in continuazione, e fu colto da un attacco di cuore.
Benché l'attacco fosse molto lieve, rimase a letto per
tre settimane. Miriam si offerse di andare in cerca di Sobel,
ma malato com'era Feld respinse irosamente l'idea. Eppure in cuor
suo sapeva che non c'era altra soluzione, e la prima estenuante
giornata che passò in negozio lo convinse del tutto, sì
che la sera stessa, dopo cena, si trascinò fino da Sobel.
Arrancò su per le scale, pur sapendo che erano un veleno
per lui, e quando fu in cima bussò all'uscio. Sobel aprì
e il ciabattino entrò. La stanza era piccola e misera,
con una sola finestra che dava sulla strada. Conteneva una branda,
un tavolo basso e parecchie pile di libri accatastati alla rinfusa
sul pavimento lungo la parete, che gli fecero pensare alla singolarità
d'un tipo come Sobel, che non era istruito eppure leggeva tanto.
Una volta gli aveva chiesto: Sobel, perché leggi tanto?
e l'aiutante non era stato in grado di rispondergli. Hai mai studiato
da qualche parte? gli aveva domandato, ma Sobel aveva scosso la
testa. Leggeva, aveva risposto, per sapere. Ma per sapere che
cosa, aveva domandato il ciabattino, e perché per sapere
? Sobel non aveva mai dato una spiegazione, il che dimostrava
che leggeva molto perché era un tipo eccentrico.
Feld si mise a sedere per riprender fiato. L'aiutante riposava
sul letto con la schiena massiccia contro la parete. Camicia e
calzoni erano puliti, e le sue dita tozze, lontano dal deschetto
da calzolaio, erano stranamente pallide. Anche la faccia era smunta,
come se fosse rimasto chiuso in quella stanza dal giorno in cui
era uscito come un razzo dal negozio.
- Allora, quando torni al lavoro? - gli chiese Feld. Con sua sorpresa,
Sobel esclamò: - Mai.
Balzando in piedi, s'avvicinò a lunghi passi alla finestra
che dava sulla misera viuzza. - Perché dovrei tornare?
- gridò.
- Ti aumenterò la paga.
- Chi se ne frega della sua paga!
Il ciabattino, sapendo che era proprio così, non trovò
nulla da dire.
- Che vuoi da me, Sobel?
- Niente.
- Ti ho sempre trattato come un figlio.
Sobel impetuosamente lo smentì. - Allora perché
cerca per la strada dei ragazzi sconosciuti da far uscire con
Miriam? Perché non pensa a me?
Le mani e i piedi del ciabattino si fecero di gelo. La sua voce
divenne così rauca che non riuscì ad articolare
parola. Finalmente si schiarì la gola e gracchiò:
- Che c'entra mia figlia con un ciabattino di trentacinque anni
che lavora per me?
- Perché crede che abbia lavorato tanto per lei? - esclamò
Sobel. - Con la paga miserabile che mi dà, crede che abbia
sacrificato cinque anni della mia vita perché lei avesse
da mangiare e da bere e un posto per dormire ?
- E perché, allora? - urlò il ciabattino.
- Per Miriam, - esplose. - Per Miriam.
Il ciabattino, dopo una pausa, riuscì a dire: - Io pago
in contanti, Sobel, - e ripiombò nel silenzio. Pur bollendo
di rabbia, la sua mente era fredda e chiara, e dovette riconoscere,
tra sé, d'aver sempre intuito quali erano i sentimenti
di Sobel. Non era mai arrivato al punto di pensarlo coscientemente,
ma l'aveva sentito, e aveva paura.
- Miriam lo sa? - mormorò con voce rauca.
- Lo sa.
- Glielo hai detto tu?
- No.
- E allora come lo sa?
- Come lo sa? - disse Sobel. - Perché lo sa. Sa chi sono
e che cosa ho in cuore.
D'un tratto Feld ricollegò tutto. In qualche modo, tortuosamente,
con i suoi libri e i suoi commenti, Sobel aveva fatto intendere
a Miriam che l'amava. Il ciabattino provò un'ira tremenda
verso di lui per questo inganno.
- Sobel, tu sei matto, - disse, aspro. - Lei non sposerà
mai un uomo vecchio e brutto come te.
Sobel si fece nero di rabbia. Insultò il ciabattino, ma
poi, pur tremando dallo sforzo di trattenerle, gli occhi gli si
empirono di lacrime e scoppiò in violenti singhiozzi.
Volgendo la schiena a Feld, rimase alla finestra, coi pugni serrati
e le spalle squassate dal pianto soffocato.
Guardandolo, la collera del ciabattino diminuì. Gli si
allegavano i denti dalla compassione che gli faceva quell'uomo,
e gli si inumidirono gli occhi. Com'era strano e triste che un
profugo, un uomo adulto, calvo e vecchio per tutti i guai che
aveva avuto, scampato per un pelo ai forni crematori di Hitler,
dovesse innamorarsi, una volta in America, d'una fanciulla che
aveva meno della metà dei suoi anni. Giorno per giorno,
per cinque anni s'era seduto al deschetto, a tagliare e martellare
senza tregua, in attesa che la fanciulla diventasse una donna,
incapace di alleggerire il suo cuore con le parole, non conoscendo
altra protesta che la disperazione.
- Non volevo dire brutto, - disse a mezza voce.
Allora si rese conto che ciò che aveva definito brutto
non era Sobel ma la vita di Miriam se l'avesse sposato. Provò
per sua figlia un dolore strano e lancinante, come se fosse già
la sposa di Sobel, la moglie, dopo tutto, d'un ciabattino, destinata
a non avere dalla vita più di quello che aveva avuto sua
madre. E tutti i suoi sogni per lei - perché si era logorato
e distrutto il cuore a furia d'ansìe e di fatiche - tutti
questi sogni d'una vita migliore erano morti.
La stanza taceva. Sobel era in piedi davanti alla finestra e leggeva,
ed era proprio curioso che quando leggeva sembrasse così
giovane.
- Ha solo diciannove anni, - disse Feld, con voce rotta. - E ancora
troppo giovane per sposarsi. Non chiederglielo per altri due anni,
finché non ne avrà ventuno, e allora le potrai parlare.
Sobel non rispose. Feld si levò in piedi e uscì.
Scese lentamente le scale ma una volta fuori, benché fosse
una gelida serata e la neve farinosa, cadendo, imbiancasse la
via, camminò con passo piú energico.
Ma l'indomani mattina, quando il ciabattino andò, col cuore
gonfio, ad aprire il negozio, vide che avrebbe potuto farne a
meno, perché il suo aiutante era già seduto al deschetto,
e pestava il cuoio per il suo amore.
(Tratto
dalla raccolta Tutti i racconti, 1940 - 1962, Einaudi,
Torino, 2001, traduzione di Vincenzo Mantovani. Il racconto I
primi sette anni è stato scritto nel 1950.)
Bernard Malamud nacque a Brooklyn nel 1914 sa una famiglia
di ebrei russi emigrati. Nel 1942 si laureò presso la Columbia
University e di lì a poco, parallelamente al lavoro di
insegnante che svolse per tutta la vita, cominciò a pubblicare
le sue short stories dapprima su piccole riviste, poi su periodici
più famosi. Ha pubblicato, tra altre, le raccolte di racconti
Il barile magico (1964), Prima gli idioti (1966),
La Venere di Urbino (1973), e i romanzi Il commesso,
Una nuova vita, L'uomo di Kiev, Gli inquilini, Le vite di Dublin
e Dio mio, grazie. Malamud morì nel 1986 lasciando
Il popolo, il suo ultimo romanzo, incompiuto.
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