NESSUNO
MUORE MAI
Ernest
Hemingway
La
casa aveva un intonaco rosa che si era scrostato e sbiadito con
l'umidità e dalla veranda potevi vedere il mare, molto
azzurro, in fondo alla strada. Lungo il marciapiede c'erano piante
d'alloro cresciute sino a ombreggiare la parte superiore della
veranda e all'ombra faceva fresco. In un angolo della veranda
era appeso un uccello mimo in una gabbia di vimini, ma adesso
non stava cantando, e nemmeno cinguettando, perché un giovane
sui ventotto anni, snello, scuro, con cerchi bluastri sotto gli
occhi e una barbetta ispida, si era appena tolto un maglione e
lo aveva steso sopra la gabbia. Adesso il giovane era in piedi,
con la bocca socchiusa, e ascoltava. Qualcuno stava cercando di
aprire la porta d'ingresso, chiusa a chiave e col catenaccio.
Ascoltando, udì il vento tra gli allori vicino alla veranda,
il clacson di un taxi che stava arrivando sulla strada e le voci
dei bambini che giocavano in un terreno incolto. Poi udì
di nuovo una chiave girare nella toppa della porta d'ingresso,
udì aprire la porta, udì tirare la porta contro
il catenaccio e poi girare ancora la chiave nella serratura. Contemporaneamente
udì il rumore di una mazza da baseball contro una palla
e stridule grida in spagnolo dal terreno incolto. Rimase lì,
inumidendosi le labbra, ad ascoltare, mentre qualcuno cercava
di aprire la porta posteriore.
Il giovane, che si chiamava Enrique, si tolse le scarpe e, dopo
averle posate a terra con molta cautela, avanzò in punta
di piedi sulle piastrelle della veranda sin dove poteva guardare
dall'alto la porta posteriore. Non c'era nessuno, Tornò,
sempre muovendosi con circospezione, alla parte anteriore della
casa e, cercando di non farsi vedere, guardò verso la strada.
Un negro con un cappello di paglia dalla tesa stretta e dalla
cupola piatta, una giacca grigia di alpaca e pantaloni neri, stava
camminando sul marciapiede sotto le piante d'alloro. Enrique guardò,
ma non c'era nessun altro. Restò li un po' a guardare e
ascoltare, poi tolse il maglione dalla gabbia e se lo mise.
Aveva sudato molto mentre ascoltava, ma adesso aveva freddo, all'ombra
e col vento fresco di nordest. Il maglione copriva una fondina
a tracolla di cuoio, cerchiata e scolorita dalla traspirazione,
dove teneva una Colt calibro quarantacinque che, con la sua pressione
costante, gli aveva fatto venire un foruncolo poco sotto l'ascella.
Si sdraiò su una branda di tela appoggiata al muro della
casa. Stava ancora ascoltando.
L'uccello cinguettò e saltellò nella gabbia e il
giovane alzò gli occhi per guardarlo. Poi si alzò,
sollevò il gancio della gabbia e l'aprì. L'uccello
alzò il capo davanti alla porta aperta e lo tirò
indietro, ma poi di scatto lo spinse di nuovo avanti, con il becco
piegato.
"Su" disse sottovoce il giovane. "Non è
un trucco."
Infilò una mano nella gabbia e l'uccello volò verso
il fondo, battendo le ali negli spazi tra una sbarra e l'altra.
"Sei proprio uno stupido" disse il giovane. Tirò
fuori le mani dalla gabbia. "La lascerò aperta."
Giaceva bocconi sulla branda, con il mento sulle braccia incrociate,
e stava ancora ascoltando. Udì l'uccello volar via dalla
gabbia e poi lo udì cantare su uno degli allori.
"È idiota tenere l'uccello se si vuoi far credere
che la casa sia vuota" pensò. "Sono queste le
stupidaggini che mettono nei guai. Come posso prendermela con
gli altri se sono così cretino?"
Sul terreno incolto i ragazzi stavano ancora giocando a baseball
e adesso faceva molto fresco. Il giovane slacciò la fondina
a tracolla di cuoio e posò la grossa pistola accanto a
una gamba. Poi s'addormentò.
Quando si svegliò, era buio e il lampione all'angolo splendeva
attraverso le foglie degli allori. Si alzò e si spostò
davanti alla casa e, restando all'ombra e al riparo del muro,
guardò la strada in entrambe le direzioni. Un uomo con
un cappello di paglia dalla tesa stretta e dalla cupola piatta
era in piedi all'angolo sotto un albero. Enrique non poteva vederne
la giacca e i pantaloni, ma era un negro.
Enrique corse subito verso il fondo della veranda, ma li non c'era
luce, se non quella che si rifletteva sul prato pieno d'erbacce
dalle finestre posteriori delle due case accanto. Lì dietro
poteva benissimo esserci una quantità di gente. Lui lo
immaginava, in quanto non poteva più udire bene come nel
pomeriggio, perché c'era una radio in funzione nella seconda
casa dopo quella.
Giunse all'improvviso il crescendo meccanico di una sirena e il
giovane senti un formicolio percorrergli il cuoio capelluto. Si
manifestò all'improvviso come un rossore, gli diede una
formicolante sensazione di calore e sparì in fretta come
era venuto. La sirena giungeva dalla radio; faceva parte di un
comunicato pubblicitario e ad essa seguì la voce di un
annunciatore: "Dentifricio Gavis. Inalterabile, insuperabile,
il migliore".
Enrique sorrise nel buio. Era ora che arrivasse qualcuno.
Dopo la sirena fu la volta degli annunci registrati di un neonato
che piangeva e che, secondo l'annunciatore, si sarebbe calmato
col Malta-Malta, seguito dal clacson di una macchina e da un cliente
che chiedeva della benzina verde. "Non mi racconti frottole.
Ho chiesto benzina verde. Più economica, più chilometri.
La migliore."
Enrique conosceva a memoria tutti gli annunci pubblicitari. Non
erano cambiati nei quindici mesi in cui era stato lontano per
la guerra; alla stazione radio dovevano ancora usare gli stessi
dischi, eppure la sirena lo aveva ingannato e gli aveva provocato
quel lieve e momentaneo formicolio al cuoio capelluto che era
una evidente reazione al pericolo come quella di un cane da caccia
che s'irrigidisce nel percepire il caldo odore di una quaglia.
Nei primi tempi non sentiva questo formicolio. Il pericolo e la
paura del pericolo allora gli davano una sensazione di vuoto allo
stomaco. Lo facevano sentire debole come si è deboli con
la febbre e aveva conosciuto l'incapacità di muoversi;
quando devi fare uno sforzo per spostare in avanti gambe che ti
sembrano morte come se si fossero addormentate. Tutto questo era
ormai scomparso e ora faceva senza problemi ciò che doveva
fare. Il formicolio era tutto ciò che restava dell'enorme
capacità d'aver paura che hanno all'inizio certi uomini
coraggiosi. Era la sua sola reazione superstite al pericolo, a
parte la traspirazione di cui, ormai lo sapeva, avrebbe sempre
sofferto, e che ora serviva da avvertimento e nient'altro.
Mentre se ne stava lì a guardare l'albero dove l'uomo col
cappello di paglia si era intanto seduto, sul marciapiede, una
pietra cadde sul pavimento a piastrelle della veranda. Enrique
la cercò contro il muro ma non la trovò. Passò
la mano sotto la branda, ma non era neanche lì. Quando
s'inginocchiò, un altro ciottolo cadde sul pavimento a
piastrelle, rimbalzò e rotolò nell'angolo verso
il lato della casa e poi in strada. Enrique lo raccolse. Era un
normale ciottolo dalla superficie liscia, e lui se lo mise in
tasca ed entrò in casa e scese le scale sino alla porta
posteriore.
Si fermò accanto alla porta ed estrasse la Colt dalla fondina
e la tenne, pesante nella sua mano.
"La vittoria" disse molto piano in spagnolo, con una
bocca che disprezzava questa parola, e si spostò silenziosamente
a piedi nudi sull'altro lato della porta.
"A quelli che la guadagnano" disse qualcuno di fuori.
Era una voce di donna che pronunciava la seconda metà della
parola d'ordine, e parlava svelta e malsicura.
Enrique tirò indietro il doppio catenaccio e aprì
la porta con la mano sinistra, sempre tenendo la Colt nella destra.
Lì al buio c'era una ragazza con un paniere. Aveva un fazzoletto
in testa.
"Salve" disse lui e chiuse la porta e la sprangò
col chiavistello. Poi le prese il paniere e le accarezzò
una spalla. "Enrique" disse lei, e lui non poteva vedere
come luccicavano i suoi occhi e neanche l'espressione del suo
viso.
"Vieni di sopra" disse lui. "C'è qualcuno
che sorveglia la facciata della casa. Ti ha vista?"
"No" disse lei. "Sono passata dal terreno incolto."
"Adesso te lo mostro. Vieni sulla veranda."
Salirono la scala, Enrique con il paniere. Lo posò accanto
al letto e si spostò sul bordo della veranda per guardare.
Il negro con il cappello dalla tesa stretta e dalla cupola piatta
era sparito.
"Già" disse pacatamente Enrique.
"Già cosa?" domandò la ragazza, che ora
gli si era aggrappata a un braccio e guardava fuori.
"Già, è andato via. Cosa c'è da mangiare?"
"Mi dispiace che tu sia rimasto solo tutto il giorno"
disse lei. "È stato stupido aspettare il buio per
venire. Era tutto il giorno che lo desideravo."
"È stato stupido anche venire qui. Mi ci hanno portato
dalla barca prima dell'alba e mi hanno lasciato, con una parola
d'ordine e niente da mangiare, in una casa sorvegliata. Non si
può mangiare una parola d'ordine. Non avrebbero dovuto
mandarmi in una casa sorvegliata per altre ragioni. È molto
cubano. Ma almeno ai vecchi tempi mangiavamo. Come stai, Maria?"
Al buio lei lo baciò con forza sulla bocca. Enrique sentì
la pienezza delle sue labbra e il corpo di lei che rabbrividiva
contro il suo, e poi ci fu la fitta alle reni.
"Ahi! Sta' attenta."
"Che c'è?"
"La schiena."
"Come la schiena? È una ferita?"
"Dovresti vederla" disse lui.
"Posso vederla adesso?"
"Dopo. Prima dobbiamo mangiare e andarcene da qui. Cos'hanno
depositato in questa casa?"
"Tante cose. Cose avanzate dal fiasco di aprile. Cose tenute
in serbo per il futuro."
"Il futuro lontano" disse lui. "Sapevano che era
sorvegliata?"
"Sono sicura di no."
"Cosa c'è lì?"
"Dei fucili nelle loro custodie. Delle scatole di munizioni."
"Bisognerebbe portar via tutto stasera." Aveva la bocca
piena. "Ci vorranno anni di lavoro prima che ci servano di
nuovo."
"Ti piace l'escabeche?"
" È molto buono. Siediti vicino a me."
" Enrique" disse lei, sedendosi stretta accanto a lui.
Gli posò una mano sulla coscia e con l'altra gli accarezzò
la nuca. "Il mio Enrique."
"Attenta a come mi tocchi" disse lui, mangiando. "Mi
duole la schiena."
"Sei contento d'essere tornato dalla guerra?"
"Non ci ho ancora pensato" disse lui.
"Enrique, come sta Chucho?"
"Morto a Lérida."
"Felipe?"
"Morto. Anche lui a Lérida."
"E Arturo?"
"Morto a Teruel."
"E Vicente?" domandò lei con voce neutra e con
le mani ora intrecciate sulla coscia di lui.
"Morto. Nell'attacco alla strada di Celadas."
"Vicente è mio fratello." Ora sedeva rigida e
sola, con le mani staccate da lui.
"Lo so" disse Enrique. Continuò a mangiare.
"E il mio unico fratello."
"Pensavo che lo sapessi" disse Enrique.
"Non lo sapevo ed è mio fratello."
"Mi dispiace, Maria. Avrei dovuto dirtelo in un altro modo."
"Ed è morto? Sei sicuro che sia morto? Non è
solo una voce?"
"Senti, Rogello, Basilio, Esteban, Felo e io siamo vivi.
Gli altri sono morti."
"Tutti?"
"Tutti" disse Enrique.
"Non lo sopporto" disse Maria. "Scusami, non lo
sopporto."
"Non serve a niente parlarne. Sono morti."
"Non è solo che Vicente è mio fratello. Posso
rinunciare a mio fratello. Ma è il fiore del nostro partito."
"Si. Il fiore del partito."
"Non ne è valsa la pena. Ha distrutto i migliori."
"Sì. Ne è valsa la pena."
"Come puoi dire questo? È criminale."
"No. Ne è valsa la pena."
Adesso lei stava piangendo e Enrique continuava a mangiare. "Non
piangere" disse. "La cosa da fare è lavorare
per prendere il loro posto."
"Ma è mio fratello. Non lo capisci? Mio fratello."
"Siamo tutti fratelli. Alcuni sono morti e altri vivono ancora.
Adesso ci mandano a casa, così resterà qualcuno.
Se no, non ci sarebbe più nessuno. Ora dobbiamo lavorare."
"Ma perché sono stati uccisi tutti?"
"Eravamo in una divisione d'attacco. O ti uccidono o ti feriscono.
Noi altri siamo stati feriti."
"Come è stato ucciso Vicente?"
"Stava attraversando la strada quando fu colpito da una mitragliatrice
che sparava da una casa colonica sulla destra. La strada era battuta
d'infilata da quella casa."
"Tu eri lì?"
"Sì. Avevo la prima compagnia. Eravamo alla sua destra.
Prendemmo la casa, ma ci volle un po' di tempo. Avevano tre mitragliatrici
lì. Due nella casa, una nella stalla. Era difficile avvicinarsi.
Avremmo avuto bisogno di un carro armato che facesse fuoco contro
la finestra prima che noi assaltassimo l'ultima mitragliatrice.
Io persi otto uomini. Troppi."
"E dove è successo questo?"
"A Celadas."
"Mai sentita nominare."
"No" disse Enrique. "L'operazione non fu un successo.
Nessuno ne sentirà mai parlare. Fu lì che rimasero
uccisi Vicente e Ignacio."
"E tu dici che queste cose sono giustificate? Che uomini
come loro dovrebbero morire in operazioni fallite in un paese
straniero?"
"Non esistono paesi stranieri, Maria, dove la gente parla
spagnolo. Dove muori non ha importanza, se muori per la libertà.
E comunque quel che si deve fare è vivere, non morire."
"Ma pensa a quelli che sono morti - lontano da qui - in operazioni
fallite."
"Non ci andarono per morire. Ci andarono per combattere.
La morte è un incidente."
"Ma i fallimenti? Mio fratello è morto in un fallimento.
Chucho in un fallimento. Ignacio in un fallimento."
"Sono solo una parte. Certe cose che dovevamo fare erano
impossibili. Molte che sembravano impossibili le facemmo. Ma a
volte le persone al tuo fianco non attaccavano. A volte non c'era
abbastanza artiglieria. A volte ci ordinavano di fare cose senza
che avessimo forze sufficienti - come a Celadas. Tutto questo
provoca fallimenti. Ma alla fine non fu un fallimento."
Lei non rispose e lui finì di mangiare.
Il vento tra gli alberi era fresco e sulla veranda faceva freddo.
Lui rimise i piatti nel paniere e si asciugò la bocca col
tovagliolo. Si asciugò meticolosamente anche le mani e
cinse con un braccio la ragazza. Che stava piangendo.
"Non piangere, Maria" disse. "Quel che è
stato è stato. Dobbiamo pensare a quel che c'è da
fare. C'è tanto da fare."
Lei non disse niente e, alla luce del lampione, Enrique poté
vedere il suo viso che guardava fisso davanti a sé.
"Parli come un libro" disse lei. "Non come un essere
umano."
"Scusami" disse lui. "Sono le sole lezioni che
ho imparato. Sono le cose che so che si devono fare. Per me questo
è più reale di qualsiasi altra cosa."
"Per me sono reali solo i morti" disse lei.
"Noi li onoriamo. Ma non sono importanti."
"Parli di nuovo come un libro" disse lei con rabbia.
"Il tuo cuore è un libro."
"Mi dispiace, Maria. Pensavo che avresti capito."
"Io capisco solo i morti" disse lei.
Enrique sapeva che non era vero perché lei non li aveva
visti morti, come lui, sotto la pioggia tra gli uliveti di Jarama,
nell'afa tra le case distrutte di Quijorna e nella neve di Teruel.
Ma sapeva che ce l'aveva con lui perché era vivo mentre
Vicente era morto e all'improvviso - nella piccola parte non condizionata
di sé che gli rimaneva e della cui presenza non era consapevole
- si senti profondamente ferito.
"C'era un uccello" disse. "Un uccello mimo in una
gabbia."
"Sì."
"L'ho lasciato andare."
"Come sei gentile!" disse lei con disprezzo. "Sono
tutti sentimentali i soldati?"
"Io sono un buon soldato."
"Lo credo. Basta sentirti parlare. Che specie di soldato
era mio fratello?"
"Ottimo. Più allegro di me. Io non ero allegro. È
un difetto."
"Ma tu pratichi l'autocritica e parli come un libro."
"Sarebbe meglio se fossi più allegro" disse lui.
"Non ho mai imparato."
"E gli allegri sono tutti morti."
"No" disse lui. "Basilio è allegro."
"Allora morirà" disse lei.
"Maria? Non parlare così. Parli come una disfattista."
"E tu parli come un libro" gli disse lei. "Per
favore non toccarmi. Tu hai il cuore arido e io ti odio."
Si sentì di nuovo ferito, lui che aveva pensato che il
suo cuore fosse arido e che niente l'avrebbe mai più ferito
se non il male, e seduto sul letto si sporse in avanti.
"Tirami su il maglione" disse.
"Non voglio."
Se lo tirò su lui da dietro e si piegò. "Maria,
guarda" disse. "Questo non viene da un libro."
Lasciò che le sue dita toccassero quell'enorme e profonda
cavità dove si sarebbe potuta conficcare una palla da baseball,
quella grottesca cicatrice in cui il chirurgo aveva spinto il
pugno inguantato di gomma per pulire la ferita, che si prolungava
da un rene all'altro. Ora lei lo stava abbracciando stretto e
lo baciava e le sue labbra erano un'isola nell'improvviso mare
bianco del male che arrivò in una lucente, insopportabile,
crescente, accecante ondata e lo spazzò via. Le labbra
lì, ancora lì; poi travolto, e il male sparito,
si trovò seduto, solo, madido di sudore, e Maria piangeva
e diceva: "Oh, Enrique. Perdonami. Ti prego, perdonami".
"Lascia stare" disse Enrique. "Non c'è niente
da perdonare. Ma non veniva da un libro."
"Ti fa male sempre?"
"Solo quando mi toccano o mi urtano."
"E il midollo spinale?"
"È stato appena toccato. Anche le reni, ma sono a
posto. La scheggia di granata è entrata da una parte e
uscita dall'altra. Ci sono anche altre ferite, più in basso
e sulle gambe."
"Enrique, ti prego, perdonami."
"Non c'è niente da perdonare. Ma non è tanto
bello non poter fare l'amore e mi dispiace di non essere allegro."
"Faremo l'amore quando sarà guarita."
"Sì."
"E guarirà."
"Sì."
"E io mi prenderò cura di te."
"No. Io mi prenderò cura di te. Non m'importa di questa
cosa. Mi fa solo male quando mi toccano o mi urtano. Non mi dà
fastidio. Ora dobbiamo lavorare. Dobbiamo lasciare subito questa
casa. Tutto quello che c'è qui bisogna portarlo via stanotte.
Deve essere depositato in un posto nuovo e insospettato, dove
non si deteriori. Passerà molto tempo prima che ci occorra.
C'è tanto da fare prima che si arrivi di nuovo a quella
fase. Dobbiamo educare molta gente. E a quel punto può
darsi che queste cartucce non servano più. Il clima rovina
i fulminanti. Ma adesso dobbiamo andarcene. Sono stato uno stupido
a restare qui così a lungo e lo stupido che mi ci ha mandato
dovrà risponderne al comitato."
"Io ti porterò là stanotte. Pensavano che per
oggi questa casa fosse sicura."
"È una follia questa casa."
"Andremo via subito."
"Avremmo dovuto andarcene prima."
"Baciami, Enrique."
"Lo faremo con molta circospezione" disse lui.
Poi, nel buio del letto, tenendosi abbracciati con molta circospezione,
gli occhi di lui chiusi, labbra contro labbra, la felicità
senza sofferenza, l'essere improvvisamente a casa senza sofferenza,
l'essere tornato vivo e niente sofferenza, il conforto d'essere
amato e ancora niente sofferenza; c'era dunque un vuoto d'amore,
ora non più vuoto, e due paia di labbra nel buio, premute
le une contro le altre, e adesso erano felicemente e gentilmente,
oscuramente e caldamente a casa e senza sofferenza nel buio, e
venne la sirena a interrompere tutto, ad alzare, per così
dire, tutta la sofferenza del mondo. Era la vera sirena, non quella
della radio. E non era una sirena. Erano due. Stavano arrivando
dai due lati della strada.
Lui volse il capo e si alzò. Pensò che il ritorno
a casa non era durato molto.
"Esci e attraversa il terreno incolto" disse. "Va'
subito. Io posso sparare da qui e creare una diversione."
"No, va' tu" disse lei. "Ti prego, io resterò
qui a sparare e loro penseranno che tu sia ancora dentro."
"Su" disse lui. "Andremo tutti e due. Qui non c'è
niente da difendere. È tutta roba inutile. È meglio
squagliarcela."
"Io voglio restare" disse lei. "Voglio proteggerti."
Allungò una mano per prendere la pistola nella fondina
sotto l'ascella e lui le diede uno schiaffo. "Su. Non essere
sciocca. Vieni!"
Ora stavano scendendo le scale e lui la sentiva vicinissima a
sé. Spalancò la porta e insieme varcarono la soglia
e si trovarono fuori dell'edificio. Lui si voltò per chiudere
la porta a chiave. "Corri, Maria" disse. "Attraversa
il terreno incolto in quella direzione. Va'!"
"Voglio venire con te."
Le diede subito un altro schiaffo. "Corri. Poi buttati tra
le erbacce e striscia. Perdonami, Maria. Ma io vado nella direzione
opposta. Va'" disse. "Maledizione. Va'."
S'avviarono contemporaneamente verso le erbacce. Lui corse per
venti passi e poi, mentre le macchine della polizia si fermavano
davanti alla casa, e le sirene si stavano spegnendo, si appiattì
al suolo e cominciò a strisciare.
Il polline delle erbacce era polvere sul suo viso e mentre veniva
avanti serpeggiando, con i pomi di Sodoma che gli pungevano mani
e ginocchia, aguzzi e fittissimi, li udì girare intorno
alla casa. L'avevano circondata.
Continuò a strisciare, riflettendo intensamente, senza
dare importanza al male.
"Ma perché le sirene?" pensò. "Perché
non c'è una terza macchina dietro? Perché né
proiettori né fari su questo campo? Cubani" pensò.
"Possibile che siano così stupidi e così teatrali?
Devono aver creduto che non ci fosse nessuno nella casa. Devono
essere venuti solo per sequestrare la roba. Ma perché le
sirene?"
Li udì sfondare la porta. Erano tutti intorno alla casa.
Udì due colpi di fischietto dalle parti della casa stessa
e continuò a serpeggiare in avanti.
"Che cretini" pensò. "Ma a quest'ora devono
aver trovato il paniere e i piatti. Che gente! Che maniera di
fare irruzione in una casa!"
Era ormai quasi al limite del terreno incolto e sapeva che doveva
alzarsi e slanciarsi in avanti, oltre la strada, verso le case
lontane. Aveva trovato un modo di strisciare che non gli faceva
molto male. Poteva adattarsi a quasi tutti i movimenti. Erano
i cambiamenti bruschi che lo facevano soffrire e aveva paura di
alzarsi.
Si sollevo tra le erbacce su un ginocchio, sopportò il
trauma del male, tenne duro, e poi se ne procurò ancora
uno quando per alzarsi accostò al ginocchio l'altro piede.
Si mise a correre verso la casa sull'altro lato della strada,
sul retro del terreno accanto, quando lo colse l'accensione del
proiettore e si trovò investito in pieno dal suo raggio
e guardò in quella direzione e il buio era una linea netta
su entrambi i lati.
Il proiettore veniva dalla macchina della polizia, che era arrivata
in silenzio, senza sirena, e si era appostata in un angolo in
fondo al terreno.
Appena Enrique si alzò in piedi, magro, sparuto, chiaramente
visibile in quel fascio di luce, ed estrasse la grossa pistola
dalla fondina sotto l'ascella, dalla macchina abbuiata un fucile
mitragliatore apri il fuoco su di lui.
La sensazione è quella di subire una mazzata sul petto,
ma lui percepì soltanto la prima. Le altre botte che seguirono
erano soltanto echi.
Cadde a faccia in giù sulle erbacce e mentre cadeva, o
forse nell'intervallo tra quando s'accese il proiettore e quando
lo colpì il primo proiettile, pensò: "Non sono
tanto stupidi. Qualcosa forse si può fare con loro".
Se avesse avuto il tempo per formulare un altro pensiero, sarebbe
stato la speranza che non ci fosse una macchina anche all'altro
angolo. Ma c'era una macchina anche all'altro angolo e il suo
proiettore stava perlustrando il campo. Il largo raggio fluttuava
sopra le erbacce dove giaceva nascosta la ragazza, Maria. Nella
macchina buia i mitraglieri, con le armi pronte a far fuoco, seguivano
i movimenti dei raggio con la scanalata efficiente bruttezza delle
bocche dei Thompson.
All'ombra dell'albero, dietro la macchina abbuiata da cui partiva
il proiettore, c'era un negro in piedi. Indossava un cappello
di paglia con la cupola piatta e la tesa stretta e una giacca
d'alpaca. Sotto la camicia portava un filo di azzurre perline
voodoo. Stava lì tranquillo a guardare il gioco delle luci.
I proiettori continuarono ad agire sul campo dove la ragazza giaceva
appiattita, con il mento a contatto con il suolo. Non si era più
mossa da quando aveva udito la raffica di colpi. Sentiva battere
il proprio cuore contro il terreno.
"La vedi?" domandò uno degli uomini in macchina.
"Facciamoli battere le erbacce dall'altra parte" disse
il tenente dal sedile anteriore. "Hola" gridò
al negro sotto l'albero. "Va' alla casa e digli di battere
le erbacce verso di noi in ordine spiegato. Ci sono solo quei
due?"
"Due soltanto" disse pacatamente il negro. "L'altro
l'abbiamo già beccato."
"Va'."
"Sì, signor tenente" disse il negro.
Tenendo il cappello di paglia con entrambe le mani, si mise a
correre lungo il bordo del campo verso la casa, dove adesso c'erano
luci accese a tutte le finestre.
Nel campo la ragazza giaceva con le mani intrecciate sulla testa.
"Aiutami a sopportare tutto questo" disse tra le erbacce,
senza rivolgersi a nessuno, perché lì non c'era
nessuno. Poi, all'improvviso, personalizzando, singhiozzando:
"Aiutami, Vicente. Aiutami, Felipe. Aiutami, Chucho. Aiutami,
Arturo. Aiutami adesso, Enrique. Aiutami".
Una volta avrebbe pregato, ma aveva perso la fede e adesso aveva
bisogno di qualcosa.
"Aiutatemi a non parlare se mi prendono" disse, con
la bocca contro le erbacce. "Trattienimi dal parlare, Enrique.
Trattienimi sempre dal parlare, Vicente."
Da dietro li udiva avanzare tra le erbacce come battitori in una
caccia al coniglio. Si erano sparsi in un vasto spazio e venivano
avanti come soldati di pattuglia, puntando verso le erbacce le
loro torce elettriche.
"Oh, Enrique" disse lei. "Aiutami."
Tolse le mani dal capo e le strinse a pugno lungo i fianchi. "E
meglio così" pensò. "Se mi metto a correre
mi spareranno. Sarà più semplice."
Si alzò lentamente e corse verso la macchina. Il proiettore
puntava direttamente su di lei e lei correva non vedendo altro,
verso il suo bianco occhio accecante. Pensava che fosse la scelta
migliore.
Dietro stavano gridando. Ma non ci furono spari. Qualcuno la placcò
pesantemente e lei cadde. Udì il respiro dell'uomo che
la teneva ferma.
Qualcun altro la prese sotto un'ascella e la sollevò. Tenendola
per le braccia, la portarono alla macchina. Non erano brutali,
ma continuavano a portarla verso la macchina.
"No" disse lei. "No, no."
"È la sorella di Vicente Irtube" disse il tenente.
"Dovrebbe esserci utile."
"E già stata interrogata" disse un altro.
"Ma mai seriamente."
"No" disse lei. "No, no." Poi gridò
forte: "Aiutami, Vicente! Aiutami, aiutami, Enrique!".
"Sono morti" disse qualcuno. "Non ti aiuteranno.
Non dire assurdità."
"Sì" disse lei. "Mi aiuteranno. Saranno
i morti ad aiutarmi. Oh, sì, sì, sì! Saranno
i nostri morti ad aiutarmi!"
"Da' un'occhiata a Enrique allora" disse il tenente.
"Vedi se ti aiuterà. E sul sedile posteriore di quella
macchina."
"Mi sta aiutando adesso" disse la ragazza, Maria. "Non
lo vedete che adesso mi sta aiutando? Grazie, Enrique. Oh, grazie!"
"Andiamo" disse il tenente. "La ragazza è
impazzita. Lasciate quattro uomini a sorvegliare la roba e manderemo
un camion a prenderla. La matta la portiamo al comando. Là
parlerà."
"No" disse Maria, aggrappandosi a una sua manica. "Non
vedi che adesso mi stanno tutti aiutando?"
No" disse il tenente. "Tu sei pazza."
"Nessuno muore per niente" disse Maria. "Adesso
mi stanno tutti aiutando."
"Digli di aiutarti tra una mezz'oretta" disse il tenente.
"Lo faranno" disse Maria. "Sta' tranquillo. Molte,
molte persone adesso mi stanno aiutando."
Si sedette restando assolutamente immobile contro lo schienale.
Sembrava aver acquisito una strana sicurezza. La stessa sicurezza
che un'altra ragazza della sua età aveva avuto più
di cinquecento anni prima nella piazza del mercato di una cittadina
che si chiamava Rouen.
Maria non pensava a questo. Né ci pensavano gli altri che
erano in macchina. Le due ragazze che si chiamavano Jeanne e Maria
non avevano niente in comune, tranne questa strana, improvvisa
sicurezza che veniva loro quando ne avevano bisogno. Ma tutti
i poliziotti sulla macchina si sentivano ora a disagio, con Maria
che sedeva eretta con il viso splendente nella luce ad arco.
Le macchine si avviarono e sul sedile posteriore della prima gli
uomini stavano rimettendo i mitra nelle pesanti custodie di tela,
facendone scorrere via il calcio che infilavano nelle tasche diagonali,
le canne con l'impugnatura che riponevano nella grande tasca con
la patta e i caricatori che ficcavano nei taschini.
Il negro col cappello di paglia piatto uscì dall'ombra
della casa e fermò la prima macchina. Montò sul
sedile anteriore, dove adesso erano in due a viaggiare oltre al
conducente, e le quattro auto voltarono nella via principale che
si immette nella strada costiera per L'Avana.
Sullo stipato sedile anteriore della macchina, il negro infilò
una mano sotto la camicia e posò le dita sul filo di azzurre
perline voodoo. Sedeva lì senza parlare, tastando le perline
con le dita. Aveva fatto lo scaricatore al porto prima di essere
assunto come informatore dalla polizia dell'Avana e il lavoro
di quella notte gli avrebbe reso cinquanta dollari. Cinquanta
dollari sono un mucchio di soldi all'Avana, ma il negro non poteva
più pensare al denaro. Volse un poco la testa, molto lentamente,
quando arrivarono sul viale illuminato del Malecon e, guardando
indietro, vide il volto della ragazza splendente di fierezza,
e la sua testa eretta.
Il negro si spaventò e spinse le dita sino ad avvolgere
interamente il filo di azzurre perline voodoo e le tenne strette.
Ma non potevano far niente contro la sua paura perché ora
aveva contro una magia più antica.
(Tratto
dalla raccolta Ventuno racconti, Einaudi, Torino, 1990)
Ernest Hemingway
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