L’ONDA SULLA PELLICOLA
(
- un brano del romanzo - )
Michele
Lupo
Fausto
gli ricordava che puntando sul presente, piuttosto che sul
cineasta surrealista, e qualora fosse davvero riuscito a
scriverlo, un film così, non avrebbe mai avuto una
lira da nessuno: che razza di roba era? Non era agile, né moderno,
un po’ astruso anche.
Fanculo al moderno, aveva pensato lui. Era un modo abbastanza
ordinario di risolvere i suoi problemi. Così non si
può dire che avesse in testa un vero progetto quando
decise di andare da Riccardo Fantelli, il produttore. Gli
avevano detto che era uno con cui si poteva parlare, che
se lo convincevi poteva darti una mano sul serio. Una volta
sul pianerottolo, aveva suonato il campanello e dopo qualche
secondo la porta si era aperta – da sola. Entrando,
Livio smarrì subito l’elasticità con
cui aveva salito le scale. Non si vedeva nessuno. Istintivamente,
evitò di fare rumore. Si guardò intorno e capì che
a parte quel piccolo ingresso non c’era che un corridoio
nudo, di un bianco che non accecava perché vi filtrava
pochissima luce. Dalle tre stanze che vi si affacciavano
non proveniva nessun rumore, nessun segno di vita. Due avevano
la porta chiusa. Tutto l’ambiente sembrava dismesso,
come se appartenesse a un passato prossimo ma definitivo.
Non finì di dire C’è nessuno?, che intravide
nell’ ultima stanza, in fondo, un uomo seduto che gli
faceva cenno di entrare, di avvicinarsi. Recuperò un
po’ di fiducia. Rilassò i muscoli delle gambe
e lasciò che le scarpe facessero il loro rumore. L’ uomo
stava esaurendo una telefonata. Livio notò che sembrava
stanco, e come turbato. Ripeteva D’accordo, d’accordo,
se ci sono novità ti chiamo. Qualcosa lo preoccupava,
pensò Livio presentandosi, senza dubbio.
–
Buongiorno – disse Fantelli, fisso sull’ apparecchio
telefonico.
–
Sono qui per un film – esordì Livio.
–
Sì? – come se non avesse dormito, il tipo, come
se faticasse ad affiorare a quella che chiamiamo realtà.
–
Sì – disse Livio, che non aveva intenzione di
perdere tempo. La stanza era spoglia come tutto il resto,
lontana da ogni idea di officina cinematografica. Lontana
da tutto. – Ho un’idea.
–
Lei ha un’idea.
– Ecco, ho in mente una cosa che ruota intorno al problema dell’identità. – Pausa.
Ruota. Gli occhi di quel Fantelli così distanti da lui che solo allora
Livio comprese quello che avrebbe dovuto sapere da sempre, ossia che un film
fino a quando si limita a ruotare intorno a un tema, è ben lungi dall’essere
un film. Ma andò avanti, perché non poteva crollare proprio ora.
–
Il mio film questo vuole dimostrare, che quello dell’identità è un
problema economico… – Le pareti conservavano le ombre di quadri che
erano stati tolti; c’era solo una marina incorniciata a giorno. Piccola,
inutile, drammaticamente provvisoria. Tirò fuori una sigaretta. – Vuole? – disse.
Vide in un angolo la locandina di un film che non conosceva. L’uomo fece
cenno di no. Sembrava rassegnato a farlo parlare solo perché la stanchezza
e una specie di garbo naturale gli impedivano di fermarlo. – Poniamo un
enfant terrible – disse Livio. – Sa uno di quegli artisti che si
giocano tutto con la loro diversità, che si atteggiano a maledetti due
secoli dopo Byron e via dicendo? E che hanno insomma trovato una loro strada
nella vita, un conto in banca sicuro e garantito da quel mandato eccetera?
Altra pausa. E lieve sconcerto, anche, dell’uomo che gli stava di fronte.
Teneva le mani tese contro i braccioli della poltrona; per un attimo sembrò che
stesse cercando la forza di alzarsi e andarsene.
–
Bene, uno così – disse Livio. Notò che il quadretto era anche
leggermente storto. Deglutì. – Ora, immaginiamo che il tipo non
sia ricco di famiglia, ma che a un certo punto non ne possa più di tutta
questa faccenda e magari… magari ha messo pancetta, soffre di artrosi,
poniamo.
–
Poniamo – ripeté a bassa voce il produttore, abbassando la testa
e passandosi una mano dietro il collo.
–
Sarebbe in ogni caso costretto tutta la vita a fare le stesse stronzate, a ostentare
quel patetico ruolo di sovversivo senza il quale non sarebbe più nessuno:
non trova? – incalzava Livio.
Bocca leggermente aperta. Sguardo mesto e impacciato. Fantelli sembrava sommerso
da una spossatezza bestiale.
–
Non ti pubblicano più, i giornali non ti concedono neanche una breve,
il conto in banca diminuisce spaventosamente e non ti rinnovano neppure una misera
carta di credito.
E disorientato, forse. Lo si sarebbe detto disorientato. Con gli occhi sembrò cercare
un portacenere per il suo ospite, senza trovarlo, e fu solo allora che Livio
notò quanto fosse assurda quella scrivania semivuota. C’erano solo
un pacchetto di sigarette vuoto, un bicchiere, vuoto anch’esso, una cartolina
con un paesaggio di rocce scabre e un portamatite senza penne né matite.
–
Tutt’al più – riprese Livio, decomponendosi poco a poco – il
nostro potrebbe esibire una sua specie di malsana coerenza, per un bisogno...
diciamo così, di rassicurazione psicologica, mi segue, di assetto generale
della persona.
E un accenno di costernazione, quasi, negli occhi dell’uomo.
–
Aspetti, vengo al dunque – disse Livio. Era orribile, quel mare incatramato
messo di traverso. E l’uomo davanti a lui, dall’aria così disfatta,
Livio si chiese se non fosse solo uno specchio che gli restituiva la sua vera
immagine. Si chiese se non fosse tutto un orribile scherzo. – So che lei
non è un produttore come gli altri – si fece forza. – So che
lei è un uomo colto. Dunque, si immagini un po’ le scuole della
critica, tanto per dire, dell’estetica letteraria o cinematografica: per
anni tutti dicono le stesse identiche cose e poi, occupate le cattedre, le poltrone
redazionali ed esauriti gli stipendi, si cambia registro, e una ciclopica, rablesiana
rimozione collettiva affonda tonnellate di cazzate nell’oblio... – Scoppiò a
ridere. – Mi scusi.
–
Permette? – disse l’uomo. Smarrimento, ecco cos’era. Lo smarrimento
di chi sembra aver perduto le categorie necessarie a ordinare la vita. – Non
me ne vorrà, ma temo di non aver capito una sola parola di quello che
ha detto.
–
L’ho presa un po’ alla larga, – disse Livio – me ne rendo
conto. Ciò che intendo dire è che frantumazione biologica e collasso
economico sono la stessa cosa, capisce.
–
No, davvero.
–
Vede, questa è una condizione che riguarda chiunque, ben al di là di
qualsiasi connotazione ideologica, o di classe, o etnica o estetica o… Immagini
un po’, le inseriscono il cuore di uno, il cervello di un altro, una protesi
in mezzo alle gambe: chi è lei? Capisce? Non è solo l’individuo,
ma il sociale, a essere impreparato a quella deriva.
–
Signor…? Viola, mi pare che abbia detto.
–
Livio Viola – fece il professore, come se quel nome fosse destinato alla
gloria.
–
Signor Viola, mi ascolti per favore.
–
Solo un momento – lo interruppe Livio. – Sa, io mi sono ispirato
alla mia vita. Il protagonista del film prova un gusto particolare nel portarsi
a letto donne sentimentalmente impegnate. Le libera da quei fidanzati untuosi
che tengono loro il fiato sul collo. Vede, se qualcuno ci ruba il nostro amorino
dovremmo ringraziarlo, il rivale, perché ci costringe a rivedere due o
tre cosine che abbiamo sempre dato per scontato…
–
Senta... – una stoica pazienza, in quell’uomo. Smisurata. Perché Livio
non lo fermava più nessuno.
–
L’ idea mi era venuta a vent’anni, quando, senza una lira come sempre,
avevo sedotto prima e abbandonato poi la ragazza di un marxista–leninista
ottuso e benestante tanto per dimostrargli come il potere non sorgesse solo dal
denaro.
–
D’accordo, d’accordo. Ora mi stia a sentire. Io sono Pietro Fantelli,
non Riccardo.
–
Come ha detto, scusi?
–
Mio fratello è sparito da tre giorni. Non abbiamo la più pallida
idea di dove sia finito.
–
Lei mi sta dicendo che non è…
– L’avrei fatto prima se me ne avesse dato la possibilità – si
era tirato su, ora. – Ci assomigliamo molto. Troppo. Siamo gemelli.
Livio non sapeva cosa dire. Come spesso capitava quando non sapeva cosa dire,
disse: – Ho capito.
–
Riccardo ci ha lasciato una lettera – disse ancora Fantelli. – Ha
bisogno di restare solo per un po’ , dice. Immagino che lei non lo conosca.
Intendo di persona.
–
Infatti.
–
Be’, forse saprà che mio fratello è sempre stato un uomo
un po’ eccentrico. A dire la verità, noi preoccupati lo siamo. Ha
portato via i due quadri che erano in questa stanza. Altre cose. Diciamo pure
che ci ha lasciato nei guai. Io sono solo un suo collaboratore. Gli dò una
mano nel tempo libero, ma solo per le faccende economiche. Di cinema mi intendo
poco.
– Ho capito. – Di nuovo Livio disse che aveva capito. Non c’era
motivo di rimanere ancora. Per un momento fu attratto da quella situazione sbilanciata,
come se potesse ricavarne chissà cosa. Ma gli strinse la mano e si avviò verso
l’uscita. – Mi dispiace, non so cosa dire.
– Lasci perdere. Piuttosto, mi tolga una curiosità – disse
Fantelli, accompagnandolo alla porta. – A parte il fatto che mi lascia
perplesso che lei voglia fare del cinema per dimostrare qualcosa, ma nel film,
voglio dire, nel film poi che cosa succede esattamente?
–
Ah be’, – disse Livio, superbo – nel film si dovrebbe procedere
a oltranza, fino a quando gli spettatori proprio non ne possono più.
Michele
Lupo è nato a Buenos Aires e vive
a Tivoli, dove insegna nella scuola pubblica. L’onda
sulla pellicola, pubblicato dalla Besda editrice,
Nardò,
2004, è il suo primo romanzo.
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