I
CAMPI DEL DUCE
Carlo Spartaco Capogreco
(...)
Nei territori jugoslavi, occupati o annessi dopo l'invasione
nazifascista del 6 aprile 1941, l'Italia ricorse spesso a
metodi repressivi che prevedevano l'incendio dei villaggi,
la fucilazione
di ostaggi civili e la deportazione della popolazione negli
speciali campi di concentramento “per slavi”. Allestiti
in Italia e negli stessi territori invasi, e gestiti quasi
sempre dal Regio Esercito, quei campi costrinsero i reclusi
a un internamento rigoroso e durissimo che portò alla
morte migliaia di persone, tra cui moltissimi bambini. Eppure
nel nostro paese si sa ancora poco, non solo di quelle vicende,
ma anche della stessa esistenza di campi di concentramento
italiani durante la Seconda guerra mondiale.
“
Internamento in condizioni disumane”: ecco il capo d'accusa
che figurava nell'elenco - stilato nel dopoguerra dal governo
jugoslavo - dei crimini che avrebbero commesso gli occupanti
italiani. Ma la nostra giovane Repubblica “nata dalla Resistenza” evitò di
sottoporre a processo anche i principali fautori e organizzatori
di quei campi, i cui nomi, per l'appunto, compaiono tra quelli
degli italiani dei quali la Jugoslavia chiese inutilmente l'estradizione.
Sia l'insabbiamento delle indagini sui criminali di guerra
italiani che l'epurazione di facciata del personale coinvolto
col fascismo
contribuirono al formarsi di una coscienza collettiva della
recente storia nazionale largamente autoassolutoria e rassicurante.
Il
colonialismo italiano fu definito “umanitario”; l'antisemitismo
fu liquidato quale “prodotto d'importazione”, e i
delitti commessi dalle nostre truppe nelle colonie e nei Balcani
vennero coperti da una cortina di silenzio. In tal modo cominciò a
sedimentarsi nel senso comune quella visione edulcorata del comportamento
degli italiani in tempo di pace e, ancor più, in tempo
di guerra, che li rappresenta sempre “umani e bendisposti” nei
confronti delle popolazioni dei paesi invasi e, in ultima analisi,
vittime anch'essi della dittatura e delle guerre volute da
Mussolini.
Al rafforzarsi di questa immagine, nel dopoguerra contribuì anche
l'atteggiamento delle forze politiche di sinistra e dell'antifascismo
nel suo insieme, che, in nome della “ragion di Stato”,
preferirono sottolineare i meriti dell'Italia partigiana piuttosto
che le colpe di quella fascista. L'argomento della “bontà nazionale” constituì il
nucleo centrale del discorso egemonico della nuova classe dirigente,
che perseguiva l'obiettivo della riconciliazione di tutti “i
buoni italiani”, facendo ricorso alla “virtuosità” dell'intero
popolo per esaltare il carattere tirannico del fascismo, presentato
come “regime senza consenso” e quindi come “corpo
estraneo” alla storia e al “carattere nazionale” degli
italiani. In tal modo fu possibile offuscare la più semplice
verità che la dittatura - come osservò acutamente
Carlo Rosselli - in realtà aveva espresso i vizi, le
debolezze e le miserie di tutto il nostro popolo.
Lungo
questa strada, intrapresa da un paese come il nostro non abituato
all'autocritica, c'è voluto poco perché si giungesse
alla quasi totale rimozione delle gravissime responsabilità italiane
nel ventennio e nella Seconda guerra mondiale. Gli stessi ebrei
italiani, che pure erano stati tra le principali vittime della
dittatura, in un clima non certo favorevole all'accettazione
di identità particolari, preferirono, nel dopoguerra,
rifugiarsi in una memoria “di carattere riconciliatorio”.
D'altro canto, era la particolare efferatezza dei crimini nazisti
a fornire un alibi assai comodo al diffondersi dell'oblio nostrano:
ci volle ben poco perché il confronto fra il comportamento
dei due alleati portasse a relativizzare e minimizzare (se non
a trascurare del tutto) le specifiche responsabilità fasciste.
Pertanto gli italiani, che sin dagli anni Trenta erano ricorsi
proprio ai campi di concentramento per “pacificare” le
colonie africane, finirono con l'adagiarsi sulla comoda presunzione
che questo capitolo emblematico della storia del XX secolo li
riguardasse solo come vittime. E quando Giorgio Rochat, nel 1973,
Si “permise” di pubblicare uno dei pochi studi tuttora
disponibili sui campi coloniali italiani, venne accusato di “faziosità anti-italiana
preconcetta” e coperto da ingiurie personali.
Se, come in ogni stereotipo, anche in quello del “bravo
italiano” è contenuto un nucleo di verità,
ciò non può giustificare l'esaltazione dei soli
meriti a fronte delle ben più gravi responsabilità:
occorrerebbe una più giusta misura, tenuto conto che,
né buoni né cattivi, gli italiani “furono
semplicemente se stessi, con i caratteri e i limiti del costume
nazionale cosi come è venuto conformandosi negli ultimi
due secoli e forse anche più”, come afferma A. Cavaglion
in Ebrei senza saperlo.
Si è osservato, non a torto, che una certa rimozione sia
servita a rafforzare l'identità nazionale e ad aiutare
il paese a risalire la china dopo un ventennio di dittatura e
un conflitto dagli effetti devastanti. E' certo, comunque, che
essa abbia finito con l'offuscare la realtà, producendo,
per decenni, immagini distorte, sia nell'ambito culturale che
nell'insieme della società italiana. Nel romanzo La
frontiera (1964) di Franco Vegliani, ad esempio, è addirittura
a un anziano jugoslavo avviato nei campi di concentramento fascisti
che si fa dichiarare - in ossequio alla “bontà italiana” -
che “gli italiani, alla fine, sono brava gente...”,
mentre in anni più recenti, quella stessa “bontà” permeerà il
pluripremiato film di Gabriele Salvatores Mediterraneo.
Ancora: quando negli anni Sessanta una delegazione di ex combattenti
jugoslavi giunse nel nostro paese per rendere omaggio alle spoglie
mortali dei suoi connazionali deceduti nel campo di Monigo, né le
autorità comunali né le associazioni partigiane
seppero indicare il luogo della sepoltura. Addirittura, fu solo
grazie a quella visita che moltissimi cittadini di Treviso presero
coscienza della passata esistenza di un campo di concentramento
alle porte della loro città. È potuto accadere,
d'altra parte (errore tecnico o volontà italiana di deresponsabilizzazione?),
che immagini di internati jugoslavi scheletriti dalla fame nei
campi di concentramento di Mussolini venissero presentate come
documenti dell'universo concentrazionario nazista; o
che - in un contesto da Italietta festosa e nostalgica - la canzone-simbolo
delle guerre coloniali fasciste, Faccetta nera, venisse
riproposta dalla televisione pubblica senza alcun accenno ai
lutti e ai
disastri provocati a tanti popoli dal nostro colonialismo. Infine,
chiudendo un elenco che potrebbe essere molto lungo, una doverosa
riflessione sulle dichiarazioni fatte nel dicembre 1990 dall'allora
presidente della Repubblica Cossiga, nel corso di una sua visita
in Germania (“Noi italiani non abbiamo conosciuto gli orrori
dei campi di concentramento...”); e su quelle rilasciate,
nel settembre 2003, dal nostro presidente del Consiglio (“Mussolini
non ha mai ammazzato nessuno; Mussolini mandava la gente a fare
vacanza al confino”), che riducono la dittatura fascista
pressoché ad una sorta di tour-operator. (...)
(Brano
tratto dal libro I campi del duce – l’internamento
nell’Italia fascista (1940 – 1943), Einaudi,
Torino, 2004)
Carlo
Spartaco Capogreco (1955), docente presso la Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università della Calabria è presidente
della Fondazione Ferramonti. Tra i suoi scritti Ferramonti.
La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento
fascista 1940-1945 (Giuntina, Firenze 1987); Renicci.
Un campo di concentramento in riva al Tevere (Mursia,
Milano, 2003).
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