MONSIEUR PAUL
Amedeo Ugolini
La
gente si muoveva nel camerone pianterreno in una luce bianca
riflessa dalla neve che nel cortile aveva raggiunto dieci centimetri
di altezza. Almeno così aveva detto lo scopino: dieci
centimetri, non uno di più o di meno. La neve si era
insaccata anche nelle bocche di lupo e si era appiccicata tutt'intorno
ai vetri.
Salendo su di uno sgabello, si vedeva un tratto del cortile,
un tratto appena. La neve era stata ammassata agli orli del marciapiedi
e l'asfalto era bagnato. C'era anche il furgone, davanti alla
porta che dava nella piazza di Sèvres. Nella piazza gli
alberi erano alti. Ora dovevano essere ricoperti da una neve
bianca e spessa come l'ovatta. Il selciato no: il selciato si
ricopriva subito di una poltiglia fangosa. Ma gli alberi rimanevano
candidi, come se non fossero nella piazza grigia e rumorosa,
ma nei campi, lontano dalla città, oltre la periferia,
in una zona deserta e silenziosa.
Proprio così: ad immaginarsi quegli alberi, il pensiero,
chissà perché, raggiungeva giardini e contrade
e campi lontanissimi, perduti; e silenzi accoglienti. Invece
nel camerone c'era un grande vocio. Lasciavano che i detenuti
parlassero forte li dentro. Almeno dal giorno prima. Anche il
giorno prima, quando Arista era stato trasferito nel camerone,
la gente li dentro parlava forte. Solo alla sera si era fatto
silenzio. Era entrato un soldato e aveva gridato che bisognava
fare silenzio. Il vocio era cessato; la gente si era distesa
sui pagliericci. Ma il silenzio non era come quello degli alberi
veduti chissà dove. Era un silenzio pesante, come di attesa.
Nel corridoio, a notte alta, c'era stato un grande rumore di
passi, di chiavi, di serrature. Qualcuno aveva gridato. Poi era
giunto il rumore del furgone che si allontanava. Ma ora il furgone
era fermo presso il marciapiedi bagnato. Arista si sentì toccare
a una spalla e si volse. Monsieur Paul lo guardava attraverso
le grosse lenti.
–
Vi ho disturbato. Scusatemi. Volevo chiedervi una sigaretta.
Diciamo: un pezzo di sigaretta. Ho ancora due fiammiferi sfuggiti
alle perquisizioni. Si potrebbe accendere tutti e due.
Arista fu sul punto di dire che non aveva sigarette, ma Monsieur
Paul continuò con un tremito nella voce: – Non dite
di no, non dite di no. Se vi è possibile, datemi un pezzetto
di sigaretta.
Arista aveva due sigarette nascoste nelle calze. Ne prese una
e la ruppe a metà. Insieme a Monsieur Paul s'avviò dalla
parte opposta alla porta, e sedettero sul pavimento, dietro la
branda. Monsieur Paul trasse di tasca un bocchino di carta. Vi
infilò con grande cura il pezzetto di sigaretta. Poi,
da uno strappo in fondo alla fodera della giacca, con piccoli
movimenti delle dita secche, fece uscire un fiammifero. L'accese
strofinandolo sulla manica.
–
Ecco – disse – un immenso piacere.
Aspirava il fumo profondamente, e la brace, illuminandosi, si
rifletteva sulle lenti spesse.
A un tratto, uscendo dai suoi pensieri, egli disse:
–
Ormai l'ora è passata.
–
Quale ora?
–
Già: voi siete qui soltanto da ieri. Non vi hanno ancora
detto... Dovrebbero farmi la festa. Ma fuori qualcuno si dà da
fare. Continuano a rimandare e vi sono molte speranze.
–
Siete stato condannato?
–
Proprio così: condannato a morte. Sinistra parola. Sono
qui nella sala di transito, da una settimana. Per essere più precisi,
da nove giorni. Di solito, qui si rimane al massimo tre giorni.
Poi si parte. Non tutti, certo, vanno al palo. C'è che
va in deportazione... Già, nove giorni. Ho visto partire
molta gente, in questo tempo.
Ma non lasciò ad Arista il tempo di parlare e continuò:
–
La mia è una storia insignificante. Una rivoltella, immaginate.
Una rivoltella rinvenuta in casa mia durante una perquisizione.
Per costoro quello che conta è una rivoltella. Eppure
io sono un uomo d'ordine, un funzionario di banca. Ventotto anni
di servizio, "impiegato irreprensibile": questa definizione
mi ha accompagnato per tutta l'esistenza.
La brace aveva raggiunto il bocchino e scoppiettava.
Monsieur Paul tossì, ma continuò ad aspirare. Poi
riprese a tossire e gettò via il bocchino.
–
Fortunatamente ho degli amici – disse –. Ho fatto
piaceri a molta gente. Oggi le relazioni contano più di
ogni altra cosa.
Le dite secche si muovevano nell'aria come ad accompagnare un
discorso. Poi tornarono immobili. L'indice e il medio della mano
destra erano macchiati di nicotina.
–
Il caso. Una rivoltella e qualche manifestino, rinvenuti a casa
mia. Era magro, piccolo: sedeva compunto sul pavimento, il dorso
eretto.
–
Le relazioni sono tutto. A facilitare il loro compito c'è una
vita, signore mio, una vita illibata, una vita di integro funzionario...
Una trista parentesi, questa. D'estate sarebbe stata un'avventura,
d'inverno è una parentesi. C'è una differenza.
D'estate si fanno escursioni, qualche volta si dorme nelle capanne,
sulla paglia. Le ferie, d'estate, le ho sempre trascorse fra
i disagi fisici. Bisogna dare un ritmo inconsueto alla vita.
Indispensabile. Tanto più se uno è impiegato, costretto
tutto l'anno a non muoversi dalla seggiola.
Egli tacque, il suo sguardo vagò intorno, si fissò sulla
finestra. La neve, sciogliendosi, gocciava sui vetri.
Nel cortile parlavano ad alta voce. Parlavano sempre ad alta
voce tanto da sembrare che litigassero. Nel camerone, invece,
si era fatto un grande silenzio.
–
Ma d'inverno è differente – continuò Monsieur
Paul. – Non è soltanto per il disagio... Ci sono
persone che d'inverno vedono le cose come se vivessero in un
altro elemento. Jacqueline, mia moglie, per esempio. Lei stava
in contemplazione davanti ai vetri della finestra. Per ore. Le
piacevano i tetti e i cornicioni bianchi. Quando uscivo di casa,
mi ricopriva di sciarpe. Una incrociata sul petto, un'altra avvolta
intorno al collo. In ufficio vedendomi infagottato ridevano.
Quelle sciarpe mi tenevano caldo, certo; ma non era soltanto
questo: era l'atmosfera della casa. Era un poco della casa, che
Jacqueline mi dava, quando anch'io andavo nel freddo, fra la
gente, nell'altro elemento.
Chissà perché tutti tacevano e si erano assiepati
contro la parete. Monsieur Paul continuava a parlare dell'inverno,
visto da una piccola e calda stanza della casa, nelle prime ore
del giorno, quando la luce dei lampioni illividiva nell'alba.
Parlava in fretta, quasi ripetesse cose dette infinite volte.
Infine apersero la porta e due soldati tedeschi si misero ai
lati. Il sergente guardò il gruppo assiepato contro la
parete. Poi scorse Monsieur Paul e gli fece cenno di alzarsi
e di seguirlo. Un cenno breve e secco.
–
Eppure ho fatto dei piaceri, io... Sono un uomo d'ordine, in
fondo, un funzionario di banca.
Si alzò in piedi e guardò intorno.
–
Mi scusi – disse ad Arista. – Tante chiacchiere e
anche la sigaretta. Ma sapevo che era per adesso.
Il sergente gli gridò qualcosa, forse di affrettarsi.
Ma egli camminò lentamente con un passo di vecchio artritico.
Aveva perduto quella sua aria dignitosa e compunta.
Quando fu a un paio di metri dalla porta, senza fare un gesto,
curvo e infreddolito, cominciò, con voce fioca, a cantare
l'Internazionale.
Ma il sergente lo afferrò per un braccio, lo tirò bruscamente
nell'atrio, e chiuse con un calcio la porta.
Poi giunse il rumore degli sportelli del furgone che si chiudevano.
Un rumore senza echi. Qualcuno fischiettava "Lili Marlene",
forse uno scritturale.
Nel cortile lo scopino disse: "Tre strati di suola e l'acqua
passa lo stesso. Tutto cartone!".
Infine il rumore del furgone che si allontanava. Ma subito si
spense perché, a quell'ora, la piazza era piena di rumori.
(Tratto
da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale
dell’Ampi – Roma, 1981)
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