FINO ALL’ULTIMO UOMO

 

 

Frederic Manning

 

(...) Desiderava tanto dormire, ne aveva un dannato bisogno, ma la sua memoria irrequieta gli faceva apparire il sonno come qualcosa cui si doveva resistere perché troppo simile alla morte.
Chiuse gli occhi e rivide gli uomini che avanzavano sotto una tempesta di proiettili. Gli erano sembrati così simili a giocattoli, così piccoli e impotenti di fronte alla furia schiacciante che li contrastava, eppure avanzavano come se fosse la cosa più naturale del mondo, come attratti da una volontà superiore.
Un'immagine lo aveva colpito, la vista di un uomo che procedeva a scatti, un giocattolo meccanico la cui carica sta per esaurirsi.

Quella scena lo aveva momentaneamente distolto dalla confusione e dal tumulto della sua mente. Era talmente insignificante quella figura, nella sua informe divisa cachi e nell'elmetto simile a una bacinella da barbiere, e aveva così poco di eroico, che gli riusciva impossibile collegarla al conflitto spirituale e morale, quasi sovrumano, che si agitava in lui.
Pensava ai vari tipi di morte. Morire per un proiettile che ti trapassa il cervello, o essere fatto a pezzi da una bomba può sembrare un particolare trascurabile all'obiettore di coscienza o a qualsiasi altro distaccato osservatore, ma per il poveraccio candidato agli onori postumi, e che si sente parte in causa, la questione è importante, eccome! Forse, a rigor di logica le cose stanno davvero così, perché un uomo o è morto o non lo è, ed è morto indipendentemente dalla causa della sua morte, ma si dà il caso che vedere un uomo ridotto in brandelli sanguinolenti come se fosse stato dilaniato da una belva invisibile è infinitamente più orribile e disgustoso che vederne un altro disteso a terra, con il viso nei fango, abbattuto da un colpo di fucile. Scene simili si vedono, e nel vederle si soffre, per interposta persona, con l'inalienabile comprensione di un uomo per un altro uomo. Ma si dimentica anche facilmente. La mente viene distolta, proprio come lo sguardo. Ci si rassicura, dopo il primo grido di disperazione: “Sono io!”, e poi subito “No, non sono io. A me non capiterà mai!”.
E si va avanti, lasciandosi alle spalle quel corpo maciullato e sanguinolento, contando, di fatto, sull'implicita sicurezza che ciascuno di noi ha della propria immortalità. Per il momento si dimentica, ma più tardi si ricorderà, se non altro nei propri sogni.
Dopo tutto, i morti sono tranquilli. Nulla al mondo è più tranquillo di un morto. Si vedono gli uomini vivere e lottare disperatamente, e poi, di colpo, li si vede privi di vita, rigidi come fantocci di legno, a cui non si dedica più di uno sguardo di furtiva curiosità. Improvvisamente Bourne ricordò i morti di Trones Wood, i morti insepolti insieme ai quali poteva dire di aver vissuto guancia a guancia, inglesi e tedeschi indistintamente, in decomposizione, coperti di mosche, pasto dei topi, anneriti dal caldo, gonfi per il dilatarsi delle budella, accartocciati nei loro stracci e anche quando la notte stendeva un velo pietoso, il vento portava il fetore della morte. Da uno scontro all'altro, finché non finiremo per crollare. Ma non si doveva crollare. Respirò profondamente, un respiro che si trasformò in un singhiozzo convulso, e la sua mente abbandonò quel rimuginare senza speranza. L'oscurità calda e maleodorante della tenda gli sembrò quasi un lusso. Dormi profondamente mentre dolci visi di donna animavano i suoi sogni. Ben presto, però, quei volti si sciolsero, come immagini riflesse nell'acqua quando il vento ne increspa la superficie. E l'anima affondò sempre più profondamente nella pace dell'oblio.


(Tratto dal romanzo Fino all’ultimo uomo [titolo originale: Her Privates We], Piemme editrice, Milano, 2004)


 


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