LA CAPITALE TRADITA
Ercole Patti
I1
10 settembre 1943, verso le undici del mattino, mi trovavo
con due amici da Aragno. Il caffè era quasi vuoto. Alla
periferia di Roma si stava svolgendo una piccola battaglia
contro i tedeschi che volevano entrare in città. Alcuni
reparti italiani resistevano alla Cecchignola. Tutti speravamo
che gli italiani sarebbero riusciti a respingere i tedeschi
che, fra l'altro, erano pochissimi.
La città era semivuota e silenziosa. Sul Corso Umberto,
sgombro, passavano alla spicciolata qualche piccolo carro armato
col cannoncino mimetizzato, qualche camionetta con pochi soldati.
Andavano e venivano. C'era in giro un'aria assai strana, una
calma equivoca che non si capiva bene che cosa potesse significare.
Ad alcuni soldati che tornavano indietro su un carro armato leggero
chiedemmo da lungi più coi gesti che con le parole: “Come
vanno le cose?”.
Un soldato ci rispose dall'alto della torretta mimetica facendo
oscillare la mano aperta come per dire: “Così così”.
Su quel gesto enigmatico il carro armato si dileguò. Quella
risposta non ci piacque. Ad un tratto si sentì esplodere
una piccola granata vicina. Poi silenzio; poco dopo un altro
scoppio un po' più lontano, ma sempre nel centro della
città.
Improvvisamente le sirene si misero a suonare a distesa col suono
a tutti familiare del cessato allarme.
“
Forse il pericolo dell'occupazione tedesca è stato sventato” pensammo
e uscimmo da Aragno; io mi diressi verso piazza di Spagna per
prendere l'autobus del Flaminio. Durante il cammino sentii scoppiare
altre granate assai vicine tra via della Vite e il Babuino. Quegli
scoppi, dopo il cessato allarme, facevano un effetto orribile.
Era come se in un congegno si fosse rotta una molla e le ruote
continuassero a girare senza più ordine, ognuna per conto
suo. I rari passanti disorientati si rifugiavano nei portoni
sperando almeno di sentir suonare la sirena d'allarme. Ma le
sirene tacevano e i colpi di cannone continuavano a piccoli intervalli.
Mi fermai ad aspettare l'autobus alla fermata di piazza di Spagna,
accanto alla scalinata. In piazza c'era pochissima gente che
andava in fretta. All'improvviso si senti il fragore di una granata
all'imbocco di via Borgognona. Altri due o tre scoppi si udirono
vicini fino a quando una granata non venne a battere proprio
contro il palazzo sotto il quale aspettavo l'autobus. Io stavo
sulla soglia del portone dove mi ero rifugiato alle ultime detonazioni.
Sentii come un gran vento che mi spingeva dentro e un rumore
di pietre che rovinavano sul marciapiedi. Mi affrettai, con altre
tre o quattro persone verso l'interno dell'androne in fondo al
quale c'era una porta a vetri. Un nuovo scoppio vicinissimo ci
spinse con forza in avanti; vedemmo cadere in frantumi, per lo
spostamento d'aria, la vetrata davanti a noi. Sette granate caddero
tra piazza di Spagna e dintorni. Poi, dopo altri scoppi radi
e lontani, piombò un silenzio assoluto su tutto.
Con quei pochi colpi ammonitori sparsi con cannoncini antiaerei
sul centro della città, i tedeschi avevano ripreso Roma.
Mi riaffacciai al portone. Cominciavano a passare gruppi di cittadini. “Dateci
dei fucili – dicevano alcuni –. Ci sono i tedeschi
in città”. I tedeschi avevano ripreso Roma senza
farsi vedere, lanciando pochi motociclisti isolati che attraversavano,
con fragore di scappamento, la città deserta con tutte
le porte sprangate. Uno di questi motociclisti fu ucciso con
due revolverate a via del Tritone davanti al portone del “Popolo
di Roma”. Rimase lì, immobile nel suo sangue, per
parecchio tempo.
Dopo circa un'ora le strade cominciarono a popolarsi di una folla
incerta e fluida che vagava nervosamente. Non tutti si erano
resi conto che erano tornati i tedeschi. Non si vedeva una macchina
in giro; soltanto biciclette. Passò un impiegato di amministrazione,
mio vicino di casa, mi caricò sulla canna della bicicletta
e mi portò verso il Flaminio. La gente del quartiere cominciava
a fare capolino dai portoni e dai negozi aperti a metà in
quella calma stucchevole. Di tedeschi non se ne vedeva nessuno.
Le caserme di via Guido Reni erano silenziosissime, sembravano
vuote.
La presenza dei tedeschi invisibili stringeva la città in
un cerchio muto e vischioso. Aspettavamo, tenendoci ognuno vicino
al portone di casa, di vederli apparire da un momento all'altro,
alla svolta. Ma non apparvero. Passai la serata nel quartiere;
la gente formava piccoli capannelli discutendo; di tanto in tanto
arrivava qualcuno a portare notizie, spesso false. Infine uno
che sembrava informatissimo annunziò: “Hanno raggiunto
un accordo. I tedeschi occupano la radio e qualche altro ufficio
ma lasciano libera la città”. Era un discorso poco
convincente.
La serata trascorse così nel quartiere abbandonato a se
stesso, come paralizzato, senza nessun genere di polizia nè italiana
nè tedesca. C'era in giro una curiosa aria di impunità.
Tutte le leggi e le disposizioni che erano state in vigore fino
alla mattina sembravano abolite. Nessuno si preoccupava di fare
rispettare l'oscuramento, non c'era nessun coprifuoco, i portoni
erano spalancati e la gente vi ronzava intorno con un brusio
di alveare. Qualunque cosa sarebbe potuta avvenire, qualunque
delitto. Ma nessuno si fidava di quella gran libertà.
I primi tedeschi si cominciarono a vedere la mattina dopo, di
buon'ora, a gruppetti di tre o quattro. Giravano per le strade,
con aria riservata, come se andassero per i fatti loro. Ma erano
autorizzati dai loro comandi a fare quello che volevano; avevano
per ventiquattro ore un regolare diritto al saccheggio. Molti
infatti furono gli orologi che essi si fecero consegnare dai
passanti, in pieno giorno, fermandoli agli angoli delle strade.
Trascorse queste ventiquattro ore "smarrite" l'occupazione
tedesca si stabilizzò e si strinse con lentezza progressiva
di giorno in giorno.
La radio che per quarantotto ore aveva taciuto riprese a funzionare.
Trasmetteva ininterrottamente dischi di canzonette sospendendole,
a brevi intervalli, per lanciare appelli. Una voce tedesca ripeteva
in un italiano chiaro e stentato, quasi infantile, le seguenti
frasi: “Via dai traditori! E tornate coi vostri camerati
germanici...”. Poi aggiungeva delle disposizioni che si
concludevano sempre con la pena di morte per i trasgressori,
seguite subito dopo da qualche motivo frivolo di canzonetta.
Mai trasmissioni radiofoniche furono più sinistre.
(Tratto
da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale
dell’Ampi – Roma, 1981)
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