DORMIVEGLIA
Johannes
Jansen
Tutto
si volgerà al meglio solo per lo scorrere delle notti
in cui conquistiamo discernimento e terra, smisuratamente
tanta terra. Si volterà pagina, e si volterà anche
la luna sulla pianura in cui l'amato tiranno insegue il sonno.
Qualcuno deve pur vegliare, ogni volta daccapo. E ogni notte
porta una nuova consapevolezza che prende fuoco, sale al
cielo e scoppia in una moltitudine di istanti. La loro somma
ricorda il firmamento. E cosí saremo arrivati a destinazione,
proteiformi e quasi senza far rumore, o piuttosto ci meraviglieremo
di essere ormai da tempo arrivati, senza esserci accorti
fino a quel momento della nostra stessa presenza, poiché ogni
nuova conquista è sempre come la prima volta. Quelle
notti dunque, in cui si sciolgono i freni. L'unica cosa che
ci tiene insieme è la chiarezza della nostra funzione
esistenziale, per la quale non c'è piú missione,
ma solo una direttiva generale, interiore - nessuna risposta
che non ci dovremmo dare da soli. Quelle notti dunque, in
cui la speranza crolla davanti alla realtà dei fatti
- un esercito di pensieri che in silenzio attraversa il fiume
col favore delle tenebre, ormai in vista della città su
cui però sventola bandiera bianca -, inanità probabilmente,
paesaggi del pensiero in cui tutto appare come si conviene,
al di là di ogni convenienza, ma che restano tuttavia
inaccessibili. Il leggero dolore sotto il cranio sarebbe
in grado di modificare la realtà, ma rimane infine
senza sbocchi di fronte alla gigantomania dell'oblio. Però i
morti non si fanno liquidare, se non altro per la loro aderenza
alla terra. Si insinuano tra le fessure con la loro urgenza
di prospettive valide. Non hanno bisogno di futuro, hanno
la loro traccia verso la quale ci sentiamo in obbligo. Ma
non c'è ancora niente di verificabile. Non abbiamo
neppure cominciato a rifletterci sopra, sebbene gli strumenti
siano da tempo disponibili, tutto questo materiale illuminativo,
e solo di tanto in tanto qualcuno lo contempla accortamente
precedendoci adagio, segnando il momento esatto, il punto
centrale di questa terra, arbitrario data la sua sfericità,
sfarzoso, indegno di menzione, un conato - per l'appunto
- ineffabile. Quanta fatica, si dice tra sé osservandoci,
noi che gli restiamo alle spalle. Torna indietro, gli vorremmo
gridare pensando alla sua fronte umida, al suo cranio arrossato.
Ma lui è ormai andato troppo in là, porta il
discernimento fino all'estremo, si solleva, guarda oltre
il muro in campo aperto e si augura che chiunque possa vedere
tutto ciò. Nondimeno quel desiderio è solo
espressione del suo isolamento. Torna indietro, gli gridiamo
infine ben coscienti che se pure si rimettesse in fila, continuerebbe
comunque a lasciare una traccia, quel carico esplosivo che
ci inquieta e affascina nella conversazione, di notte per
esempio, quando ci difetta il sonno. Egli ha accesso a una
luce che noi non riusciamo a vedere. Una luce ingannevole,
afferma, duramente riflessa dal caos delle relazioni. Ogni
dettaglio dotato di una luminosità che lo abbaglia,
e il tutto che gli esplode fin nell'addome. Nondimeno ci
mette in riga e ci parla dell'arrivo ad un luogo che sia
valido fin nel dettaglio. Ci crede fermamente e sostiene
che il viaggio è già da tempo avviato. Si aggira
tra le fila infondendoci coraggio, a noi figure ricurve.
Un po' di pazienza, prima o poi arriveremo. Ma cosa diremo
allora? Che è durato a lungo, che durante il viaggio
nessuno sapeva se saremmo mai arrivati. Tutte quelle notti,
quelle preghiere di nascosto, sebbene tutto sembrasse cosí convincente.
Niente congratulazioni, solo la domanda, come mai è durato
tanto. Nient'altro. E tuttavia siamo ancora ben lungi dalla
destinazione. Perciò ancora notti e una preghiera.
L'esito è aperto ma ben distinguibile. Nondimeno siamo
ancora in preda alla mestizia, alla tristezza dei dubbi che
ci sono sempre stati familiari. Forse il congedo sarebbe
piú costruttivo. Forse se ci slegassimo potremmo procedere
piú spediti. Ma restare a terra sembra pure un obiettivo
che precede gli altri. Nel ricordo si cristallizza come qualcosa
di cui eravamo coscienti fin dall'inizio. Cosí guardiamo
indietro a quel che si accumula, forse intuiamo la necessità di
un rilassamento, una trappola che dispieghiamo di notte nella
speranza di una grossa preda - chi metterà per primo
il piede nel cappio. Crescita della consapevolezza, un gridio
che attraversa le epoche. La logica della ragione, di cui
non capiamo un bel niente, ma che sembra rendere in spiccioli
da una quotidianità all'altra - diciamo la cortesia.
Tutto ciò si mostra chiaramente mentre giaciamo qui
nell'oscurità. Armate di cavalleria, interi eserciti
di figure in decomposizione. La chiamiamo tradizione? Bene,
la possiamo dimenticare, ma non rivoltarla. Si deposita sul
fondo e risale nei momenti di malattia, di ebbrezza, e costringe
almeno a una vita migliore nel ricordo di un passato che
non si è concluso, in cui il futuro sarebbe da scoprire
se non ci sfiancassimo in continue accuse, ignorando la lucentezza
delle rovine. Nondimeno un desiderio, e dunque anche un'attività,
ha valore solo in relazione al tutto. E cosí ci siamo
messi in marcia per applicare il nostro motto, per parlare,
prima di consumare con appetito il sudato pasto - questo
motto. Da soli non ce la possiamo fare. Ma non siamo soli,
anche se in questa notte nessuno ci accompagna. Cosí ognuno
siede nella propria cella e porta avanti i suoi pensieri.
Solo quando tutto sarà distrutto, viene da pensare,
solo quando tutto sarà distrutto se ne verrà a
capo. Lo sappiamo malgrado i nostri dubbi, e questo ci tiene
insieme, benché forse si trovi fuori dalla nostra
rotta, perché ciò che ci interessa è il
contatto: l'incontro in piena notte con uno spirito col quale
siamo imparentati da un pensare affine, derivato dall'esperienza
- cosí si guadagnano gli amici che ci esortano e consigliano,
e noi apprendiamo bramosi dal loro parere, perché quello
che ci consigliano è adoperabile. È cosí che
ci rendiamo conto di essere l'errore nel sistema, l'unica
posizione che ci appare degna di fronte a tutte le rinunce
economicamente motivate. Quanti punti di vista esistono,
e ogni volta il pensiero che va a una Legge quasi organica
che colleghi tutti i punti. Siamo consapevoli della divergenza
delle prospettive ma non ci possiamo decidere per alcuna.
Dobbiamo assumere diversi punti di vista in un paesaggio
che sembra contenere tutto, il positivo come il negativo.
Talvolta si illumina qualcosa che sembra logico e di belle
speranze. In un altro momento ci sembra di possedere una
chiarezza che però affonda le radici nella tetraggine.
Cosí si oscilla tra gli estremi. Forse tali oscillazioni
rappresentano il senso piú profondo di quel che si
suol chiamare equilibrio, un equilibrio instabile, immagine
socialmente positiva, sebbene sia noto che un solo, un unico
fulcro ci consente di sollevare il mondo dai suoi cardini.
E tuttavia, se riuscissimo per un tratto a mantenere la nostra
posizione oscillante, dopo un po' precipitieremmo in un'ebbrezza
che produce rilassamento. Ma anche se tale rilassatezza rinfranca
e dilata il trascendente, in fondo restiamo inquieti e intuiamo
che essa non è bene in relazione alla frontiera di
cui non si parla, perché il buon gusto lo vieta e
non di rado anche il cattivo. Non si tratta del confine della
trascendenza bensí della realtà economica,
mille volte descritta e ignorata. Quel confine lo abbiamo
avvertito, di notte, a rimorchio di tutti quei mutilati,
senza prospettive, oltre le osterie e le mescite. Una fame
che non è contemplata in nessuna psicologia degli
istinti. E poi quell'orgoglio che si trova a suo agio nella
volgarità, per quanto nemmeno la rozzezza sia gratuita.
Ma i caratteri generali non li abbiamo mai afferrati. Ci
siamo persi nei dettagli, nell'occasione di immergerci senza
affondare, per renderci conto di possedere esattamente quel
che desideriamo. Cosí la nostra durata rappresenta
anche il tempo del mondo. Siamo in relazione col tutto, poiché sappiamo
che non c'è grandezza che cresca all'infinito, e in
virtú di ciò l'equilibrio appare ancora accessibile.
Oppure è possibile che questa notte i nostri arti
siano attraversati da un equivoco. Forse la via d'uscita
non è altro che il sentiero lungo lo spazio privato
in cui ci siamo trattenuti col calare delle tenebre, per
verificare tutto ancora una volta. Non lo sappiamo, ma siamo
consapevoli della logicità dei nostri pensieri. Arriveremo
a destinazione e ci sorprenderemo di essere già arrivati,
ignorando come e perché. E poi la prostrazione, qualcosa
come un dormiveglia. Fuori fa già chiaro. E in quello
stato un momento di breve durata in cui crediamo di essere
nel giusto. Accampiamo pretese sulle condizioni della nostra
vita. La chiarezza del contesto esistenziale, la sua logica
mirata a un traguardo, al di là della morte, quel
significato come se avessimo diritto ad attenderci qualcosa.
Alcuni credono che quel significato sia un fardello, una
zavorra che si dovrebbe sperperare frivolmente, però quei
contenuti non ci escono dalla testa e la nostra condizione
assume con una certa facilità tratti definiti. L'amarezza
e il cinismo, presumibilmente frutto di queste notti, non
sono altro che nomi per quella paura dello spazio aperto
di fronte alla città dormiente. Ma quel sonno è alquanto
irrequieto, e l'ignoranza sorge anche dalla disperazione.
Chi è davvero in grado di misurare l'abisso sul cui
orlo si trova il nostro letto? Nondimeno per noi la notte
non è cinica né amara, piuttosto ci indica
gli errori, e siccome quegli errori ci sono familiari, vi
scorgiamo le possibilità di una correzione. Cosí la
notte ci rinfranca con la constatazione che non potremo mai
sentirci a posto finché le condizioni dentro di noi
continueranno a stridere. La chiamiamo consolazione, poiché la
coscienza di questo stato ci affranca da un peso e offre
allo sguardo una direzione...
Agosto
2001
Traduzione
di Antonello Piana
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