UNA MAPPATURA DI CICATRICI
- riflessioni da una prefazione per un'antologia di poesia
italiana della migrazione -
Mia Lecomte
In
Italia la nascita della cosiddetta “letteratura della
migrazione”, ovvero quella prodotta dagli scrittori stranieri
presenti a vario titolo nel nostro paese che utilizzano l’italiano
come lingua di espressione letteraria, si colloca intorno all’inizio
degli anni novanta, e sino ad oggi si possono individuare alcune
fasi che vanno dalle prime opere sostanzialmente di testimonianza
dell’esperienza dell’immigrazione, scritte con
un italiano sommario, spesso a quattro mani con autori autoctoni,
fino ai brillanti prodotti di una maturazione linguistica,
contenutistica, e di generi; dal racconto autobiografico, dalla
memorialistica, si è passati al romanzo d’evasione,
a racconti più sperimentali, e si arriverà probabilmente
presto, com’è successo prima di noi in un paese
altrettanto monoculturale come la Germania, al fantasy, al
noir, alla fantascienza.
Il percorso della produzione poetica è stato più lento
e accidentato, il suo sviluppo più complesso, e a parte
qualche eccezione, solo ora cominciano a delinearsi veramente
dei poeti, con una propria voce ben definita e una tenuta qualitativa.
Quando si parla di letteratura della migrazione si adotta una
definizione mutuata dall’inglese, utile per intendersi
ma che in realtà è riduttiva della complessità del
fenomeno; se ne potrebbero utilizzare molte altre – letteratura
di ibridazione, globale, mondiale – ognuna ugualmente valida
e ugualmente limitativa. È molto difficile etichettare
la parola condivisa che trae origine dalla migranza, non è possibile
che con definizioni trasversali e profondamente interculturali
che ancora ci appartengono poco. In qualche modo bisogna capirsi,
e in passato le definizioni sono state necessarie per proteggere
questo fenomeno letterario e permettergli di aggiudicarsi degli
spazi. Oggi è soprattutto l’editoria che deve dimenticarsi
delle etichette, sia quella piccola, coraggiosa, che durante
gli anni ha comunque permesso una sorta di monitoraggio, ma anche
la grande, che è ora che si assuma le proprie responsabilità,
che diventi davvero rappresentativa della realtà culturale
del nostro paese. La letteratura della migrazione è lontana
dal poter essere considerata un sottogenere, e forse anche semplicemente
un genere. Ha una sua connotazione particolare, la migranza appunto,
che accomuna tutti gli scrittori in un’identità plurale
che li rende simili e dissimili ad un tempo, unici nell’alchimia
ogni volta differente che li contraddistingue. Riveste sempre
più un posto di primaria importanza, destinato a crescere
man mano che crescerà la qualità di una scrittura
fortemente motivata eticamente, ricca di storie e sentimenti
e linguisticamente innovativa. Tanto importante che credo sia
ora di smettere di ragionare per categorie e contrapposizioni
e collaborare invece a una ridefinizione dell’accoglienza.
Sia necessario cioè riconfigurare al più presto
i parametri critici con cui si è giudicata e classificata
fin qui la stessa letteratura italiana, che attraverso altre
letterature innestate nella sua lingua è ora costretta
a ripensare seriamente alla propria ragion d’essere, al
proprio destino. Ma deve trattarsi di un processo assimilatorio
che tenga presente comunque le differenze. Dimenticarsi di quelle
caratteristiche umane e dunque letterarie che solo la migrazione
conferisce e garantisce è un impoverimento, che perde
di vista una questione di importanza capitale che investe il
futuro di tutte le letterature, e non solo. Seppellisce un percorso
evolutivo e identitario di cui diventa impossibile rintracciare
reperti. E non permette di capire dove la nostra letteratura,
dopo quelle in lingua inglese, francese, e tedesca, si sta incamminando
nella sua evoluzione italofona, lontana e libera da una motivazione
postcoloniale, ma se mai frutto del nostro recentissimo e accidentato
apprendistato di “cittadini del mondo”.
Per
definirsi “cittadini del mondo”, certo, bisogna
anzitutto intendersi su cosa si possa ancora considerare mondo:
il disco poggiato sull’acqua di Talete, il dominio indiscusso
di Roma caput, l’immagine speculare della costruzione
ultraterrena dantesca, un campo di crociate, il globo di Colombo,
la materia delle prime scienze, l’aldiquà dell’infinito
leopardiano, una fucina instancabile di evoluzione e progresso,
la scacchiera per la spartizione di colonie, e schiavi, il
luogo di realizzazione di grandi utopie, l’oggetto di
impero delle nuove potenze economiche...
Il mondo è oggi qualcosa dagli incerti confini, spaziali
e temporali, che un’immensa massa di individui precari
attraversa sospinta dal bisogno, da esigenze di tutti i generi,
soprattutto primarie, vitali, ma anche le più sofisticate,
privilegiate. Globalizzazione non è altro che il nome
rassicurante che si è deciso di dare a un fenomeno la
cui portata ancora in parte si vuole ignorare, anche se lascia
inquieti, è l’etichetta con cui si è provveduto
a definire e formalizzare il processo deflagatorio in corso dell’universo
conosciuto, un modo illuminato ed evoluto, da stretta di mano
fra professori universitari, per salutare l’apocalisse.
Gli scrittori, i poeti, e primi fra tutti – in quanto a
esperienza – quelli migranti, sanno di non potersi considerare
cittadini di un mondo, il loro mondo, che cessa insistentemente
di essere; e ora più che mai riconoscono come pianeta
d’elezione soltanto la letteratura, e come unico passaporto
ancora valido quello che li individua e li rappresenta come “cittadini
della letteratura”.
La scrittura, narrativa e poetica, è un “fare”,
che vuol dire soprattutto cercare di costruire il proprio luogo,
la propria dimora, un universo in qualche modo somigliante in
cui trovare una ragione di esistere. Questo è vero a maggior
ragione per lo scrittore, il poeta migrante, che ha del “fare” e
del “subire” un’esperienza umana – e
conseguentemente letteraria – più diretta e circostanziata.
E per questo “sa”, in maniera più reale e
dolente di un qualunque autore stanziale, che i mondi che con
lui e attraverso lui si vengono ad incontrare, non sono quelli
che ha percorso e in cui si è stabilito, ma il luogo interiore
della propria invariata estraneità al mondo esterno, e
quello esteriore dell’integrazione sempre possibile e sempre
contraddetta. Si tratta dello straniamento esistenziale, lo ripeto,
conosciuto da ogni scrittore, e in particolare dai poeti – quell’ostranenie
che Josip Brodskij considera imprescindibile da ogni produzione
artistica in generale – ma per il migrante sperimentato
e subìto anche nella più ordinaria quotidianità,
le cui conseguenze sono più consapevoli, direi paradigmatiche.
Non che la condizione di “migrante” aggiunga né tolga
nulla a quella di “scrittore”. Se mai è vero
il contrario, è cioè l’accezione “scrittore” ad
aggiungere o togliere qualcosa allo status di migrante. Più chiaramente:
si può essere certo migranti senza essere scrittori – e
andrebbe ricordato, per non giudicare ingenuamente e ipocritamente
tanta cattiva letteratura della migrazione – ma non si
può assolutamente essere scrittori senza essere migranti.
Per questo anche il più stanziale degli scrittori di provincia,
che conosce e parla solo il proprio dialetto minoritario, non
può che essere, se si tratta realmente di uno scrittore,
che radicalmente e ineluttabilmente migrante. Va riconosciuto,
piuttosto, come un “viaggiatore immobile”.
Cosa contraddistingue allora la scrittura migrante, al di là della
lingua in cui essa si esprime? L’identità multipla
di cui è composta, la stratificazione di destini e progetti
futuri che ne guida la voce. Una formula ogni volta differente
che fa sì che in ogni momento sia altra, straniera a se
stessa, in un continuo rinnovamento della propria volatile essenza.
Gli scrittori migranti sono individualità ben distinte,
ognuna espressione di una composizione alchemica assolutamente
unica e irripetibile, risultato di una personale e composita
avventura biologica e culturale, che nella differenza accomuna
storie e destini. La causa e l’effetto insieme di una deterritorializzazione
interiore ed esteriore a un tempo, straordinariamente fertile.
La
caratteristica principale che emerge da questa nuova poesia
in italiano che cerchiamo di presentare – e che ne garantisce
in un certo senso la necessità, l’esistenza come
poesia – è innanzitutto l’alto grado di
eticità, ancorato alla storia, di cui si fa portatrice.
Quello che subito balza agli occhi, al di là delle differenti
identità geografiche dei poeti, è la sua “necessità”:
un vincolo carnale coi significati che arrivano di conseguenza
con la violenza delle esperienze reali. La sua forza deriva dalla
doppia componente della migrazione – il dolore e la speranza,
viva, di rinascita – che conferiscono appunto fisicità e
potenza al bel verso.
Proprio il dolore è infatti la chiave di volta, a mio
avviso, per comprendere la sostanza etica della poesia e delle
narrativa migrante, una letteratura che è germinata dal
dolore – dolore del distacco, dell’abbandono, della
perdita, della solitudine, dell’estraneità, della
diversità, della lontananza...– e si nutre consapevolmente
di dolore per dare corpo a parole che del dolore sono figlie,
sorelle, alleate, gli fanno eco all’infinito, nelle sue
più diverse incarnazioni. Ma il dolore è anche
e soprattutto speranza, avvertibile come vitalità rigeneratrice,
energia della parola, logos dell’animale uomo, in tutta
la sua materialità sublimata.
A individuare la poesia della migrazione è ancora il dato
linguistico, inteso come cardine della questione identitaria.
Accanto alla lingua egemone, se vogliamo della globalizzazione,
qual è certamente l’inglese, che sempre più sta
diventando una lingua di comunicazione basica, con una tramatura
più vicina a un codice numerico che a un alfabeto – e
questo è molto grave per lo stesso inglese, una lingua
bellissima che andrebbe invece approfondita in tutta la sua complessità e
ricchezza – proprio grazie alle nuove tecnologie di comunicazione,
che avvicinano mondi geograficamente e culturalmente molto lontani,
si stanno affacciando altri due territori linguistici: quello
della lingua madre, che in virtù di una maggiore circolazione
delle informazioni trova uno spazio di diffusione più ampio,
e quello della cosiddetta lingua neutra, “del cuore”,
una lingua scelta liberamente e “affettivamente” per
comunicare la parte più profonda di sé. È la
lingua che lo scrittore migrante trova necessariamente nelle
varie tappe del proprio pellegrinaggio migratorio e allo stesso
tempo decide autonomamente di utilizzare per esprimere il proprio
universo interiore. Una lingua, dunque, di imposizione ed elezione
ad un tempo.
Quella di abbandonare la lingua madre è comunque sempre
una decisione molto sofferta, un taglio con il proprio passato – le
proprie origini, la propria storia personale, il proprio paese,
inteso geograficamente e come spazio interiore, di cui si rischia
di impoverire il futuro letterario – che alcuni decidono
di non compiere mai.
Ed è una scelta complessa, perché la padronanza
di una lingua straniera, soprattutto come scrittore, implica
un lungo percorso, con una zona di passaggio, più o meno
ampia, che i linguisti chiamano di “duplice incompetenza”,
persi tra l’eco dell’idioma famigliare, che sbiadisce
ogni giorno di più, e i palpiti vitali di una lingua che
non si lascia possedere.
Una lingua è sostanzialmente un sistema di valori, e il
farla propria comporta necessariamente una condivisione. Ci sono
quindi sicuramente delle differenze fra la letteratura che si
esprime in una lingua scelta liberamente, e quella in una lingua
in qualche modo imposta dalle circostanze. Il secondo caso può riservare
delle gradite sorprese, come molti “matrimoni combinati”,
ma è nel primo a mio avviso che si riscontrano i risultati
migliori, o perlomeno più intensi, proprio per quella
componente di libertà – linguistica, contenutistica,
morale – che, nel rischio, è garanzia di uno spessore,
di una forza, altrimenti irraggiungibili.
Ed è questa differenza a rendere tanto importante, nella
sua unicità, il caso della letteratura della migrazione
in italiano, una lingua senza un passato coloniale tale da ricondurla
al filone delle letterature post-coloniali – con cui condivide
comunque molti risultati espressivi – scelta al di là di
qualsiasi imposizione implicita o esplicita, che viene conquistata
e fatta propria con più difficoltà, più lentamente
e laboriosamente, e proprio per questo rinnovata molto più radicalmente.
Sono modificazioni quasi impercettibili – i primi effetti
cominciano ad essere avvertibili soltanto ora – che vanno
di pari passo con la padronanza spregiudicata della lingua parlata,
ma che agiscono in maniera sotterranea, corrodendo visceralmente
le fondamenta di una costruzione solo apparentemente integra,
in un equilibrio di forze illusoriamente autonomo e definitivo. È proprio
una caratteristica dell’italiano, infatti, lingua di importanza
letteraria per eccellenza, quella di essere anche contaminata,
impura, dialettale, di essere caratterizzata da una doppia spinta
conservatrice/eversiva insita nella sua storia. Da sempre c’è stata
la ricerca di una lingua unitaria, attica, ciclicamente messa
in discussione, e oggi, in una situazione di stagnamento politico
e culturale, in cui l’italiano è ridotto ad un balbettio
contaminato da linguaggi pubblicitari e mediatici, in un appiattimento
linguistico e letterario in cui la stessa esistenza della poesia è messa
a dura prova, proprio questa lingua della migrazione, provvidenzialmente
e naturalmente rivoluzionaria, vitale, rischia di restituirci
finalmente – abortiti molti dei tentativi autoctoni costruiti
a tavolino – l’italiano nella sua vera ricchezza,
a farne finalmente cantare la poesia.
Da un punto di vista strettamente linguistico la migrazione,
volontaria o necessitata, comporta un lungo percorso attraverso
tutti i sensi di una lingua, e in certi casi espatriare è proprio
il mezzo per visitare tutti gli aspetti della lingua/esistenza:
quella d’accoglienza, ma anche la madre, che viene riscoperta
sulla scia della nuova consapevolezza acquisita. È anzi
il rapporto costante tra lingua madre e lingua d’uso che
garantisce la qualità della terza lingua, quella letteraria,
e l’incertezza delle parole dev’essere costantemente
ancorata alla propria soggettività umana e culturale,
in una parola, poetica. È una pratica dolorosa, il cui
travaglio si stratifica in una mappatura di cicatrici, ma è proprio
questo a garantire l’autenticità dello spessore
poetico.
Quando,
nel ’97, cominciai a pubblicare con la collaborazione
di Francesco Stella i primi poeti migranti nella collana “Cittadini
della poesia” – fino ad allora erano uscite soltanto
alcune prime antologie che contenevano promiscuamente narrativa
e poesia – si trattava ancora di un argomento molto poco
frequentato, se si eccettuano gli studi critici di Armando
Gnisci, pioniere e principale studioso del fenomeno, e nonostante
fossero già emersi dei narratori in grado di staccarsi
dell’aspetto esclusivamente cronachistico della prime
opere, ancora non si parlava di poeti, con tutto quello che
la poesia comporta.
In pochi anni si è fatta molta strada, gli scrittori,
i poeti migranti stanno riconfigurando a tutti gli effetti la
struttura monolitica della nostra letteratura nazionale, e si
può parlare di un vero e proprio movimento fiorito intorno
al fenomeno, un movimento a tutti gli effetti, con le sue diatribe
e le sue contraddizioni.
Ed è diventato a questo punto necessario un confronto
fattivo fra scrittori migranti e autoctoni – i viaggiatori
immobili –, una collaborazione artistica trasversale all’insegna
della contaminazione e dell’eterogeneità. Indispensabile
agli uni, da un lato, per liberare la lingua della poesia italiana
sfinita, autoreferenziale, da barocchismi ed ermetismi, e sperimentazioni
di una certa avanguardia ormai in retroguardia, e riascoltarla
davvero attraverso la voce altrui fatta propria; e agli altri
per essere accompagnati nella messa a punto dello strumento sonoro
senza rischiare un appiattimento ed un impoverimento dei risultati
poetici, perché questo possa risuonare e fare eco in tutta
la sua potenza, e acclimatarsi musicalmente all’interno
dell’universo comune di una parola sempre più bastarda
e condivisa.
I poeti che sono qui antologizzati sono molti di quelli che in
questi anni hanno lavorato alla ridefinizione italofona di una
letteratura unica, universale, e dei valori di cui è portatrice.
La loro individualità poetica, a prescindere dalla provenienza
geografica, è prodotto – lo si è detto – delle
loro “identità plurali”, multiple, composite
secondo i più diversi dosaggi, che producono risultati
tematici, e soprattutto stilistici, differenti.
L’utilizzo comune a tutti, ad esempio, del verso libero,
risente profondamente della versificazione poetica, spesso legata
all’oralità, del paese di ognuno di loro, ne innesta
i ritmi e le armonie nei versi italiani, creando sonorità che
rieducano la percezione metrica in senso auditivo, e non più solo
matematico, visivo.
Sono poeti che meritano di essere presi in considerazione per
ciò che individualmente e singolarmente li contraddistingue,
al di là di ciò che tutti li accomuna. Anche se
quella zona della letteratura italiana che è la poesia
della migrazione, continua comunque ad indicare e garantire,
in contro-trama, sul rovescio, le caratteristiche peculiari,
di genere, di cui abbiamo finora parlato. Si tratta insomma di
dare volume alle singole voci, non perdendo d’ascolto l’armonia
di insieme del corale, di apprezzare ogni singolo suono con l’orecchio
alle possibilità combinatorie che arricchiscono la simmetria
musicale globale.
Mia
Lecomte è nata a
Milano nel 1966, e vive a Roma. Laureata presso la Facoltà di
Lettere dell'Università di Firenze, con indirizzo
Letterature Comparate, svolge attività critica nell'ambito
della comparatistica, e in particolare della letteratura
italiana della migrazione, ed è autrice di testi per
l'infanzia, teatro e poesia.
Ha pubblicato: il saggio Animali parlanti. Le parole
degli animali nella letteratura del Cinquecento e del Seicento (Firenze 1995); i libri per bambini La
fiaba infinita e La
fiaba impossibile (Torino 1987), Tiritiritère (Bergamo
2001); il volume fotografico Luoghi poetici (Firenze
1996), realizzato con il fotografo Sebastian Cortés, di cui è autrice
e curatrice di testi ed apparato critico; e le raccolte poetiche Poesie (Napoli 1991), Geometrie reversibili (Salerno1996,
Premio Città di Ostia 1997, segnalato Premio Internazionale
E.Montale 1997), Litania del perduto (Prato 2002, testo a
fronte in inglese. Con incisioni dell'artista canadese Erica
Shuttleworth), Autobiografie non vissute (Lecce 2004).
Le sue poesie sono state pubblicate in raccolte antologiche,
italiane e straniere, e sulle riviste "Poesia","Pagine", "L'Area
di Broca", "Specchio", "Sagarana on-line".
Per l'ed. "Zone" di Roma dirige la collana Cittadini
della poesia, dedicata alla poesia della migrazione in italiano.
E' redattrice del semestrale di poesia comparata “Semicerchio”,
del quadrimestrale di poesia internazionale "Pagine",
delle riviste di letteratura on-line "Kùmà", "El
Ghibli" e "Sagarana", presso la cui scuola
di scrittura, a Lucca, svolge un laboratorio di poesia all'interno
del Master annuale.
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