IL 26° COLLOQUIO
Aldo
Selleri
Il
taxi si piantò all'ingresso del cento e cinque con una
frenata rabbiosa. Uno più cinque fa sei. Pericoloso.
La facciata del grattacielo si perdeva troppo in alto perché ne potesse
vedere la fine.
Lo accecò il riflesso del sole sulle pareti di cristallo. Sarebbe stato
lassù il suo nuovo posto di lavoro? Se il colloquio fosse andato bene,
se soltanto... Quanti ne aveva fatti in dodici mesi? Cinque? Dieci? Venticinque:
aveva controllato la sera prima con Giusi.
Gli teneva il conto dei colloqui fatti e delle lettere di rifiuto. Era lui che
non andava più bene o era il mondo che non funzionava più? Il collo
del tassista era nella posizione giusta: sarebbe bastato allungare le braccia.
- Dodici minuti, ha visto? - disse il tassista con voce flautata.
Lo ringraziò due volte, facendogli il verso. Piegò di lato il grande
corpo massiccio per uscire e sbatté la portiera.
Giusi
era preoccupata. Da quando era rimasto disoccupato non faceva
che ingrassare. Due chili al mese, almeno, e non stava più dentro
ai pantaloni.
- Sarebbe logico che tu perdessi peso, invece continui a gonfiarti.
- Logico? E' stato logico che mi abbiano licenziato secondo te?
Sì, metteva su chili: mangiare di tutto lo rendeva più sicuro.
Mentre sgranocchiava i suoi cioccolatini alla nocciola aveva una visione positiva
della vita e il futuro gli sembrava una grande torta da mordere. E mangiando
in quel modo diventava ogni giorno più forte. Le braccia gli erano ingrossate,
la pancia gli era diventata più dura. Un giorno, al solito bar, per richiamare
il cameriere che si attardava a servirlo, aveva tirato un pugno tale sul tavolo
che l’aveva sconquassato. Tutti si erano voltati a guardare, con ammirazione,
gli era sembrato.
Entrò,
spingendo la porta di vetro con la mano aperta. Disse il nome
della società al portiere e gli chiese a quale piano
dovesse andare con il tono di chi ordina. Aspettò l'ascensore
A della scala B per trentacinque secondi. Due guardie giurate
entrarono prima di lui. Lo squadrarono. Pigiò il ventisette.
Uno dei due premette il ventotto, guardando l'altro. Arrivò al
ventisettesimo piano. Salutò gli uomini in divisa che
non lo salutarono. Mentre l'ascensore si chiudeva, si voltò di
scatto a guardarli. Ridevano. Avrebbe sputato in faccia a entrambi,
ma mancavano solo sette minuti al colloquio.
Trend,
ricerche motivazionali, era scritto ad un lato dell'ingresso
sulla luccicante targa in ottone. Per tenerla così lucida,
pensò, la devono ripassare con un panno ogni mattina.
E ci attaccò la sua mano sudaticcia come per assicurarsi
che il nome fosse quello giusto.
- Vedremo - si disse - un'azienda vale l'altra.
Guardò l'ottone diventare opaco dove l'aveva bagnato di sudore. Si strinse
il nodo della cravatta nuova. Versace. L'aveva comprata in offerta a Como, se
no figurarsi le storie. Non era passato neanche un anno da quando l'avevano licenziato
e Giusi si preoccupava più del conto in banca che di come stava. I soldi:
quello le importava. I dirigenti della sua azienda, licenziati prima di lui,
erano ancora disoccupati. Li incontrava che andavano a zonzo per la città,
con le facce lunghe come fantasmi. Evitava di salutarli. Il vecchio traballante
che chiedeva l'elemosina a un semaforo vicino a casa, era una sua vecchia conoscenza
di lavoro, il fattorino che avevano licenziato ai primi segnali di crisi. Non
gli fece l'elemosina: tirò dritto con la testa alta di chi sta ancora
in sella.
Il
colloquio doveva andare bene. Suonò e spinse. La porta
rimase chiusa. Lesse il cartellino incollato con una fitta
all'occhio destro. Direzione e ricerca del personale: salire
al ventottesimo piano.
Quell'idiota del portinaio: cinque minuti e ci sarebbe stato il colloquio.
Salì a piedi senza sentire gli scalini sotto le scarpe. Dal basso un brusio
crescente: si toccò le orecchie, non era un buon segno. Sentiva le gambe
pesanti, la testa vuota, gli occhi sul punto di lacrimare. Sudava come per una
corsa e gli mancava il fiato. Si muoveva piano, con un'infinita pazienza per
se stesso:astronauta smarrito in un paesaggio lunare che guarda la sfera terrestre
con nostalgia.
D'interviste ne aveva già fatte troppe. Dalla vetrata del pianerottolo,
guardò le montagne: cime innevate contro un cielo macchiato di grigio.
Niente di speciale. Le nuvole mosse dal vento fuggivano verso l'orizzonte come
sarebbe fuggito volentieri lui da quel luogo. Pensò al leopardo che prende
la rincorsa prima di piombare sulla preda. Pensò alla rete di segni incisa
sulla mano che conteneva il suo destino. Pensò alla schiena di Giusi,
costellata di nei che appartenevano solo a lui. Solo a lui?
Ore
dieci meno due minuti. Direzione e ricerca del personale. La
porta si aprì. Grigia in faccia come la cartella che
teneva sotto braccio, la segretaria lo fissò come un
nemico.
- Lorenzo Farini, per il colloquio - disse sottovoce, come se nessuno dovesse
saperlo.
La segretaria annuì con il capo. Le guardie giurate ai lati del tavolo
di ricezione lo puntarono. Le pistole nella fondina di pelle nera sembravano
tatuate sul blu dei calzoni. Uno dei due disse qualcosa all'altro. La sua cravatta
era troppo appariscente? La cravatta è sempre molto importante, aveva
detto l'esperto in outplacement. Attira l'attenzione e valorizza quello che uno
dice. Balle. Anche uno sputo in faccia rende attenti al momento giusto. Quel
farabutto in doppiopetto li aveva presi per il culo. Ricordava i colleghi alla
macchina del caffè, le battute sulle donne e sulle partite di calcio.
Illusi. Lo sanno tutti che alla loro età, quando si è licenziati,
non si trova più un impiego. Due mesi di corso a pagamento e quelle dispense
sconclusionate sul modo d’essere efficienti a ogni età. Ridicolo.
Non è mai cambiato niente. Tutti con le zanne di fuori, pronti a mordere
per la bistecca.
Le segretarie lo guardavano. Era ingrassato ma i chili in più non hanno
importanza quando uno funziona. Nessuna aveva notato i suoi capelli tinti in
castano chiaro con quello shampoo speciale. Affrontò la più carina
nella toilette, mentre si rifaceva il trucco. Si fa così quando hanno
quell'età, non ci si perde in chiacchiere. La ragazza svenne, lui uscì in
fretta facendo finta di niente.
Lo stesso giorno, disse il fatto suo al direttore spingendolo contro il muro
e tirandolo per la cravatta. Gli fu detto di non farsi più vedere.
-
La stavamo aspettando - gli disse la segretaria come se fosse
in ritardo. Con un colpo d'anca girò sui tacchi e lo
guidò per un corridoio illuminato da tubi al neon che
si perdevano all'infinito. Non era male. La schiena davanti
a lui aveva un profilo consistente.
Era diventato un esperto di corpi femminili a forza di frequentare quelle donne.
In stanze maleodoranti di pensioni equivoche ne studiava i contorni come un anatomista.
Le sceglieva con attenzione lungo le strade di periferia e le portava in quelle
camere sgangherate per trovare mezz'ora d'oblio. Dopo, esigeva che raccogliessero
nude i biglietti da cinquantamila che gettava a terra.
Certo, andare a puttane era un gioco divertente, ma i soldi della liquidazione
sarebbero finiti, prima o poi. Se Giusi avesse saputo come spendeva i loro soldi...
I loro soldi erano quelli che aveva guadagnato lui, non i loro soldi. Giusi era
così: controllo e dedizione. Merda, non la sopportava più.
Prima di lasciarlo nella sala dei colloqui, la segretaria lo guardò. Lui
si passò la lingua all'angolo della bocca e le strizzò l'occhio.Lei
non si scompose: tirò in giù la gonna elastica e gli chiuse la
porta in faccia.
Troppo
vetro. Troppo sole. Si sentì spiato e indifeso. I riflessi
lo bucavano da una parte all'altra senza misericordia. Voltò la
schiena al panorama della città che si estendeva dalle
vetrate in una mappa di strade e di quartieri. Leggerla sarebbe
stato inutile. Il colloquio, se mai doveva accadere, sarebbe
accaduto in ogni caso. Sarebbe stato il ventiseiesimo. Due
e sei. Fanno otto. Otto diviso due fa quattro. Non porta fortuna.
Merda. Ancora una volta.
Rimase
in piedi a fissare il tavolo, un condannato in attesa dell'esecuzione.
Abbassò lo sguardo sul mogano lucidato a specchio: una
striscia umida lo percorreva come uno sfregio. La seguì.
Girò il collo e non poté evitare la vista della
città. I campanili del centro storico svettavano sopra
i tetti rossi. Dalla parte opposta le ciminiere della zona
industriale sputavano pennacchi di fumo a ritmo cadenzato.
Un ponte divideva la città in due. Una freccia d'acciaio
al centro di una rotonda verde, si alzava nel grigio.
- Un'anima divisa - pensò.
Sentì la freccia entrargli nella carne. Ritornò con lo sguardo
al tavolo. Quel filo di bava era il confine fra la sua assunzione e un nuovo
rifiuto. Si toccò la guancia sinistra. Il ronzio alle orecchie ritornò a
pompare.
La
immaginò in sottoveste nera come l'aveva lasciata. Il
seno fermo, le gambe bianche scoperte fino al ginocchio. Una
cosa era Giusi e un'altra cosa era il corpo di Giusi. Aveva
perso Giusi in un luogo che aveva smesso di cercare ma aveva
conservato il suo corpo rotondo e generoso. Lo spiava, lo sorvegliava
eccitandosi. Possederlo in silenzio era un male tollerabile
con la complicità dell'altra Giusi che da lontano, da
quel suo luogo sconosciuto, dava il consenso alla loro relazione
senza anima né cuore.
A quell'ora il corpo di Giusi doveva essere ancora in cucina. La vedeva passare
da una sedia all'altra. Fumare. Rovistare nei cassetti. All'attaccatura dei capelli
e sotto le ascelle, gocce di sudore la imperlavano. Le leccò: una a una.
E le contò mentre le assaporava. Amare e nutrienti, multicolori come frutti
esotici, benefiche come una medicina. Era il momento di penetrarla e penetrandola
avrebbe fermato la sua testa che ticchettava e pensava sempre ai soldi. Penetrandola,
l'avrebbe fatta morire questa volta. E anche lui sarebbe morto dentro di lei,
facendola finita per sempre.
Non
era in cucina. Era a letto con quello. Era lui che leccava
il sudore a Giusi e dovunque gli piacesse. Ora che lo sapeva,
tutto era più facile, anche la conta dei nei sulla sua
schiena. Non l'avrebbe più fatta da solo. E in due a
contare, c'erano più probabilità di non sbagliare
il totale. Il bilancio in un'azienda doveva quadrare come la
conta dei nei sulla schiena di Giusi. Non avrebbe saputo dire
quale fosse più importante. No, non poteva essere. Giusi,
ritta in piedi a gambe larghe e con le mani ai fianchi, stava
semplicemente guardando l'orologio appeso sopra il frigorifero.
Soffiava via dalla fronte i capelli, pensando al suo colloquio.
Si stava preoccupando lei.
Si
strinse forte il nodo della cravatta. Doveva fare buona impressione.
Essere self confident. Padrone di se stesso. Dare le risposte
giuste. Non doveva sbagliarne una. Doveva... Dieci minuti che
aspettava. Si guardò alle spalle. La porta era chiusa.
Guardò la superficie del tavolo. Sullo specchio sanguigno
del mogano lucido spuntò il profilo di una minuscola
gobba che avanzava. Gli zoccoli d'un cavallo al galoppo lo
assordarono. Fece un passo indietro. Portò le mani al
capo, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, lo scarafaggio
non c'era più.
-
Devi farti vedere - gli aveva detto Giusi, quando lui le parlò del
suo amante come di uno che conoscevano bene. Glielo aveva descritto
in tutti i particolari, esattamente come l'aveva visto quella
sera a braccetto con lei. Il riflesso di Giusi insieme a quell'uomo
sulla vetrina del supermercato, mentre passavano, si era impresso
fra una scarpa e una borsetta. Come stavano bene in quella
cornice di pelli odorose. Alto e snello lui, elegante lei in
tacchi alti e cappotto nero. Giusi non negò, si limitò a
guardarlo con la sua solita espressione ansiosa.
- Va' da un medico - gli disse - prima che sia troppo tardi - e si sfilò le
nailon nere.
L'uomo
delle assunzioni era molto più giovane di quanto si
aspettasse. Troppo giovane. E gli strinse la mano con troppa
energia.
- Piacere, Arrighi.
Fece fatica a non stritolargliela perché capisse da subito come stavano
le cose. Si trattenne mordendosi il labbro inferiore. Succhiò una goccia
di sangue mentre l'altro riempiva la prima riga del questionario. Occhi neri
acquosi, mento rientrante, naso da uccello rapace. Impettito nel suo abito grigio
ferro, Arrighi si arroccò sulla poltrona a capotavola, appoggiandosi con
la schiena all'indietro e lo squadrò dall'alto in basso.
- Farini, per quel posto... - disse lui.
- Sì, certo, abbiamo letto il suo curriculum. Ci dica tutto - disse Arrighi.
Lui si grattò la punta del naso. Non sopportava il plurale maiestatico:
quel giovanotto non aveva capito la situazione. Si schiarì la gola e disse:
- Beh, prima mi dica tutto... lei.
Giusi non sarebbe stata contenta della sua risposta. Si era raccomandata di prestare
attenzione ma forse Giusi in quel momento... Si toccò il collo alla vertebra
cervicale. Sotto le dita avvertì una presenza viva. Si controllò,
lo sollevò e lo tenne sospeso in alto. Allungò un braccio e lo
abbassò sotto il tavolo mentre Arrighi si infervorava in una descrizione
sospetta della società di ricerche motivazionali. Lo scarafaggio si dibatteva.
Lo tenne fermo con la punta della scarpa. Attese che l'altro finisse di parlare.
Poi schiacciò. Arrighi balzò di scatto in piedi rovesciando la
sedia all'indietro. Diventò scuro in faccia e la pelle si trasformò da
nera a viola mentre lo investiva con una cascata di bestemmie sconnesse. Mai
bestemmiare con lui, lo rendeva nervoso. Il volto di Arrighi, come percorso da
una scarica elettrica, si coprì d'escrescenze rosse. Gli occhi strabuzzarono
pupille fosforescenti. Due antenne gli spuntarono dal cranio calvo e vibrarono
come scudisci contro di lui. Si stropicciò le mani: non poteva che difendersi.
Lo afferrò per il collo con le mani tozze e capaci. Gli faceva schifo
come apriva e chiudeva la bocca, come sibilava dal dolore.
- Iiutooo...to...to...
Che non si permettesse di alzare troppo la voce con lui. Gli strozzò il
lamento in gola e con le mani a morsa continuò a stringere più che
poté. Aculei lo graffiarono e sanguinò per un pungiglione che gli
trapassò un braccio. Non sentì dolore e continuò a stringere.
Un vomito colloso, giallo e verde, gli impiastricciò gli abiti: l'acido
bruciava sulla pelle e l'odore di fiori marci era soffocante. Non importava.
Strinse finché l'altro non smise di dibattersi e continuò a stringere
anche quando sentì quel corpo spegnersi senza vita. Un ultimo fremito
si trasmise e un sibilo uscì dal suo occhio mediano. Fu tutto. Lo distese
sul tavolo con cura, allungandogli le grandi chele da insetto, accostando le
zampe al corpo nerastro e componendo le ali spezzate sopra il gonfiore del ventre.
Una musica di harmonium salì fino alle gemme del lampadario: ammirò commosso
quei luccichii come un messaggio dall'alto. Giustizia era stata fatta. Quello
scarafaggio che aveva sporcato il tavolo con la sua bava velenosa aveva finito
di nuocere.
L'avrebbero assunto per la sicurezza che aveva dimostrato e per la prontezza
del suo intervento. Era giusto che l'assumessero e l'avrebbero assunto. Tirò un
sospiro, spalancò la finestra. Guardò dove il grattacielo si congiungeva
alle nuvole. Sentì il telefono squillare. Non rispose. Doveva arrivare
alla fine di quella strada di cristallo che aveva intravisto e incominciò ad
avviarsi. Mise un piede di fuori, sentì che lo chiamavano dal basso. Non
diede retta, doveva tirare dritto lui. Giusi sarebbe stata contenta quella sera.
Attese
che l'altro finisse di parlare. Alzò la punta della
scarpa. Lo scarafaggio scappò via lasciandosi dietro
una puzza di muschio bagnato. Lo vide addossato alla parete,
e mimetizzarsi nel grigio della moquette. Era là che
lo guardava con due punte di spillo, aspettava. Come si permetteva?
Avrebbe fatto meglio a schiacciarlo subito.
Arrighi,
appoggiandosi allo schienale, inclinò la sedia all'indietro
e si dondolò. Era il suo turno. Dopo una pausa di silenzio,
dedicata al corpo di Giusi, lui incominciò. Parlò come
non aveva mai fatto prima in un colloquio di lavoro, anzi,
in venticinque colloqui di lavoro. Disse tutto quanto l'esperto
in outplacement gli aveva insegnato: nell'ordine giusto, virgole
comprese. Rispettò le pause senza incepparsi. Indugiò su
alcune parole, si affrettò su altre. Non parlò della
sua età ma della sua esperienza. Nominò le tappe
della sua carriera una a una, con lo sguardo fermo sull'interlocutore.
Sorrise quanto bastava, diventò serio quando occorreva.
Seppe arrabbiarsi nel definire la concorrenza e chiarì le
sue aree d'intervento da quelle di supervisione. Raccontò una
barzelletta per sdrammatizzare, concluse con una citazione.
Arrighi lo fissava in mezzo agli occhi. Quel bastardo in doppio petto grigio
gli sorrideva con una smorfia larga quanto l'intera bocca mentre gli rovistava
passato e presente. Si lasciò ispezionare il cervello promettendosi di
fargliela pagare cara. Poi successe quello che successe: il naso adunco di Arrighi
si raddrizzò, il mento sfuggente gli si trasformò in quello di
una statua greca, gli occhi gli si accesero, azzurri e luminosi come due stelle
d'oriente. Era bello e un leggero profumo di cuoio gli stuzzicò la memoria.
Non poteva sbagliarsi. Lo aveva riconosciuto. Era l'uomo del supermercato.
- Si consideri assunto - gli disse Arrighi.
Gli tese la mano. Lui gliela strinse quel tanto che bastò, fingendosi
tranquillo. Finché non avesse deciso che punizione impartirgli, non doveva
tradirsi. Arrighi gli stava già descrivendo l'incarico. Finse di stare
attento e cominciò a strofinarsi le mani.
Il bidonista dell’outplacement diceva che in un colloquio di lavoro bisogna
saper ascoltare. Balle. Si sciolse il nodo della cravatta con un gesto deciso.
Il punto mimetizzato nella moquette dava segni di fibrillazione e percepì più intensa
la puzza di muschio bagnato. Era il momento: nessuno doveva sapere. Non appena
Arrighi avesse concluso, avrebbe fatto il resto. Giusi non sarebbe stata contenta
quella sera.
Aldo
Selleri escrive narrativa e testi teatrali. Suoi
radiodrammi sono
trasmessi dalla Rai, e alcune commedie sono state rappresentate
a Roma, Bologna, Venezia e Bolzano. La sua raccolta
di racconti "Il
buio e la colomba" ha vinto il X Premio
Giuseppe Giusti per la narrativa inedita. Altri
suoi racconti sono stati premiati e pubblicati su periodici letterari e
quotidiani. Vive e lavora a Milano, dove fa il copywriter.
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