CAFÉHAUS

 

Rosanna Gangemi

 


A Rosa Casella Trimarchi

 

"Questa preziosa bibita che diffonde per tutto il corpo un giocondo eccitamento, fu chiamata la bevanda intellettuale, l'amica dei letterati, degli scienziati e dei poeti perché, scuotendo i nervi, rischiara le idee, fa l'immaginazione più viva e più rapido il pensiero."

Pellegrino Artusi

Cinque uomini entrano in un Caféhaus viennese e fanno la loro ordinazione: ognuno vuole qualcosa di speciale, di diverso, di extrawurst, come si dice nella capitale austriaca. Uno ordina un caffè, e che sia all’americana!; il secondo vuole un tè marrone e denso; il terzo chiede un cappuccino con poco latte; il quarto prende un Mélange e il quinto pure, ma più scuro e con latte più freddo. Il cameriere annuisce, va in cucina e dice: 5 caffè, per favore!
Questa storiella me la raccontava sempre mia nonna quando andavo a trovarla. Ero io che gliela richiedevo puntualmente, perché mi metteva di buonumore. Era la mia unica nonna ed io la sua unica nipote. Solo che lei viveva in Austria e noi in Italia. Ma nonostante la sua presenza nella mia vita sia stata breve, centellinata, rimandata e, infine, terminata, è stata formidabile.
Quelle poche volte che siamo andati a farle visita nel piccolo appartamento che aveva proprio accanto agli audaci palazzi di Hundertwasser, ho passato giorni da sogno. Mentre i miei se ne andavano a far spese o per musei, lungo il Ring o nei cineclub, lei mi prendeva a braccetto e mi portava in giro tra i vicoli, per minuscoli, ambigui mercatini delle pulci balcanici e infine in un caffè, sempre lo stesso, un Caféhaus, come si dice da quelle parti e, più precisamente, l’”Haus zur blauen Flasche”, dove servono la più buona cioccolata che abbia mai gustato. Ma lei prendeva solo e sempre una tazza di Kapuziner, caffè nero come l’abito d’un monaco lievemente annaffiato di latte, cui accompagnava un paio di croissant fumanti.
Così accadde l’ultima volta che l’andai a trovare, quando io ero già una teen-ager devastata dall’acne e lei una distinta vecchietta devastata dalla malattia. Ma, non meno risoluta e disinvolta di sempre, mi portò comunque al consueto caffé. E, quella volta, ordinai il suo di solito.
E rinunceresti così alla tua adorata cioccolata? – mi chiese ridendo.
– E’ vero che provengo dalla patria dell’espresso, ma voglio capire perchè tu ami tanto questa bevanda...
Per comprenderlo, puoi anche assaggiare da me questa delizia - disse ancor più divertita – e ascoltarmi con attenzione.
– Lo ordinerò ugualmente, ma sono curiosa di sentire cos’hai da raccontare!
Eccolo svelato. Il 12 agosto 1683, la mia città subì un duro attacco dall’esercito turco. I viennesi, sotto il comando del Conte Graf Starhemberg, inizialmente riuscirono a neutralizzare l’assalto. Ma, di colpo, la situazione precipitò e la città si trovò circondata. Occorreva un messo e occorreva particolarmente bravo. La scelta cadde, in virtù del suo coraggio e della sua arguzia, su un viennese dalle origini incerte, Georg Franz Kolschitzky.
– Kolschitzky come te! – esclamai.
Esatto, era un mio avo. Abile nei travestimenti e in grado di parlare il turco, fu lui il messaggero di pace mandato a chiedere aiuto a Karl von Lothringen e insieme, il suo esercito e quello polacco, cacciarono definitivamente gli invasori.
– Georg, come ringraziamento per il suo adempimento, chiese ai “padri della città” i cinquecento sacchi di caffè abbandonati dai turchi nell’accampamento militare. E una casa.
E l’ottenne?
– Certo, cara. E quella dimora divenne la sua officina. Lì praticò, lui per primo, la professione di “Kaffeesieder”, letteralmente bollitore di caffè. Lì tostava i chicchi di caffè verde, li macinava e li annaffiava con acqua bollente. E tanto bevve quell’infuso che ci prese gusto... Però, questa bevanda calda, nera e amara, ai viennesi non piacque affatto. E fu attraverso una disavventura, che adesso non riesco più a ricordare, che un giorno capitò dello zucchero nell’odorosa brodaglia.
Quello che precisamente mancava.
– Già... Qualche esperimento, del latte, poi anche la panna, e nacque il tipico mélange viennese. Georg, con l’aiuto della moglie, trasformò parte di quella casa in un piccolo ma elegante caffè, dove la gente poteva sedersi e gustare la nuova, irresistibile bevanda in mille varianti. E così, ben presto, si ritrovarono in tasca un bel gruzzoletto.
Ah, il locale si chiamava ”Haus zur blauen Flasche”.
Nonna, è questo!
– Ci sei arrivata, nipotina! E adesso capisci perchè ci sono tanto affezionata. E anche se questa storia avesse solo un fondo di verità, ma io non lo credo, Georg è certo che era un mio avo e quindi anche il tuo. Ho buttato tanti di quei soldi in ricerche genealogiche per avere più di una conferma di questa discendenza...
E arriviamo a noi. Io me ne sto andando, tesoro, ma ti voglio lasciare un mio ricordo, diciamo così, concreto: questo caffè. L’ho acquistato pochi mesi fa, con i risparmi di una vita, ma aspettavo la tua visita per dirtelo. E’ molto quotato, lo sai, ma potrai gestirlo in prima persona solo una volta compiuti i diciotto anni. Quindi, fino a che non sarai maggiorenne, se ne occuperà tua madre, poi andrà a te. E adesso andiamo, i tuoi saranno già di ritorno.
A proposito, com’era il caffè?

 



Rosanna Gangemi, classe '76, nata a Torino e cresciuta a Messina, oggi vive a Roma. Giornalista pubblicista, è stata per anni inviata del settimanale siciliano "Centonove" per le pagine di arte e spettacolo e free-lance per numerose riviste di cinema e mass-media. Esperta formatrice, è traduttrice dal francese e autrice di alcuni saggi sui paesi in via di sviluppo. Caféhaus è il suo primo racconto.



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