IL GIOVANE HOFMANNSTHAL
Stefan
Zweig
L'apparizione
del giovane Hofmannsthal (nella foto) è, e tuttora rimane,
memorabile quale uno dei grandi miracoli di precoce compiutezza;
nella letteratura mondiale non conosco, all'infuori
di Keats e di Rimbaud, alcun esempio di pari impeccabilità
nel dominio della lingua, né altra simile vastità
di slancio ideale, né tale compenetrazione della sostanza
poetica sin nell'ultima riga come in questo genio grandioso, il
quale già a sedici e diciassette anni si è iscritto
negli eterni annali della lingua tedesca con versi incancellabili
e con una prosa tuttora insuperata. i suoi inizi improvvisi e
la sua già compiuta perfezione segnarono un fenomeno che
a mala pena si ripete nell'ambito di una generazione. Tutti quelli
che per primi ne ebbero notizia, si sono perciò stupiti
dell'inverosimiglianza di quel fenomeno come di un evento soprannaturale.
Spesso Bahr mi narrò lo stupore da lui provato ricevendo
per la sua rivista, e proprio da Vienna, il saggio di uno sconosciuto
"Loris" (ogni pubblicazione col proprio nome era vietata
a uno scolaro liceale) giacché non aveva mai incontrato
fra le collaborazioni di ogni parte del mondo un lavoro dove,
con linguaggio nobilmente ispirato, si prodigasse con mano leggera
tale ricchezza di pensiero. Si domandò chi potesse mai
essere lo sconosciuto "Loris". Certo un vecchio che
ha filtrato in silenzio per anni e anni le proprie cognizioni
e che, in misteriosa clausura, ha coltivato con magia quasi voluttuosa
le più sublimi essenze del linguaggio. E tale savio, tale
geniale poeta, viveva nella sua stessa città senza che
mai ne fosse giunta notizia! Bahr scrisse senz'altro allo sconosciuto
fissando un incontro in un caffè, nel celebre caffè
Griensteidl, quartier generale dei giovani letterati. D'un tratto
si avanza a passi rapidi al suo tavolino uno studentello esile
e ancora sbarbato, coi calzoni corti, si inchina e dice con una
voce ancora in formazione, con tono conciso e deciso: "Hofmannsthal!
Sono io Loris!". Ancora a distanza di anni, ogni volta che
Bahr ripeteva il racconto del suo stupore, era colto da eccitazione.
A tutta prima non volle credere. Un liceale capace di un'arte
simile, di tanta ampiezza e profondità di vedute, di così
sovrana conoscenza della vita prima di viverla? Quasi le
stesse cose mi riferiva Schnitzler. Questi faceva allora ancora
il medico, giacché i primi successi letterari non sembravano
garantire la sicurezza dell'esistenza, ma era già considerato
il capo della "giovane Vienna" e a lui si rivolgevano
volentieri i più giovani per averne un giudizio e consiglio.
Aveva conosciuto per caso lo studente alto e snello presso conoscenti
e l'aveva notato per la sua pronta intelligenza, così che
quando il ragazzo gli chiese di leggergli una breve opera teatrale
in versi, volentieri lo invitò nel suo appartamentino da
scapolo, senza peraltro nutrire grandi speranze. Pensava che avrebbe
udito uno dei soliti componimenti teatrali da studente, sentimentale
o pseudoclassico. Invitò alcuni amici; Hofmannsthal si
presentò in calzoni corti, un po' nervoso e intimidito,
e incominciò a leggere. "Dopo alcuni minuti",
mi narrava Schnitzler, "ci facemmo attenti e cominciammo
a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai
udito da un vivente versi di tale perfezione, di tale plasticità
impeccabile, di tale fluidità musicale; anzi dopo Goethe
non li avevamo quasi ritenuti possibili. Ma ancor più mirabile
di questa maestria della forma, unica e non più raggiunta
da alcuno nella lingua tedesca, era la conoscenza del mondo, la
quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola
non poteva venire che da una magica intuizione." Quando Hofmannsthal
finì, tutti rimasero muti. "Io", mi disse Schnitzler,
"avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta
un genio nato e mai in tutta la mia vita l'ho sentito così
fortemente." Chi a sedici anni cominciava così - o
meglio non cominciava ma appariva già perfetto all'inizio
- doveva diventare un fratello di Goethe e di Shakespeare. E in
realtà la perfezione parve sempre più perfezionarsi:
dopo quel primo lavoro in versi, Ieri, seguì il
grandioso frammento La morte di Tiziano nel quale la lingua
tedesca si elevava ad armonia italiana. Vennero poi le poesie,
ciascuna un avvertimento per noi, tanto che ancor oggi, dopo decenni,
le so a memoria verso per verso; vennero i piccoli drammi e quei
saggi che concentravano, nell'ambito mirabilmente misurato di
non molte pagine, ricchezza di sapere, perfetta sensibilità
artistica, ampiezza di vedute. Tutto quello che il giovane liceale
scriveva era come cristallo, illuminato dall'interno, oscuro e
ardente a un tempo. Il verso, la prosa si plasmavano nelle sue
mani come profumata cera d'Imetto, per un miracolo irriproducibile,
ogni sua opera aveva sempre la misura conveniente, mai una lacuna
o una pletora; si sentiva che doveva essere misteriosamente guidato
per quelle vie da una forza inconscia ed incomprensibile fino
a terre non ancora calcate.
Quanto tale fenomeno affascinasse noi, che ci eravamo educati
a misurare i valori artistici, non mi è facile far comprendere.
Che cosa può toccare di più esaltante a una giovane
generazione che l'avere accanto a sé, in carne e ossa,
il poeta puro e sublime, colui che non si sapeva concepire se
non con irraggiungibile sogno o visione, nelle forme leggendarie
di Hölderlin, di Keats e di Leopardi? Per questo rammento
con tutta chiarezza il giorno in cui vidi per la prima volta Hofmannsthal
in persona. Avevo sedici anni e poiché noi tenevamo dietro
con cupida curiosità a tutto quello che il nostro mentore
ideale faceva, fui molto eccitato scoprendo in un giornale la
breve notizia di una sua conferenza intorno a Goethe al "Club
Scientifico". Non riuscivamo a capire come mai un simile
genio parlasse in così modesto ambiente: nella nostra adorazione
avremmo aspettato che anche la sala più vasta si affollasse
se un Hofmannsthal accordava la sua presenza. Invece in tale occasione
constatai una volta di più quanto noi piccoli studentelli
precedessimo la critica ufficiale e il gran pubblico col nostro
giudizio, col nostro giusto istinto per i valori perenni. Nella
sala piuttosto angusta erano convenuti centoventi ascoltatori
o poco più, né sarebbe stato necessario che io nella
mia impazienza arrivassi una mezz'ora in anticipo per assicurarmi
un posto. Aspettammo un poco, poi d'un tratto un giovanotto esile,
in sé poco notevole, attraversò i nostri posti per
salire sul podio e cominciò a parlare senza alcuna preparazione,
così che mancò il tempo di bene osservarlo. Hofmannsthal,
coi baffetti morbidi appena accennati e la figura elastica, sembrava
ancor più giovane di quanto mi fossi aspettato. Il volto,
dal profilo deciso e dal colorito italianamente scuro, appariva
teso e nervoso. A quest'impressione contribuiva l'inquietudine
degli occhi scuri e vellutati, ma molto miopi; egli sembrò
lanciarsi con un tuffo nel discorso, come un nuotatore nelle onde
a lui familiari e quanto più procedeva, tanto più
liberi divenivano i suoi gesti, più sicuro il suo atteggiamento.
Appena immerso nel mondo dell'intelletto (lo osservai più
tardi anche spesso in colloqui privati) passava dall'iniziale
timidezza a una meravigliosa e vibrante lievità, come accade
all'artista ispirato. Solo alle prime frasi mi accorsi che la
sua voce non era bella, spesso vicina al falsetto, con facili
sbalzi, ma subito il discorso ci sollevò tanto in alto
che non ci avvedemmo più né della voce, né
quasi del volto. Parlava senza manoscritto, senza appunti, forse
anche senza una preparazione esatta, ma del magico senso della
forma, in lui innato, ogni frase traeva una perfetta armonia.
Si snodavano stupefacenti le antitesi più temerarie, per
sciogliersi poi in formule limpide e pur sorprendenti. Sentivamo
che quanto ci veniva offerto non era che il dono casuale attinto
da una ben maggiore pienezza e che egli, ispirato e sollevato
in una sfera superiore, avrebbe potuto continuare a parlare così
per ore e ore, senza impoverirsi e senza abbassare il proprio
livello. Anche nei colloqui privati di anni posteriori ho sentito
la magica forza di questo "inventore di canti sonori e di
sprizzanti dialoghi", come di lui disse Stefan George. Hofmannsthal
era inquieto, nervoso, sensibilissimo ad ogni pressione atmosferica,
spesso irritabile e di cattiv'umore nei rapporti privati, così
che non era sempre facile avvicinarlo. Nel momento però
in cui un problema lo interessava, pareva determinarsi un'accensione
con un unico volo luminoso e ardente al pari di un razzo trascinava
allora ogni discussione nella sfera a lui propria e a lui solo
del tutto raggiungibile. Fuorché talvolta con Valéry,
che pensava con più cristallina pacatezza, e con l'impetuoso
Keyserling, non ho mai conosciuto colloqui di più alto
livello che con lui. Tutto in quegli istanti di vera ispirazione
era presente concretamente alla sua memoria demoniacamente vigile,
ogni libro da lui letto, ogni quadro veduto, ogni paesaggio; una
metafora si legava all'altra naturalmente, come due mani che si
congiungono, nuove prospettive si ergevano al pari di quinte improvvisate
dietro un orizzonte che era parso già chiuso. A quella
conferenza per la prima volta e più tardi negli incontri
personali ho veramente sentito il lui il flatus, il vivificante
ed entusiasmante respiro dell'incommensurabile, non mai pienamente
accessibile alla ragione.
In un certo senso Hofmannsthal non ha mai superato l'irripetibile
prodigio che egli rappresentò fra i sedici e i ventiquattr'anni.
Io non ammiro meno i suoi lavori della maturità, gli splendidi
saggi, il frammento Andreas, torso del romanzo forse più
bello in lingua tedesca, nonché singole parti dei suoi
drammi; tuttavia man mano che più strettamente si legava
al teatro e agli interessi del suo tempo, che più chiaramente
prendeva coscienza e ambizione dei propri piani, si è perduta
una parte di quella perfezione da sonnambulo, di quella purissima
ispirazione delle opere dell'adolescenza, è svanita così
anche un poco dell'estatica ebbrezza della nostra gioventù.
Col magico senso proprio degli adolescenti, noi abbiamo presagito
che quel miracolo della nostra gioventù sarebbe stato unico
e senza ricorso nella nostra esistenza.
(Tratto
dal libro Il mondo di ieri di Stefan Zweig, Mondadori,
Milano, 1994, traduzione di Lavinia Mazzucchetti)
Stefan Zweig
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