CONTRO
LA MORTE DELLO SPIRITO
Álvaro
Mutis
"SENZA DENUNCIARE POLITICHE GOVERNANTI, NÉ RIPUDIARE
MISURE ECONOMICHE, NÉ PROTESTARE CONTRO DETERMINATE ATTIVITÀ
SOCIALI", LO SCRITTORE COLOMBIANO ÁLVARO MUTIS, ULTIMO
PREMIO CERVANTES, E L'EDITORE JAVIER RUIZ PORTELLA, LANCIANO UN
AUDACE MANIFESTO CONTRO LA MORTE DELLO SPIRITO, NELLA SPERANZA
DI APRIRE UNA BRECCIA, ORA CHE È LA VITA DELLO SPIRITO
QUELLA IN PERICOLO. PERCHÉ, PROCLAMANO, IL MATERIALISMO
OGGIGIORNO IMPREGNA LE PIÙ INTIME RISORSE DEL NOSTRO PENSIERO
E DELLE NOSTRE ABITUDINI, MENTRE SVANISCE "QUESTA INQUIETUDINE
GRAZIE ALLA QUALE GLI UOMINI SONO E NON SOLO ESISTONO AL MONDO".
SI TRATTA DI UN'INIZIATIVA CHE, FORSE, AGITA E RIDUCE AUTOCOMPIACIMENTI.
È ORA DI AGIRE. O, ALMENO, DI PRENDERE LA PAROLA.
Noi
che poniamo le nostre firme in fondo a questo Manifesto, non siamo
spinti dalle ansie che di solito caratterizzano il firmatario
di proclami, proteste e rivendicazioni. Il Manifesto non pretende
di denunciare politiche governanti, né di ripudiare misure
economiche, né di protestare contro determinate attività
sociali. Si innalza contro qualcosa di molto più generale,
intimo
e quindi diffuso: contro la profonda perdita di senso
che commuove la società contemporanea.
Continua ancora ad esistere, sicuramente, qualcosa di simile al
senso; qualcosa che, pur sorprendente che sia, giustifica e riempie
la vita degli uomini di oggi. Per questo, il presente Manifesto
si innalza, parlando più propriamente, contro la riduzione
di tale senso con lo scopo di preservare e migliorare ( ad un
grado, sicuramente, ineguagliabile da qualsiasi altra società)
la vita degli uomini.
Lavorare, produrre e consumare: è tutto così l'orizzonte
che da senso all'esistenza degli uomini e delle donne di oggi.
Basta, per constatarlo, leggere le pagine dei periodici, ascoltare
i programmi della radio, deliziarsi davanti alle immagini della
televisione: un unico orizzonte esistenziale (se lo si può
definire così) presiede in tutto ciò che si esprime
nei mezzi di comunicazione di massa. Basandosi sull'infervorato
applauso di queste, tale orizzonte proclama che nella vita si
pensa ad una sola cosa: ad incrementare al massimo la produzione
degli oggetti, dei prodotti e della divulgazione al servizio del
nostro confort materiale.
Produrre e consumare: questo è la nostra parola d'ordine.
E divertirsi: intrattenersi con i passatempi (si definiscono con
tale termine: " attività di ozio") che l'industria
culturale e i mezzi
di comunicazione lanciano sul mercato con lo scopo di riempire
quello che, indebitamente, può classificarsi come "vita
spirituale"; con lo scopo di riempire, parlando più
propriamente, ciò che costituisce questo vuoto, questa
mancanza di inquietudine e d'azione che la parola ozio esprime
a pieno rigore.
A questo si riduce la vita e il senso dell'uomo di oggi, quella
di questo "uomo fisiologico" che sembra trovare la sua
maggiore realizzazione nel soddisfacimento delle necessità
che derivano dal suo mantenimento e sostentamento. Risulta obbligatorio
riconoscere, naturalmente, che in un impegno simile (soprattutto
nel miglioramento delle condizioni sanitarie e nell'incremento
della longevità, che si è quasi duplicata nel corso
di un secolo) gli esiti raggiunti sono assolutamente spettacolari.
Sono grandi anche i traguardi che la scienza ha raggiunto nella
comprensione delle leggi che reggono i fenomeni fisici formanti
l'universo in generale e la terra in particolare. Lontani dal
ripudiare tali traguardi, noi firmatari del presente Manifesto
non possiamo fare altro che accoglierli con profondo e sincero
giubilo.
È proprio questo giubilo che ci spinge ad esprimere lo
stupore e l'angoscia davanti il paradosso che, al momento in cui
tali conquiste hanno permesso di alleviare considerevolmente la
sofferenza della malattia, mitigare la durezza del lavoro, espandere
la possibilità della conoscenza (ad un grado mai sperimentato
prima d'ora e a delle condizioni di uguaglianza mai conosciute):
in un momento caratterizzato da tanti salutari profitti, risulta
essere proprio ora quando, ridotta ogni prospettiva al mero incremento
del benessere, la vita dello spirito corre il pericolo di rimanere
annichilita.
Ciò che mette in pericolo non sono, eccetto l'ecatombe
ecologica, i benefici materiali così raggiunti; è
la vita dello spirito ad essere minacciata. Lo dimostra, tra mille
altre cose, il puro fatto che è diventato perfino problematico
usare il termine "spirito". È tale il materialismo
che impregna i meandri più intimi del nostro pensiero e
del nostro cuore, che basta usare positivamente il termine "spirito",
basta attaccare sotto il suo nome il materialismo regnante, perché
la parola "spirito" si veda automaticamente colmata
di dispregiative connotazioni religiose, se non addirittura esoteriche.
È necessario perciò precisare che non è l'inquietudine
religiosa quella che spinge i firmatari del presente manifesto,
indipendentemente da quello che quest'ultimi possono pensare riguardo
la relazione tra "lo spirituale" e "il divino".
Quello che ci spinge non è l'inquietudine davanti la morte
di Dio, ma davanti quella dello spirito: davanti la scomparsa
di questo alito per il quale gli uomini si affermano come uomini
e non solo come entità organiche. L'inquietudine che qui
si esprime è quella derivata dal veder svanire questo affanno
grazie al quale gli uomini sono e non solo esistono al mondo;
questa ansia per la quale esprimono tutta la loro felicità
e la loro angoscia, tutto il loro giubilo e il loro tormento,
tutta la loro affermazione e la loro perplessità davanti
al prodigio di cui nessuna ragione potrà mai renderne conto:
il prodigio di essere, il miracolo per cui gli uomini e le cose
sono, esistono: sono dotati di senso e significato.
Per che cosa noi uomini viviamo e moriamo; noi che crediamo di
aver dominato il mondo
., il mondo materiale, si intende?
Qual è il nostro senso, il nostro progetto, i nostri simboli
.,
questi valori senza i quali nessun uomo né nessuna collettività
esisterebbero? Qual è il nostro destino? Se tale è
la domanda che getta le fondamenta e dà senso a qualsiasi
tipo di civilizzazione, da parte nostra ignoriamo e disdegniamo
tale tipo di domanda: una domanda che non viene neppure formulata,
a cui, se lo fosse, si risponderebbe: "Il nostro destino
è quello di essere privi di un destino, è quello
di essere carenti di ogni tipo di destino che non sia l'immediato
sopravvivere."
Essere carenti di un destino, essere privi di un principio regolatore,
di una verità che garantisca e guidi i nostri passi: simile
assenza-simile niente- è senza dubbio quello che cerca
di riempire la voragine di prodotti e distrazioni con cui ci colmiamo
e ci accechiamo. Da qui derivano i nostri mali. Ma da qui derivano
anche - anzi: da qui potrebbero derivare, se lo assumessimo in
maniera molto diversa - tutta la nostra forza e grandezza: quella
degli uomini liberi; la grandezza degli uomini non sottomessi
a nessun Principio assoluto, a nessuna Verità predeterminata;
l'onore e la grandezza degli uomini che cercano, si interrogano
e aspirano: senza rotta né destinazione precisa. Liberi,
ossia, abbandonati. Senza tetto né protezione. Aperti alla
morte.
Abbozzare la prospettiva anteriore non significa, né vuole
dire né ha niente da risolvere. Contrariamente a tutti
i comuni Manifesti, questo non ha la pretesa di suggerire misure,
pianificare azioni, proporre soluzioni. Ormai, fortunatamente,
è passato il tempo in cui un gruppo di intellettuali potevano
immaginarsi che, nel plasmare le loro ansie e i loro progetti
su di un foglio così bianco come il mondo che pretendevano
di modellare, che continuava a seguire la rotta prefissata. Tale
è il sogno - il richiamo - del pensiero rivoluzionario:
questo pensiero che, essendo riuscito a porre il forcipe del potere
al servizio delle sue idee, così è riuscito - ma
con le conseguenze che sappiamo - a trasformare il mondo in brevi
e orrende decadi.
Il mondo non è affatto il foglio bianco che immaginavano
i rivoluzionari. Il mondo è un affascinante e a volte terrorizzante
libro intrecciato di passato, enigmi e spessore. Quindi i firmatari
del presente Manifesto non pretendono di plasmare nessun nuovo
programma di redenzione in nessun nuovo foglio bianco. Pretendono,
anzitutto, e già sarebbe tanto, raggruppare voci unite
da un simile malessere.
Già sarebbe molto, infatti: poiché la cosa più
curiosa, per non dire la più inquietante, è che
simile malessere non abbia trovato fino ad oggi nessun autentico
modo d'espressione. Ancora più angosciante che la stessa
morte dello spirito, è il fatto che, eccetto alcune voci
isolate, tale morte sembra lasciare i nostri sottomessi contemporanei
nella più completa delle indifferenze.
Per questo il primo obbiettivo che si propone questo Manifesto
è quello di sapere in che misura tali riflessioni sono
suscettibili di destare un minimo, mediocre o (forse) ampio eco.
Nonostante il pessimismo che impregna questo Manifesto, vi batte
la scapigliata speranza di pensare che non sia possibile che solamente
alcune voci isolate a volte si innalzino per opporsi al senso
che caratterizza il nostro tempo. Nella misura in cui tale senso
continui ad essere dominante, è evidente che inquietudini
come quelle qui espresse potranno plasmarsi solo in un grido,
in una denuncia. Questo è ovvio. Ma non lo è quando
un simile grido non figuri neppure iscritto in quell'aspetto critico,
contestatore e trasgressore che tanto aveva caratterizzato la
modernità, almeno ai suoi inizi. Come se fosse la cosa
migliore nel migliore dei mondi, non rimane quasi niente di quella
attitudine critica: oggi le rivendicazioni ecologiste (così
legittime come rinchiuse nel più piatto dei materialismi)
sono le uniche che spingono la protesta, alle quali dovremmo aggiungere
i resti putrefatti di un comunismo ugualmente materialista e tanto
insonne che non sembra neppure aver sentito parlare dei crimini
che, commessi sotto la sua bandiera, sono paragonabili solo a
quelli realizzati dall'altro totalitarismo di segno apparentemente
opposto.
Scomparso l'aspetto inquieto e critico che un tempo ha onorato
la modernità, consegnato il nostro tempo nelle mani esclusive
dei signori della ricchezza e del denaro - di questo denaro il
cui spirito impregna in ugual misura i suoi vassalli-, allora
resta solamente la possibilità di lanciare un grido, di
esprimere un'angoscia.Tale è il fine del presente Manifesto,
che, oltre a lanciare il suddetto grido, pretende anche di rendere
possibile che si apra un approfondito dibattito. Né è
necessario aggiungere che sia le questioni qui esplicitamente
appuntate, che le tante altre che ne sono implicate, non possono
trovare la loro esatta espressione nel breve spazio di un Manifesto.
Perciò già si vedrebbero abbondantemente colmati
i suoi propositi, se a partire dalla sua pubblicazione si aprisse
un dibattito nel quale partecipassero coloro che si sentono presi
dalle inquietudini qui abbozzate.
Appuntiamo solamente alcune delle questioni attorno alle quali
si potrebbe lanciare tale dibattito. Se "il tema del nostro
tempo", per parafrasare Ortega, non è altro che quello
costituito da questo profondo paradosso: la necessità che
si apra una destinazione per gli uomini privi di destino e che
continueranno ad esserlo, se la nostra questione è l'esigenza
che si apra un senso per un mondo che scopre- sebbene sfacciatamente
nascosto- tutto il superfluo del mondo; se tale è, quindi,
il nostro "tema", allora la domanda che sorge è:
tramite quali cause, quali mezzi, quale contenuto, quali simboli,
quali progetti
può arrivare ad aprirsi una simile
donazione di significato?
Il paradosso di prima- disporre o non disporre di un destino;
affermare un senso definito al superfluo stesso del mondo-, tutto
questo rischioso ma esaltante esercizio d'equilibrio davanti all'abisso,
tutto questo mantenersi sulla movimentata "frontiera"
che fa da mediante tra la terra ferma e il vuoto: tutto ciò
non assomiglia all'abisso, al paradosso stesso dell'arte: della
vera arte, di quella che non ha niente a che vedere con l'intrattenimento
che oggigiorno si vende con il suo nome? "Abbiamo l'arte
per non morire di verità", ossia, della razionalità,
diceva Nietzsche. Forse si, chissà che non sia l'arte che
possa liberare il mondo dalla sua abulia e dal suo torpore. Per
questo, ci mancherebbe anche che l'immaginazione artistica ricuperasse
nuovo impulso e vigore. Ma ciò non basterebbe. Ci mancherebbe
anche che, smettendo di essere sia un intrattenimento che un mero
ornamento estetico, l'arte ricuperasse il posto che le spetta
nel mondo; tornasse ad essere assunta come l'espressione della
verità che l'arte è e che non ha niente a vedere
con la mera contemplazione effettuata da un ozioso spettatore.
Ma, ciò è possibile in questo mondo in cui non solo
la banalità e la mediocrità, ma la bruttezza stessa
(bruttezza architettonica e decorativa, bruttezza musicale e nel
modo di vestire
) sembra che si stia trasformando in uno
dei suoi assi centrali? È possibile questa presenza viva
dell'arte in un mondo dominato dalla sensibilità e dall'applauso
delle masse? È possibile che l'arte si installi nel cuore
del mondo senza che riviva - ma come? - quello che è stato
per secoli l'autentica, la vivissima cultura popolare? Tale cultura
oggi è scomparsa, immolata su un altare di un' egualianza
che considera tutti alla stessa stregua, che impone a tutti la
sottomissione ad una stessa cultura - il culto - che la nostra
società considera possibile e legittima. Non è dunque
la questione stessa dell'egualianza - quella delle sue condizioni,
possibilità e conseguenze - quella che, in tal modo, rimane
aperta, quella che risulta inevitabile da impostare?
Abbozziamo un'ultima domanda, forze la più decisiva. Tutta
la spiritualizzazione qui denunciata, è strettamente collegata
con quello che dovremmo denominare il disincanto di un mondo che
ha realizzato il più profondo dei disincanti: ha annichilito
le forze soprannaturali che, dall'inizio dei tempi, reggevano
la vita degli uomini e davano un senso alle cose. Non manca neppure
di insistere sulla necessità di tale disincanto per spiegare
i fenomeni fisici che formano l'universo. Gli risultano imprescindibili
le armi di una ragione le cui conquiste materiali (sia teoriche
che pratiche) sono soverchiamente provate. Dunque, non sono queste
stesse armi e queste stesse conquiste quelle che pervertono tutto,
quando, non applicandosi in ciò che è materiale,
cercano di rivolgersi a ciò che è spirituale? Non
è il potere della ragione colui che riduce tutto ad un
meccanico ingranaggio di causa ed effetto, di funzioni e utilità,
quando pretende di affrontare il significato del mondo, quando
cerca di fronteggiare il senso dell'esistenza? Il nocciolo del
problema, non si basa su questo smisurato potere che l'uomo si
è attribuito nel proclamarsi non solamente "padrone
e signore della natura", ma anche padrone e signore del significato?
Solo, sicuramente, grazie alla presenza dell'uomo sorge, si dispensa
questa "cosa", la più portentosa di tutte, quella
che definiamo come significato. Ma da questo non si deduce affatto
che l'uomo disponga del suo significato, sia suo padrone e signore,
domini e controlli un mistero che lo trascenderà sempre.
In fondo simile trascendenza non è altra cosa che ciò
che, per secoli, è stato espresso sotto il nome di "Dio".
Mettere a fuoco le cose da tale prospettiva, non equivale dunque
a piantare - ma su basi radicalmente nuove - la domanda che la
modernità aveva creduto di poter ovviare per sempre: la
questione di Dio?
Lasciamo aperta, come le precedenti, questa ultima domanda: quella
di un insolito dio (forse conveniva per questo scrivere il suo
nome con la minuscola), la domanda di un dio che, mancando di
una propria realtà- non appartenendo né al mondo
naturale né a quello soprannaturale-, dipenderebbe dagli
uomini e dalla immaginazione, come quest'ultimi dipendono da lui
e dall'immaginazione. A quale mondo, a quale tipo di realtà
simile dio potrà appartenere? Non potrebbe certamente appartenere
a questo ordine soprannaturale la cui realtà fisica è
sempre stata smentita.. da Sua Santità il Papa, che nel
luglio del 1999- ma nessuno se ne accorse- affermava che "il
cielo [
] non è né un'astrazione né
un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con
Dio." Dove può dimorare dio, in che cosa può
consistere la natura divina, se nessun luogo fisico le conviene,
se si tratta solamente di un "rapporto"? Dove può
dimorare dio, se non in questo luogo ancora più prodigioso
e meraviglioso che è costituito dalle creazioni dell'immaginazione?
Impostare la domanda di Dio non è altro, infine, che impostare
la domanda sull'immaginazione, interrogarci sulla sua natura:
quella di questa forza che, a partire dal nulla, crea segni e
significati, credenze e passioni, istituzioni e simboli
;
questa forza da cui forse dipende tutto e da cui l'uomo moderno,
come non potrebbe essere altrimenti, pretende essere anche padrone
e signore. Così questo uomo crede che, guardando con sorriso
accondiscende ai segni e i simboli di ieri e di oggi, esclama
scherzoso "Mah, sono solo immaginazioni!", bugie, dunque.
(Tratto dalla rivista spagnola El Cultural, traduzione
di Samanta Catastini)
Álvaro
Mutis
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