DAL DESIDERIO ALLA LEGGE

IL TEATRO DI AUGUSTO BOAL


Alessandra Vannucci


La vicenda che voglio narrarvi, il Teatro Legislativo, è il più recente germoglio nel percorso creativo del regista ed autore brasiliano Boal, da tempo evaso dall'incastellamento formale dei 'teatri' alla ricerca del 'teatro' come prerogativa umana ed utensile comunicativo, ovunque esso occorra. Un percorso, quello di Boal, votato a perpetue riconfigurazioni con il variare dei contesti; e che in Italia ha goduto di alterna fortuna editoriale. Premiato dapprima dalla parabola ascensionale dell'impegno, cui Boal partecipa con il Teatro degli oppressi (Feltrinelli: 1977), cade poi nella celebrità obliosa cui lo relega la fama subito 'datata' di quel testo; riemerge con Il poliziotto e la maschera e L'arcobaleno del desiderio (Meridiana: 1993 e 1994), pubblicazioni originariamente francesi che divulgano gli approdi del suo 'doppio esilio': dal Sudamerica verso Parigi (ove risiede negli anni 80, fuggendo alle persecuzioni dei regimi militari) e dai palchi istituzionali verso quelli alternativi (comunità di quartiere, tematiche o terapeutiche). La più recente tappa dell'ultimo titolo tradotto, Dal desiderio alla legge. Manuale per un teatro di cittadinanza (Meridiana: 2002) narra della circostanza singolare e quasi unica nella storia del teatro e nella storia della politica, che vede protagonisti Boal ed il suo gruppo a partire dagli anni '90: una compagnia d'attori viene eletta al Consiglio Comunale di una grande metropoli (Rio de Janeiro) con il mandato di coinvolgere la cittadinanza all'esercizio del potere legislativo, assimilando lo strumento-teatro ai dispositivi politici di partecipazione e promulgando leggi a partire dal sondaggio in scena delle libere opinioni.
Il caso emerge unico nel panorama di fine millennio: scavalca con un balzo lo stato di sconforto dell'arte svilita nell'impero delle merci vendibili e mortificata come un'arma spuntata nell'attuale regime d'asservimento degli antagonismi (politici, culturali). La lunga coerenza di Boal alla sua vocazione centrifuga lo pone dunque oggi, come uomo di palco e di penna, paradossalmente al centro di un rinnovato concorso d'interesse sul tema, più che mai alla ribalta, delle alternative possibili all'omologazione planetaria. Simultanea al caso brasiliano, proprio nel corso dell'ultimo decennio emerge la militanza internazionale no-global, manifestandosi come forza di pressione sui vertici dei paesi a maggior sviluppo economico (i G8 da Seattle a Genova). Tale movimento reclama Boal tra i maestri di un sapere critico necessario in cui, a partir da presupposti teorico-pratici come l'analisi dei microsistemi di potere ed il reperimento di obiettivi politici tramite giustificate 'disobbedienze civili', si indaghino le modalità della costruzione di una cultura globale, sì, però democratica e partecipativa (cfr. KLEIN: 2000 e HARDT-NEGRI: 2001). Il nuovo fronte di resistenza noto come 'popolo di Seattle', più informale e segmentato di quelli tradizionali, strutturato a scala mondiale sulle maglie mobili di 'reti' al tempo stesso tecnologiche (internet) e di base (associazionismo internazionale), si adopera in azioni coordinate che possano interferire nell'ordine del giorno del processo di globalizzazione in atto, ostacolando l'egemonia dell'accordo corporativo tra forze economiche multinazionali e ridando voce agli individui ed ai contesti locali. I soli in grado, forse, di elaborare soluzioni sostenibili per il nostro pianeta venduto.
Contro la politica di smobilitazione messa in atto a più riprese sul 'popolo di Seattle' da un potere barricato e repressivo, la grande assemblea di Porto Alegre (Brasile: 2001, 2002) pare esaltare, con energia latinoamericana al tempo stesso utopica e sanguigna, la necessità di uno sforzo ricostruttore disegnando i contorni concreti di un 'altro' mondo, a rovescio di questo fin dalla cartografia. Un mondo migliore e possibile, ove si opponga al solipsismo coatto dell'individuo-consumatore la rivitalizzazione politica dell'individuo-cittadino, come soggetto d'azione e pensiero, attore della ragione e della trasformazione dialettica della realtà. L'utopia scende in campo e vai à luta nel momento attuale, quando in Brasile viene eletto Presidente della Repubblica, con l'incredibile margine del 63% di preferenze, l'unico candidato rappresentante, per biografia e ideali, della maggioranza miserabile del Paese: il candidato del PT (Partido dos Trabalhadores) Luiz Inácio Lula da Silva.
La rinnovata attualità di Boal è dunque da ricondurre a questo contesto operativo di creazione di nuovi soggetti collettivi - un contesto politico e culturale connesso ad un punto di vista non europeo, che pur si rivela forte dell'eredità democratica europea. Per esempio, l'interferenza dei desideri della gente nella delibera dei bilanci preventivi, stimolata dalla giunta PT di Porto Alegre, di Santo André e di altri municipi brasiliani, dinamizzando il diritto-dovere alla cittadinanza e realizzandolo in momento di riflessione plurale, ridá voce in capitolo all'uomo comune e restituisce il governo della città alla piazza (nel senso greco dell'agorà come spazio dedicato al dibattimento pubblico e non in quello, proprio dei regimi autoritari, dell'espressione massiccia del consenso coatto). Fin dagli anni '80, nelle piazze di molte città brasiliane e del mondo, il 'teatro-forum' di Boal, stimolando l'intervento organico del pubblico alla ricerca di soluzioni per una situazione di crisi, realizza laboratori politici collettivi; e dimostra quanto sia percorribile la 'vecchia idea' di Brecht sulle potenzialità pedagogiche dell'arte comunicativa per eccellenza. Con Boal l'arte della scena, pur restando fedele al suo mandato estetico/spettacolare/diversivo, non si limita più alla testimonianza o al buon consiglio (il teatro politico) ma interferisce nella pratica democratica come strumento di transizione e dialogo (il teatro come politica).

Il teatro nell'arena degli scambi

Boal festeggerà a breve i cinquant'anni di palcoscenico. Fin dai primi passi di regista ed autore, intende il teatro come strumento dialettico di conoscenza (induttivo e non prescrittivo) e si disfa di eventuali obblighi formali, usando spregiudicatamente la finzione auto-riflessiva che ne è prerogativa. Il segreto del teatro, secondo Boal, non è altro che un artificio speculare: la capacità di 'vedersi in situazione', che è peculiare della natura umana prima di esser segreto dell'arte dell'attore - arte che ha per soggetto ed oggetto l'uomo stesso. Se è vero che conoscere è riconoscere, lo 'specchio' del teatro funziona al modo del dialogo platonico: cioè, come una strategia d'auto-inganno messa in atto per spiazzare il consenso della coscienza collettiva, demistificarne i rituali e smascherare i comportamenti.
La finzione che è 'struttura' propria del teatro è recuperata a paradigma della drammatizzazione sociale e, lasciandosi alle spalle la funzionalità specialistica dell'arte fatta mestiere, viene applicata da Boal come 'impalcatura' per l'osservazione e la verifica del reale. L'approccio di Boal è sintonizzato, fin dagli anni '60, con premesse sociologiche (come la definizione dei paradigmi di teatralità nella dimensione pubblica, da parte di GOFFMANN: 1956) e poi antropologiche (come la fondazione rituale della socialità, da parte di TURNER: 1976). Tali stimoli teorici scendono immediatamente in campo, confluendo nella battaglia teatrale contro la dittatura ipnotica del verosimile e per l'affermazione maieutica del 'vero'. Nella battaglia trovan partito, da una parte, l'assunzione empirica del 'sistema' di compiti de-meccanizzanti di Stanislavskij (un'eredità disciplinare riformulata da Boal in 'arsenale' di tecniche ausiliarie alla presa di coscienza); dall'altra, l'inesausto stimolo (che da categoria critica si fa anche, per Boal, circostanza esistenziale) della ricerca del teatro 'fuori dai teatri' e, dunque, dell'attore nell'uomo qualunque.
Questo percorso, che già negli anni '60 col Teatro de Arena di São Paulo aveva condotto Boal all'abolizione del sipario, all'adozione del palco circolare e all'applicazione sperimentale del sistema coringa (un narratore-raisonneur che interferiva nella ricezione della vicenda narrata), negli anni '70 e '80 lo porta, col Teatro dell'Oppresso, al superamento della dicotomia spaziale e concreta tra attori e spettatori. Questi ultimi, da soggetti passivi sono attivamente coinvolti alla realizzazione dello spettacolo: da spettatori diventano spett-attori.
Tale rovesciamento è solo apparentemente affine alla ricerca di un teatro 'de-teatralizzato' che, come aporia critica, inquieta la modernità scenica europea e muove tanti registi 'fondatori' (Copeau, Grotowski, Barba) a spostare il loro lavoro in comunità-laboratorio il più possibile lontane dalla mercificazione dell'arte soggetta alla luce dei riflettori. Infatti, seppur dichiarato, l'antitradizionalismo di Boal non lo àncora al gusto avanguardista della profanazione, ma piuttosto lo conduce ad un generoso rovesciamento dialettico ed assimilativo: "tutti possono far teatro, persino gli attori; si può far teatro dappertutto, anche nei teatri". La sua 'crisi' intellettuale non si risolve in isolamento ma, piuttosto, manifesta nel proprio contesto operativo possibilità (endogene o eterodosse) che possono essere fatte proprie dalla prassi come opportune attrezzature sperimentali, restituendo alla pratica, in forza della ragione, lo stimolo creativo di induzioni radicali. Così, la trasgressione del tradizionale patto di passività che nella società borghese salvaguarda l'esclusiva attività degli artisti separandoli dal pubblico seduto e zitto, conduce Boal non all'esclusione ma alla reintegrazione organica della funzione-spettatore come ruolo alternabile tra i partecipanti all'evento scenico (il pubblico si alza, parla ad alta voce e sostituisce l'attore in scena). Lo spettatore (dal lat. spectare) è colui che guarda lo spettacolo (ciò che deve essere guardato). L'artificio del 'vedersi in situazione', al centro del fatto teatrale sia nell'attore che finge d'essere il personaggio e sia nello spettatore che si identifica, è così messo in uso come strumento dialettico e stimolo maieutico alla conoscenza, attraverso la mimesi e la reminescenza.
È nel ripetersi della scena, in cui sempre incide un 'accidente sostanziale' (direbbe Gadamer) prodotto dalla variabile interferenza dello spett-attore, che l'espressione teatrale - non intesa nel senso di un rituale catartico, ma come manifestazione indotta di epifanie significanti per la vita - realizza per Boal il suo potenziale ermeneutico di svelamento. È dunque, proprio l'osservatore che installa la spirale metaforica, dando vita all'evento comunicativo in cui interviene come soggetto competente (in quanto parte di una comunità interpretativa) alla decodificazione delle maschere ed al montaggio dei segni, ed articolando la polisemia delle immagini in risonanza con le più svariate forme e modi di condotta in cui, nella vita, gli si presenta l'interazione sociale. La convenzione prospettica della pluralità dei 'punti di vista' è così assunta a paradigma interpretativo della relatività del 'vero', permettendo all'osservatore di mettere a confronto le multiple forme della realtà, d'immaginare alternative al dato ed eventualmente di porle a prova entrando in scena. Questa modalità di fruizione, anticatartica e storicizzata, consente ai partecipanti di concepire le relazioni di potere come modificabili. Ciascuno poi, riorganizzando le proprie gerarchie empiriche, è potenzialmente messo in grado di trasferire al gioco sociale gli effetti 'probatori' dell'interazione scenica.

Estetica dello spett-attore

Fin dal Teatro-Immagine (e poi nelle sue declinazioni terapeutiche) Boal - attraverso l'abolizione della convenzione di passività in platea con gesto che prefigura le più radicali posizioni dell'estetica della ricezione - riconosce e legittima allo spettatore tale ruolo di esegeta/autore dell'evento spettacolare. Nel teatro, se per un verso lo spettatore, con la sua presenza, designa e 'riempie' di significati soggettivi l'essenziale opacità di un'arte quanto nessun'altra effimera e resa all'indeterminazione; per altro verso, proprio in virtù della sua distanza dalla finzione che inscena un rituale sociale, egli ne contratta il senso, sorvegliando la coerenza 'oggettiva' dei fatti narrati ad un codice enciclopedico storicamente determinato (luoghi comuni percettivi, reattività contingente, congruenza dei linguaggi) ed eventualmente vi si riconosce. Il processo d'identificazione può arrivare a produrre una trasformazione interna (d'effetto catartico/terapeutico) e/o un cambiamento nel suo agire verso la collettività (d'effetto rivoluzionario/politico).
Nell'estetica dello spett-attore di Boal (come già per l'attore epico di Brecht) questo moto alterno di presenza e distanza, adesione ed astrazione (assorbito dal metodo di produttività della critica scientifica) porta ad esaltare la funzione simbolica dello 'scarto' tra reale e rappresentazione (mimesi del reale). Tale scarto, simbolico, viene ben rimarcato sui confini concreti dello spazio estetico - chi penetra nel 'ring' è attore, chi osserva da fuori è spett-attore, in attesa di entrarvi; con ruoli intercambiabili. Coscienti dello scarto che denuncia la relatività di quella realtà rappresentata, l'attore 'scrive' per immagini e fa di se stesso un testo messaggero di senso, mentre lo spettatore 'legge' quel testo come documento non innocuo, lo fa proprio, lo ricontestualizza ed interpreta.
Sostituendosi al dibattito che nel teatro agit-prop seguiva lo spettacolo, nel Teatro-Forum l'ingresso in scena dello spett-attore in veste di personaggio fa del dibattito 'attuato' il vero spettacolo, ove non s'inscena più una finzione prestabilita, ma si provano possibili vie d'uscita al dilemma reale su cui la scena è radicata. Attori e spett-attori agiscono d'improvviso, ricondotti alla contingenza d'individui nel gruppo, ciascuno attingendo al proprio personale bagaglio di esperienze e tutti accomunati dalla messa in prova di una favorevole modificazione collettiva, a monte delle identità socialmente riconosciute o coatte. Dunque, anche se l'attività teatrale parte sempre dal 'testo' (che in quanto opera estetica assegna compiti percettivi) solo l'esecuzione collettiva in forum ne fa un 'fatto' culturale organico, in grado di arbitrare la ragione dialettica e di negoziare la trasformazione sociale.
L'informalità empirica della prassi che tale idea innerva conduce poi Boal ad un triplo rovesciamento dei domini tradizionali del moderno pensiero - teatrale e non solo. In primo luogo, la riqualificazione dei ruoli di attore/spettatore in qualità di funzioni intercambiabili svincola l'artista dalla petizione di eroismo che lo vuole escluso profeta del mondo avvenire (attribuito all'artista, secondo Lukács, dal trascorso 'secolo alienato' ove la borghesia così compensa la sua tradita volontà di potenza); e sull'universalità dell'arte fonda una civiltà teatrale solidale, cui interessa (sulle tracce dell'umanesimo hegeliano) tutto l'uomo nella sua realtà di conflitto tra libere volontà - uomo storico, realtà concreta. In nome della mediazione dialettica tra mondo reale e mondo rappresentato l'attore, tra l'esser schiavo o signore della sua opera, va ad occupare nel teatro di Boal quello che potrebbe essere identificato come un 'terzo luogo' (così prefigurato, per l'arte, da Hegel) d'autonomia espressiva connessa all'osservazione delle varianti contestuali. In secondo luogo, sempre in nome della mediazione il regista (quale 'eminenza grigia' mortificato, per quel che riguarda la pretesa funzione di fautore unico del senso dello spettacolo, dalla pratica di autogestione delle avanguardie negli anni 70) ricompare sulla scena del Teatro-Forum in funzione jolli. Ora orchestra l'evento collettivo spettacolo-platea (come il 'presentatore' nel circo di azioni multiple di reinhardtiana memoria); ora frammenta l'azione con pause epiche a mo' di 'scarto' riflessivo (come un 'cartello' brechtiano in carne ed ossa), ora agisce da raisonneur - mediatore degli interventi del pubblico (verificandone la funzionalità e sottolineandone il carattere probatorio), ora è garante dello spazio estetico (non palco da comizio, ma banco di prova delle trasformazioni possibili).
Infine, dato il suo obiettivo partecipativo di ricostruzione del mondo reale, l'opera non s'accontenta d'impartir consigli o esortare all'azione, ma si propone come spazio-laboratorio pedagogico di apprendistato transitivo. I cittadini-partecipanti riproducono nello spazio estetico il gioco d'interazione sociale, percependo la complessità delle relazioni connesse all'esercizio del potere (in cui processi democratici e repressivi s'intrecciano) e sperimentando strategie per il mutamento sostanziale delle congiunture storicamente determinate da convenzioni riconoscibili.

Legislatori, guardate! (1)

Ed eccoci così tornati all'ultima ed estrema - o meglio, alla più recente - induzione di Boal, in cui il teatro in sé viene interpolato come strumento mediatore nella sfera ampia dell'attività politica in una democrazia rappresentativa come quasi tutte le moderne democrazie occidentali; in cui al cittadino viene sottratto il potere di legiferare giacché sulle convenzioni di legittimità agisce, per delega, il legislatore professionista. Qui il teatro-forum di Boal acquisisce nuovi compiti: non si limita all'auscultazione dei comportamenti e alla messa in scena delle modificazioni, acquisite in potenza dai partecipanti alla luce delle reazioni suscitate in ciascuno dalla finzione, ma monitorizza le reali variazioni dei modi di condotta e contratta, con le opposte forze in gioco nella comunità, le modalità (migliori e possibili) dell'interazione sociale futura. L'uso pubblico che i cittadini (con o senza l'appoggio del legislatore) potranno fare dei risultati propositivi raccolti tramite la mediazione del teatro, il profitto che potranno trarne in quanto collettivo, costituiscono dati talvolta esaltanti che interessano gli esiti del processo politico (in corso, come dicevamo, in qualche città del mondo) di costruzione di una democrazia transitiva e partecipativa. Ciò nondimeno a questo effetto mi pare già essenziale il risultato di invogliare un cittadino, reso cosciente del suo pertinente diritto a legiferare e non condizionato dall'imposizione del consenso di maggioranza, a partecipare del sondaggio delle pubbliche opinioni che si dà con il teatro-forum. Non è, allora, troppo utopico sperare che dal confronto creativo di un gruppo di individui mossi dall'intenzione di 'trovare soluzioni alternative' a vertenze ordinarie che né sindacati né partiti sembrano essere in grado di risolvere, possano sorgere risposte coerenti e sensate, ancorate al contesto locale e dunque virtualmente percorribili.

Teatro e cultura in tempo di globalizzazione

La febbre esplosa a fine millennio, lacerando il tessuto sociale fra opposte e dicotomiche tensioni culturali (globalizzazione / regionalismo; razionalità / neo-ritualismo; secolarizzazione / nuove spiritualità) ci impone l'abbordaggio di una complessità ardua da amministrare, nella ricerca di nuovi equilibri da fondarsi sull'individuo e sulla sua diversità. La pressione omogeneizzante dettata dal mercato è forte, fortissima in economie dipendenti e post-coloniali come quella del Brasile che, difatti, ha reagito alla fine dello stato-nazione ed alla 'decadenza' dell'Occidente radicalizzando il dibattito su temi controversi come identità nazionale, appartenenza ed eredità locale. Dinanzi allo sviluppo delle reti di comunicazione, la cui egemonia globale piegata ad interessi privati si presta come formidabile utensile di imposizione di consenso e di controllo, il tentativo di Boal riporta al teatro come luogo d'incontro pubblico e solidale, ove sia possibile alla comunità elaborarsi come 'popolo', combattendo non solo l'oppressione del potere, ma anche quella della coazione del pensiero acuita dall'analfabetismo (anche politico). A scongiurare il rischio di non avere risposte che trasformano, ma solo risposte che ripetono le asserzioni omologanti ed autoreferenziali del frullatore globale, questo teatro di Boal offre la possibilità d'imparare collettivamente a dire no, a resistere, opporsi e proporre alternative ciascuno in nome delle proprie opzioni e desideri, ciascuno col coraggio d'esser felice della propria singolarità. Come? Alzandosi ed intervenendo con un "così non mi va, io voglio far diversamente" - come fa lo spett-attore per diventare protagonista della scena e, per conseguenza, della propria realtà. Giacché, come dice Boal, l'atto di trasformare trasforma il trasformatore.

NOTE
(1) Paolo Giacometti, La morte civile, 1861. La battuta, pronunciata dal dottor Palmieri in favore del divorzio, concludeva epicamente un testo che, per coincidenza, fu cavallo di battaglia di Salvini nella trionfale tournée in Sudamerica del 1875.


Bibliografia:

BOAL, Augusto. Dal desiderio alla legge. Molfetta: La meridiana, 2002
GOFFMANN, Erwing. La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna: Il Mulino, 1969 (ed. orig. 1956)
KLEIN, Naomi. No logo. Economia globale e nuova contestazione. Baldini e Castaldi, 2000 HARDT, Michael & NEGRI, Antonio. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione. Milano:Rizzoli, 2001
TURNER, Victor. La foresta dei simboli, Morcelliana, 1976
-----------. Dal rito al teatro. Bologna: Il Mulino, 1986




Alessandra Vannucci è stata assistente di Boal e lo segue dal 1993, prima come stagista presso il Centro di Teatro dell'Oppresso di Parigi, poi collaborando stabilmente con il CTO-Rio durante l'ultimo anno del mandato politico-teatrale e la campagna per la rielezione; è ricercatrice universitaria, regista e drammaturga; vive tra l'Italia ed il Brasile. Ha tradotto in italiano gli ultimi lavori di Boal.

Nella foto, Augusto Boal


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